Si dice che il nome Eiger derivi dalla parola ogre: mostro. Infatti quella montagna è nota per la sua “mostruosa” parete nord. Ma c’è un altro mostro vicino a Grindelwald: lo Scheideggwetterhorn. Nel 1990 ho scalato il suo pilastro ovest “diretto”, per molto tempo la più seria scalata su roccia delle Alpi Bernesi (Robert Eckhardt).
Scheideggwetterhorn, l’altro mostro dell’Oberland Bernese
di Robert Eckhardt
Foto di Robert Eckhardt
La parte superiore di quel pilastro era già stato scalato nel 1945 dalle guide di Grindelwald Jakob Pargätzi ed Edwin Krähenbühl. Il loro percorso non era affatto elegante, in quanto il primo tratto si snodava sulle sgradevoli fasce rocciose minacciate dalle scariche di roccia e ghiaia della parete nord.
Nessuno vi si era avventurato per il pericolo che il ghiaccio si abbattesse sulla parte inferiore del pilastro.
Dopo cinque anni di osservazione della traiettoria di caduta del ghiaccio, Hans Peter Trachsel era giunto alla conclusione che solo la prima lunghezza di corda era minacciata. Lui e Paul von Känel erano disposti a correre questo rischio quando iniziarono la loro salita. Due giorni dopo raggiunsero la vetta alle dieci di sera.
Così nacque l’elegante pilastro ovest “diretto”.

Un mega progetto
Il primo giorno di agosto 1990 Arjen Bijlsma e io ci dirigiamo verso il pilastro. Non abbiamo fretta perché sappiamo che non riusciremo comunque a scalarlo in un solo giorno.
Quando raggiungiamo l’inizio del pilastro, abbiamo già scalato 300 metri e attraversato metà della parete nord, lungo terreno pericoloso. Con sollievo iniziamo la prima lunghezza di corda della salita. Ci muoviamo su roccia friabile, a strati di piastrelle. Ogni incontro con questa roccia ostile mi dà sui nervi. Anche il gigantesco strapiombo della quarta lunghezza di corda mi tormenta. “Sesto grado, senza una buona sicurezza e con roccia ad appigli rovesci”, mi aveva detto uno che l’aveva fatto.
Mi calmo un po’ grazie a un preciso calcolo. Quello strapiombo è nella lunghezza di corda che spetta ad Arjen. E poiché lui non si era mai trovato di fronte a quello spiacevole genere di stratificazione, poteva confrontarsi con quel problema a mente aperta.
Mentre seguo Arjen, riesco a cogliere tutta la spaventosità di questo ambiente. Ci sovrastano ancora 1.000 metri; si vedono pezzi di ghiaccio che dall’Hühnergutzgletscher cadono sopra di noi e attorno. Quando vedo un carro carico di ghiaccio, capisco perché il cono di neve alla base del pilastro sia così imponente. Le scariche che scaturiscono dalle torri di ghiaccio di quel ghiacciaio sospeso tuonano lungo il pilastro. A causa del rumore riusciamo a malapena a comunicare tra di noi.
Lo strapiombo
Poi ci troviamo sotto il famigerato strapiombo. Arjen parte dal terrazzino sulla destra e passa assicurandosi solo a due friend incastrati in una roccia non troppo solida. Fortunatamente lo sgocciolio dell’acqua che cola in abbondanza mi distrae. Mi permette di escludere l’idea di ciò che accadrebbe a quelle protezioni intermedie di dubbia efficacia se Arjen cadesse.
Stiamo gradualmente entrando nel modo giusto di vedere il tutto e questo è necessario perché le difficoltà cominciano a fare sempre più impressione. I chiodi scarseggiano, mettere friend non è per niente facile.
Il pilastro qui forma una sorta di spigolo verticale e sporgente. Per un po’ saliamo sul lato nord affacciandoci sul rilassante verde dei prati alpini sopra Grindelwald.
Poi saliamo sul lato sud, con sotto di noi un precipizio di tetre pareti calcaree coronate da gigantesche torri di ghiaccio.
L’unico suono è quello lugubre di un corvo, di tanto in tanto soffocato dal rombo della roccia che cade o dal crepitio del ghiaccio che si stacca.
Sono ora molto curioso di arrivare al passo chiave della prima giornata. È tecnicamente molto difficile, ma – una rarità in questo percorso – è ben attrezzato con chiodi. E infatti, come spesso accade, il passaggio chiave non si rivela la lunghezza più difficile. No, le fessure continue e verticali sono molto più impegnative. Non saranno magari tutte di sesto grado ma sono micidiali nella loro continuità. Dobbiamo salire con zaini in cui, oltre alle scorte d’acqua e all’attrezzatura da bivacco, abbiamo anche scarponi da trekking, ramponi e una piccozza per la discesa.
Bivacco sulla Spalla di Pargätzi
Come una macchina ben oliata, arriviamo in orario alle quattro e mezza sulla Spalla di Pargätzi. Non dovremmo essere al settimo cielo…? Ancora quattro ore, diceva la relazione, per le ultime cinque lunghezze di corda. Fortunatamente il buon senso supera l’entusiasmo: il giorno dopo infatti ci vorranno sei ore.
Troviamo un bel posto per bivaccare su una cengia della parete nord. Un sito a tre stelle, perché una sporgenza ci protegge da un acquazzone, che per fortuna passa in fretta e non ci fa sprofondare in tristi riflessioni sul tempo che vira al brutto. Al contrario, l’umore rimane al suo apice e ci prepariamo a guardare da questo balcone i festeggiamenti che in valle riservano alla festa nazionale svizzera.
Racconto ad Arjen la storia di due alpinisti olandesi che, proprio il 1° agosto, erano in situazione disperata su una montagna. Neppure i razzi di segnalazione gli servirono, perché non furono notati in mezzo a tutti gli altri fuochi d’artificio e falò.
Le nostre prospettive di successo sono molto migliori, ma la stranezza della nostra posizione comincia a farsi sentire quando arriva la musica da qualche parte sopra Grindelwald.
Che bivacco! Nelle profondità di quell’orchestra, distante da noi almeno una giornata di discesa, corde doppie comprese. Sopra di noi le torri di ghiaccio dell’Hühnergutzgletscher, che abbiamo guardato per tutto il giorno e che non sembrano neanche avvicinarsi. Domani la nostra unica via d’uscita verso la civiltà. Questo è quindi il luogo al quale approdarono Pargätzi e Krähenbühl uscendo dalla parete nord per iniziare il loro pilastro ovest.

La famigerata “fessura di 35 metri”
Nelle cinque lunghezze di corda dopo il bivacco c’è la parte più estrema dell’ascensione. A proposito della terza lunghezza di corda, la descrizione dell’itinerario riporta “molto impegnativo” e “senza chiodi”.
Ormai siamo così abituati a lunghezze di corda sprotette e difficili da scalare che quest’ultima avvertenza non ci preoccupa più di tanto. Ma questa è tuttavia la famigerata “fessura di 35 metri” dove non si può piazzare alcun friend di protezione. È la tipica offwidth, troppo stretta per infilarcisi con il corpo e troppo larga per un qualsiasi friend intermedio. Anche gli scalatori più bravi hanno parecchio da raccontare su questa lunghezza di corda. E’ proprio la sua reputazione che ha spaventato così tanto da costringere i più a non intraprendere quest’ascensione. Per la prima volta Arjen si toglie lo zaino, che isseremo con la corda. Con mio stupore a metà si toglie anche il casco, che lascia incastrato nella fessura. Mentre salgo dopo, di tanto in tanto mi ritrovo in eleganti posizioni sfalsate che Arjen non poteva certo permettersi da primo di cordata, perché una caduta lì avrebbe significato morte sicura. Per evitare di cadere doveva continuamente re-incastrare spalle e fianchi nella fessura scivolosa e repulsiva.
Anche le due lunghezze successive fanno paura ma, fortunatamente, con un po’ di attenzione possono essere messe in sicurezza.

sotto di esso il sospeso Hühnergutzgletscher.
I pionieri svizzeri
Che tipi erano Pargätzi e Krähenbühl, che nel 1945 riuscirono a superare questa roba? Sapevo dei famosi scalatori tedeschi e italiani degli anni Trenta, e dei francesi deagli anni Cinquanta. Ma gli svizzeri? Il fatto è che diverse cordate tedesche e italiane avevano raggiunto la spalla prima di Pargätzi e Krähenbühl. Ma tutti si erano arenati per le estreme difficoltà difficoltà di quel punto. Solo Pargätzi e Krähenbühl sono riusciti a passare e la loro via è stata subito qualificata da un selezionato gruppo di addetti ai lavori la più difficile via di calcare al di fuori delle Dolomiti. Le ripetizioni furono scarse, in parte a causa della roccia a sfasciumi presente sulle fasce della parete nord che porta al pilastro. Nel 1946, Edwin Krähenbühl, assieme a Hans Schlunegger, tentò la prima ripetizione della parete nord dell’Eiger.
L’impresa non riuscì. Ma i due tornarono tutti interi alla base della parete.
Note tecniche
Scheideggwetterhorn 3361 m, Pilastro Ovest diretto, dislivello 1300 m.
Difficoltà ED, VI, 41 lunghezze di corda, da 14 a 18 ore. Nel 1990 circa 40 chiodi in 41 lunghezze di corda! La terza lunghezza di corda dopo la Spalla di Pargätzi, completamente sprotetta, è valutata 5c nelle guide recenti.
Discesa estremamente delicata al Glecksteinhut 2317 m: AD, IV, 5 ore.
Base di approccio Berghotel Grosse Scheidegg 1962 m.
Guide CAS Clubführer Berner Alpen 5, Club Alpino Svizzero, ISBN 9783859021556.
Carte Landeskarte der Schweiz, 1229 Grindelwald, 1:25.000; Carta nazionale svizzera, 2520 T Jungfrau Region, 1:25.000.
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Salve a tutti, parecchi anni fa scrissi sul forum On-ice della nostra salita che non esiterei definire “fantozziana”. Rileggendo quest’articolo mi è rivenuta in mente quella bellissima avventura, era stata per me una grande lezione di umiltà e aveva innescato un deciso cambio di atteggiamento nella preparazione fisica e mentale per i miei progetti in montagna
http://www.on-ice.it/onice/viewtopic.php?t=11126&sid=384f3e405e1755ff65be09def2c88064
Giacoletto, le moderne guide alpine compiono atti eroici accompagnando in montagna certi clienti e, nonostante tecniche e attrezzature che un tempo non esistevano neppure, spesso rischiano la pelle molto più di un secolo fa. Garantito!
Bel racconto veramente…e che coraggio e che memoria precisa ..
dopo tanti anni ..
Complimenti.
Meno male che le Moderne Ģuide Alpine antepongono la sicurezza agli atti eroici ed è questo l “insegnamento che trasmettono ai giovani…
senza nulla togliere a chi in altri tempi ha rischiato ,con estremo ardore e çoraggio, la vita per realizzare un suo sogno
Alessandro Giacoletto
Ogni volta che ci ho messo il naso su questo strano calcare (Engelhorner, Eiger) sono rimasto abbastanza schifato, perfino la bella e solare via di Inwyler al Tellistock mi risulta ultimamente giù di moda – segno che i giovani preferiscono il calcare del Wenden malgrado lo zoccolo. Qui l’accesso è addirittura peggiore e la discesa pericolosa più che altrove, tuttavia mi complimento coi ripetitori.
Ma chi era questo Pargatzi mai sentito prima che riuscì dove non osarono tedeschi e italiani?…boh
Salite mostruose per chi ama soffrire e rabbrividire.
Notevole
Bell’articolo, avvincente, su un’impresa relativamente poco nota.