Sepolto per 50 minuti sotto la valanga
(“Sospeso in un mondo strano, gelido e buio”)
di Enrico Martinet
(pubblicato su La Stampa del 16 dicembre 2019)
Valle d’Ultimo (Ultental, NdR), ai confini tra Trentino e Alto Adige, 14 dicembre 2019, fine mattinata. Cima Tovo 3097 m (Tuverspitze o Tuferspitze, NdR). Tre scialpinisti dopo la lunga salita cominciano il divertimento della discesa, ma staccano una valanga gigantesca, a lastroni. Uno di loro, chi faceva la prima traccia, Fulvio Giovannini, 53 anni, geometra e esperto alpinista, con alle spalle l’attraversata invernale dell’Alaska con l’amico Maurizio Belli (1100 km, 55 giorni), rimane sepolto da 70 centimetri.
I suoi amici non riescono a trovarlo, nonostante fossero attrezzati con l’Artva, l’apparecchio radiotrasmittente che capta i segnali. Fulvio resta per 50 minuti sotto la neve. Neanche un graffio, soltanto freddo. Eccezionale, anche se non un record, c’è chi è riuscito a sopravvivere in valanga perfino per un giorno. Lui, Fulvio Giovannini, ci pensa un po’, poi dice: «Fortuna, gli altri mi hanno detto miracolo».

Ha pensato, questa sarà la mia tomba?
«Beh, un’ombra mi ha sfiorato. Attimi di confusione, di agitazione, ero bloccato, non riuscivo a muovere niente. Capivo poco, poi mi sembrava di vedere un bagliore davanti a me. Avevo le mani schiacciate sotto la pancia, riuscivo appena a muovere le dita. I piedi erano come nel calcestruzzo. Ho pensato “Madonna, che cosa ho fatto” e poi ho messo tutta la mia forza per muovermi. Niente».
Terrore?
«La paura se n’è andata quando il mio cervello mi ha detto “respiri”. Già, respiravo aria nella direzione di quel bagliore. Era una valanga di lastroni, quello mi continuava a tormentare perché faccio scialpinismo da trent’anni, ne ho visto tante, mi hanno sfiorato. So che sono terribili, ti fanno a pezzi. Ma io non avevo male da nessuna parte, dopo un po’ ho sentito freddo. Riuscivo a ruotare di qualche grado la testa, tutto lì. A un certo punto però ho avuto un attimo di panico…».
Perché?
«Perché fino a qual momento non riuscivo a sentire nulla e poi ho sentito dei boati. E ho pensato a un’altra valanga, avrebbe voluto dire essere sepolto. Ma dopo qualche minuto ho capito che erano raffiche di vento. Ci avevano già sorpreso mentre salivamo. Ho fatto un respiro, ma cominciavo a tremare per il freddo».
E i suoi compagni?
«Aspettavo che qualcuno mi trovasse perché avevo con me l’Artva e sapevo che anche Federico e Michele lo avevano. Speravo non fossero stati travolti. E poi ricordavo che al mattino avevo visto altri scialpinisti salire verso l’altra punta, l’Orecchio della Lepre (Hasenöhrl 3257 m, NdR), quindi qualcuno avrebbe visto la valanga e sarebbe venuto a cercarmi».
E invece il tempo passava…
«No, non per me, non mi rendevo conto del tempo. Ero come sospeso in un mondo strano, gelido e con una tenue luce. Quando mi hanno tirato fuori un soccorritore mi ha chiesto da quanto tempo ero lì e io ho risposto dieci minuti. Erano 50. Incredibile».
Ricorda come è stato travolto?
«Ricordo tutto. Conoscevo l’itinerario, lo avevo già fatto altre tre volte. Lo avevamo scelto perché era nevicato poco in quella zona, ma non abbiamo fatto i conti con il vento. Non mi sono accorto che aveva accumulato la neve, sembrava pendio…».

Lei dov’era?
«Ero davanti e mentre scendevo ho visto con la coda dell’occhio la neve che si muoveva dietro di me, ma a decine di metri. Ho avuto il tempo di gridare “parte” che l’avevo addosso perché i lastroni fanno effetto domino e in un attimo sei travolto. Sono riuscito a galleggiare poi come un’onda è salita al mio fianco, ho sentito una botta e sono stato travolto. Come in un vortice… il silenzio, il buio».
E il bagliore?
«L’ho visto davanti a me, come un filo di luce. Ho pensato di liberarmi in fretta, ma in realtà ero fra neve e ghiaccio, immobilizzato. E dopo l’agitazione, gli inutili tentativi di muovermi ho capito che potevo respirare. E mi sono calmato. Ho avuto fortuna di non capire quanto tempo passava, quindi l’attesa non è stata affannosa. Avessi saputo che i miei compagni mi stavano cercando 300 metri più lontano da dove ero io avrei avuto davvero paura. Non riusciamo a capire che cosa possa essere successo, un segnale fasullo».
Ma i soccorritori, che hanno anche visto un suo sci uscire poco lontano l’hanno subito individuata.
«Meno male, certo. Sono stati bravissimi, vorrei ringraziarli tanto. Così come i medici dell’ospedale di Merano. Mi hanno fatto due ecografie all’addome perché temevano che potessi avere ferite interne. Grande professionalità e umanità, grazie».
Attacca gli sci al chiodo?
«No, certo che no. Questa valanga mi ha insegnato molto. E oggi sono tornato là, ai piedi di quella massa di neve e ghiaccio. L’ho guardata per un po’, memorizzata».
DIDA
Fulvio Giovannini, l’esperto scialpinista ed esploratore scampato sabato mattina a una valanga
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Un automobilista, in virtú delle tecnologie moderne, non si sente autorizzato a correre lungo le strade: “Tanto c’è l’airbag. Tanto ho la cintura di sicurezza. Tanto guido il SUV”.
Se lo fa è imbecille.
Testimonianza veramente eccezionale! E sì, non c’è altro insegnamento da trarre se non che sotto la valanga bisogna evitare di finirci, adottando tutte le cautele e rinunciando quanto basta
” La morale è che non bisogna finire sotto, arva o non arva”
F.to
Grazia Alcà
Io penso che le esercitazioni devono essere tante e tali da far escludere la “consapevolezza”, far reagire in automatico e fare tutto ciò che serve per risolvere la situazione. Come per l’arrampicata, lo sci ed altre attività nelle situazioni di stress e dove non c’è tempo per pensare, gli automatismi, i protocolli sono indispensabili e aiutano a commettere meno errori.
Dino Marini
Infatti quello che intendevo è che normalmente si pensa che, se tutti hanno l’arva, in caso di incidente scatti un meccanismo oggettivo perché dominato dalla tecnologia. Viceversa, arva o non arva, la variabile dominante è la reazione emotiva delle persone coinvolte, sia i travolti sia gli illesi. E non vale neppure l’assioma che, se fai milioni di esercitazioni pratiche, sarai efficientissimo in caso di incidente perché le vere variabili in gioco sono imprevedibili: sotto la neve ci sono persone che conosci, cui sei legato e non è come cercare uno zaino (con arva) seppellito per esercitazione. Per carità si facciano a iosa le esercitazioni, ma resta l’imprevedibilità ingestibile a priori. Questo deve essere chiaro a tutti. Molta solidarietà per lo stress emotivo che avete subito tutti voi, sia colui che è rimasto travolto, sia gli altri. La morale è che non bisogna finire sotto, arva o non arva. Buona serata a tutti
Grazie per la condivisione, che può diventare una lezione e spunto di riflessione per noi lettori.
Quando si è coinvolti in un dramma, il coinvolgimento emotivo gioca un ruolo fondamentale.
Di sicuro è importante la scelta dei compagni di viaggio, ma la verità è che nessuno può sapere come reagirà a un dato evento, neppure se l’ha già vissuto, poiché saranno diversi il luogo, le condizioni meteo, gli attori, l’equipaggiamento e soprattutto la nostra forma fisica e lo stato emotivo.
Ho visto persone super esperte compiere gesti insensati, proprio perché sorpresi dagli eventi, ma anche individui estranei al contesto dimostrarsi fermi, attenti e utili.
grazie per la condivisione di queste emozioni e fatti. Ti voglio bene, come voglio bene a tutti gli scialpinisti, e spero che vada così bene a tutti, purtroppo non va sempre così, non perchè abbiano sbagliato di più o di meno, spesso è solo fortuna. Poi è giusto fare l’analisi, cercare di capire per metabolizzare e vivere sereni.
L’aspetto che più mi colpisce di questo interessante “racconto” è che gli amici lo cercavano a 300 metri di distanza. I soccorritori invece lo hanno cercato subito in zona: la loro attenzione è stata immediatamente attirata da uno sci del travolto. Caso classico, descritto in tutti i manuali: chi è rimasto fuori, forse perché preso da pathos forse per cieca fiducia nella tecnologia, si concentra unicamente sull’aggeggio elettronico e non pensa più a nient’altro, neppure a fare una perlustrazione visiva della valanga e a ragionare un po’ a mente fredda. Questo significa che, oltre a dotarsi dell’arva, occorre scegliersi bene i compagni di gita. In ogni caso esperienza del genere consolidano la mia convinzione che la principale priorità degli scialpinisti deve essere “sto sempre attento a non finire sotto una valanga” e non “massì, dai, tanto ho l’arva”. Quest’ultima frase non necessariamente deve essere lucidamente pensata, spesso è implicita nel modo di muoversi sulla neve.
Gallese, complimenti per come scrivi.
Mentre leggevo ero anch’io in quella tenda, con i sensi tesi.
A me è successo due volte, di farne conoscenza. La prima volta in un canale sotto il monte Vettore, sul versante ovest, sotto il Picco delle Aquile. Un grosso lastrone che si è staccato con me sopra, come su una grande zattera. Ricordo che il tempo si era come congelato. Trattenni il respiro per le poche decine di metri che la slavina percorse e ricordo ancora il lungo brivido elettrico che mi immobilizzò come un fuso. Quando i miei amici mi raggiunsero li guardai stupito, dicendo “Sono in piedi…”, non mi capacitavo. Poi risi a crepapelle come reazione nervosa.
La seconda volta ero sotto al Pizzo Stella, appena più in basso del ghiacciaio della Ponciagna. Li ho visto da vicino cosa fosse una grande valanga. Ci passò accanto, una cinquantina di metri e compresi come la neve nebulizzata possa soffocati come la polvere. E il suono… Non dimenticherò mai quel suono secco e tonante, poi tintinnante e tonfi che ti toglievano il respiro. Lo sento ancora, lo cerco tutte le volte che, da qualche parte, sento il secco breve colpo del ghiaccio che si rompe.
Soprattutto di notte, in tenda, mi è capitato di attenderlo con terrore, pur sapendo di essere in zona sicura. Perché una notte, verso la metà del Miage, lo ascoltai trattenendo il respiro. Basta un lieve crack e oggi mi sveglio di soprassalto, da quella volta.
E la cosa strana è che quei suoni mi attirano e affascinano. E tante volte mi sono fermato con il respiro per ascoltarli, remoti, lontani, ben chiuso nel mio sacco.
È buffo, ma proprio questa estate la mia bimba mi faceva vedere, in una tranquilla spiaggia, i rivoletti di arena che scivolavano intermittenti su una montagnola che stava costruendo con la paletta: “Sono così le valanghe? Cadono così?”
Sì, in fondo cadono così, rivoletti polverosi che si perdono nelle pieghe di giganti.
E tu, lì, non sei niente.