Il racconto dedicato a Walter Bonatti e al suo lascito alpinistico e letterario parte da un evento, debitamente romanzato, che ha come sfondo la Polonia degli anni ‘80 e le condizioni di vita in un Paese al di là della Cortina di Ferro, dove anche solo trovare le informazioni o poter avvicinarsi “alle fonti” poteva essere un problema. L’andare a saccheggiare o taccheggiare una biblioteca, atto di per sé più che esecrabile, poteva essere all’epoca una ultima spes per chi bramasse la conoscenza, oppure anche uno dei vari gesti di insofferenza e ribellione silente verso il regime da parte di una popolazione storicamente indomita e poco propensa ad avere figure di comando che non fossero proprie. In quella cultura ed in quella società è cresciuto Marek Regan Raganowicz, che nei suoi racconti tanto ama fare riferimento al periodo della sua crescita e alle amate contraddizioni dell’adorata terra natia.
Storia di un libro rubato
(come Bonatti ha cambiato la mia vita)
di Marek Raganowicz
(pubblicato su grivel.com l’8 febbraio 2022)
Traduzione dal polacco ed editing di Luca Calvi
Lo sguardo della bibliotecaria non tradiva alcun interesse per quello che stavo facendo tra gli scaffali. Ero libero di passeggiare tra libri di arte culinaria, racconti fantastici di robot, gatti parlanti o fagioli danzanti. Feci una pausa e diedi un’occhiata, di mala voglia, a biografie di criminali, di sognatori caduti e ad uno scaffale speciale con biografie di comunisti di spicco che avevano cambiato il mondo in peggio. In realtà non ero interessato a nessuno di quei soggetti e alla fine mi diressi verso lo scaffale che riportava all’inizio la scritta “Letteratura di Montagna”. Per non farmi beccare presi il ponderoso trattato “Lenin sui Tatra” e, fingendo interesse, sfogliai alcune pagine. La bibliotecaria sollevò gli occhi dal libro al quale stava incollando alcune pagine gialle con annotazioni e quando la vidi abbassare nuovamente gli occhi raggiunsi subito il libro che avevo scelto e lo nascosi in un millesimo di secondo sotto la giacca, fingendo di continuare a leggere le avventure di Lenin. Il libro che tenevo al petto mi bruciava come un mattone incandescente. Sentii che stavo sudando e che dovevo uscire. Corsi così fuori dalla biblioteca o meglio dalla scena del crimine e non mi fermai fino a quando non arrivai a casa.
Fu quello il modo in cui rubai una copia de Le mie montagne di Walter Bonatti, un libro che non veniva più ristampato da anni ed era impossibile da trovare nei negozi di antiquariato. Non potevo immaginare di vivere senza poterlo consultare ogniqualvolta lo desiderassi, quindi quel libro in un certo qual senso era mio ed era lì ad aspettarmi. Dovevo averlo, proprio come si deve avere una pianta di una città quando si vuole arrivare a destinazione e non perdersi in vicoli ciechi. Avevo letto Le mie Montagne diverse volte prima di decidere di rubarlo. Mi aveva mostrato un’arrampicata che non avevo conosciuto prima: solitaria, personale, addirittura intima. A tutt’oggi non ho confessato quel furto e probabilmente non lo farò mai, ma guardando indietro posso vedere che in qualche modo ho fatto di tutto per cercare di espiare quella trasgressione. Sentivo il suo fuoco sia come un rimorso bruciante sia come una sfida o un obbligo di ripagare un debito. Mi sentivo colpevole per aver privato altri dell’opportunità di entrare in comunione con Le mie Montagne e di trarne ispirazione. Volevo dare qualcosa di me stesso e condividerlo come faceva Walter.
Alcuni libri riportano al passato, raccontano storie che gli autori vogliono tirar fuori da se stessi ad ogni costo, senza pensare troppo al lettore. A volte ho l’impressione di offrire anch’io questo tipo di storie, raccontate, per così dire, per la mia purificazione personale, storie che forse sono inutili per i lettori.
Altri libri, poi, colpiscono nell’animo e portano a vivere nel mondo dell’autore. Lasciano senza fiato, ma costringono anche a staccarsi e a vivere la propria vita, a seguire la propria strada, la cui ricerca è una sfida a parte ispirata dall’autore. Le mie Montagne mi ha scosso e mi ha costretto ad affrontare il mistero del futuro, l’ignoto, l’avventura e il rischio. Mi ha aperto gli occhi sulla strada che poi ho voluto seguire con curiosità sfrenata e passione selvaggia.
Ad affascinarmi, in primis, fu la descrizione della montagna, della sua forma svettante come in una favola popolata di scalatori coraggiosi e pareti insormontabili, impressionanti, selvagge e imprevedibili. Mi piacque come, nei passaggi iniziali del capitolo, Walter abbia reso omaggio ai primi conquistatori della cima stessa, così come agli autori delle vie sulle pareti nord e ovest. Questo me lo fece vedere un uomo estraneo alle categorie della rivalità feroce alimentata dal desiderio di promuovere il proprio ego. Aveva descritto la sua ossessione e i suoi tentativi di scalare il Pilastro Sud, una volta con Mauri e due anni dopo, tornato da una spedizione traumatica alla conquista del K2, stavolta con una squadra di quattro persone, con il suo precedente compagno più Oggioni e Aiazzi. Purtroppo il tempo e le difficoltà li avevano ricacciati indietro dalla parete.
Leggendo questa storia di tentativi falliti che portano alla vittoria, mi sarei aspettato di veder apparire qualcuno di speciale, come succede nelle favole, quando l’eroe perde l’entusiasmo e la fede ed improvvisamente arriva qualcuno che riaccende la fiamma della battaglia e porta alla vittoria. Con mia sorpresa, a pagina 100, dopo essere andato a capo, lessi invece quel passo che in seguito mi sarei ripetuto molte volte e che avrebbe continuato a tornarmi in mente durante i miei anni di arrampicata in solitaria e che recitava pressappoco così:
“Finalmente ci fu una svolta. Un giorno, come un’idea folle nata dalla depressione mentale, fui preso dal pensiero di tornare sui Drus, questa volta da solo, per provare a me stesso che non ero un uomo finito.
Passarono i giorni e quella che avevo definito un’idea folle si trasformò gradualmente in un raggio di speranza e di fede. Presto mi trovai a vivere solo con il pensiero di fare una salita in solitaria sui Drus“.
Capii così che la vera sfida di una parete non sta nel mettere assieme una squadra più grande, partner migliori o usare attrezzature più sofisticate o invasive; è invece una questione di testa, di atteggiamento, di determinazione e di comprensione del fatto che le pareti e le vie sono scritte in noi in attesa del momento in cui siamo pronti ad affrontarle. Non c’è nulla di quell’ostilità, di quelle battaglie o di quell’odio che ci portano spesso a paragonare l’arrampicata ad una azione di guerra. La chiave è data dalla consapevolezza, dalla forza interiore e dalla purezza dello stile. Volevo fare questo tipo di scalate e credevo profondamente che questa sarebbe stata la mia strada in montagna.
Solo oggi capisco che per molto tempo le mie scalate successive furono una serie di richiami allo stile dell’ascensione in solitaria del pilastro sud-ovest del Drus e a piccole storie di quella salita.
Io però avevo iniziato ad andare per monti ben 30 anni dopo i maggiori successi di Bonatti, quindi mi trovai anche costretto ad aprire gli occhi sui cambiamenti dell’etica e accettare l’allentamento di quelle regole che il Maestro si era impegnato a rispettare. Descrivendo la salita solitaria sui Drus, aveva spiegato che forare la roccia voleva dire uccidere il concetto di “impossibile” e quindi minare il senso dell’alpinismo. Per quanto fossi d’accordo con l’idea e la sua successiva elaborazione nel famoso articolo di Messner L’assassinio dell’impossibile, non riuscivo a fare a meno di ripetere le vie a spit e di rimanere affascinato dalle imprese dei maestri della New Wave dell’arrampicata artificiale nella Yosemite. Quando poi iniziai a ripetere le loro vie di artificiale estrema mi resi conto di quanta determinazione, pagata con il massimo rischio, dovessero avere per ridurre al minimo le perforazioni. Così, in buona sostanza, avevano mantenuto il rispetto del principio di Bonatti secondo il quale il senso dell’alpinismo sta nel mantenere un equilibrio tra l’uso di attrezzature invasive e la forza della mente.
Ogni volta che salgo El Capitan mi torna in mente Bonatti, e non solo per la sua etica rigorosa, ma anche per il mio passo preferito in cui descrive i momenti drammatici in cui ha dovuto buttare via del cibo inzuppato di benzina: “Tutto quello che mi era rimasto erano due pacchetti di biscotti, un tubo di latte condensato, quattro formaggini, una scatola di tonno, una scatola di paté, dello zucchero e della frutta secca, una fiaschetta di cognac e due lattine di birra”. Proprio questi ultimi due prodotti catturarono la mia attenzione e mi ruppero l’immagine monolitica del Gran Maestro, che nella sua severità di principi rifiuta le tentazioni degli stimolanti. Chi mi conosce sa che non sono un grande fan delle bevande alcoliche, ma ad ogni salita su El Capitan, seguendo l’esempio del Maestro e coltivando la sua memoria, ho sempre con me due lattine di birra.
All’epoca in cui leggevo libri sull’arrampicata, negli anni ’80, i polacchi stavano iniziando l’era delle prime salite invernali sugli Ottomila. La grande prima fu l’ascensione dell’Everest, che fu ampiamente coperta dai media e di cui si parlava nei club di arrampicata locali. In quel periodo ero agli inizi del mio viaggio verso le montagne e mi stavo chiedendo da che parte andare. Avevo dato un’occhiata all’arrampicata himalayana, ma mi sentivo decisamente più attratto dalle grandi pareti rocciose scalate in piccole cordate. Certo, le facce sorridenti di chi arriva in cima alle vette himalayane sono ispiratrici e allettanti, ma dopo aver letto Le mie Montagne compresi che a volte dietro a quei sorrisi c’erano esperienze simili a quella vissuta da Bonatti sul K2, piene di delusioni, disappunto o di palese egoismo tali da minare la fiducia nella collaborazione tra compagni. Non avevo la minima intenzione di fare quel tipo di esperienze in montagna e così decisi di stare lontano dalle spedizioni con tanti partecipanti sotto i vessilli di stato associate a nobili slogan conditi di retorica marziale. Nel capitolo sul K2 avevo trovato una descrizione della disperazione e della lotta per la vita dettata dal pericoloso egoismo dei compagni. Pensavo che dopo una tale esperienza Bonatti non sarebbe più tornato sull’Himalaya, ma mi sbagliavo. Infatti ci andò di nuovo, ma questa volta cambiando stile. Con una squadra più piccola andò a scalare la Montagna di Luce, il Gasherbrum IV, assieme a Carlo Mauri, portando a termine una salita che potrebbe certamente essere considerata oggi come una delle prime ascensioni in stile alpino in alta montagna.
L’ultimo capitolo del libro, che racconta i tragici eventi del Pilone del Frêney, lascia il lettore di fronte alla grande domanda se continuare o meno a scalare. Dopo aver vissuto la morte di quattro compagni a chiunque passerebbe per la testa l’idea di mollare tutto, ma l’Autore, pur continuando a scalare, si guarda bene dal dare una qualsiasi indicazione su quale possa essere la via giusta o sbagliata da seguire. A darsi la risposta alle domande fondamentali sul senso del rischio e delle scalate dovrà essere il lettore stesso. Walter, dopo la tragedia sul Frêney, ha continuato a scalare, il che per me, giovane lettore all’inizio della propria carriera, era qualcosa di ovvio, tant’è che immaginavo che se fossi stato nei suoi panni avrei preso una decisione simile. Meno di 10 anni più tardi, con le mie esperienze personali alle spalle, mi ero già reso conto che risolvere tali questioni è molto più difficile di quanto potevo pensare leggendo quel libro.
Alcuni anni dopo aver letto per la prima volta Le mie montagne mi giunse notizia che Walter aveva abbandonato l’arrampicata agonistica. Ciò avvenne molti anni dopo il fatto, ma a quei tempi le informazioni da dietro la cortina di ferro arrivavano in Polonia con un notevole ritardo. Lessi che dopo aver aperto una via nuova in solitaria sulla parete nord del Cervino in inverno Bonatti si era ritirato. Non avevo mai avuto modo di conoscere la descrizione di quest’ultima salita, quindi me lo immaginai scendere dalla vetta dopo uno sforzo spaventoso, camminare fino alla stazione di Zermatt, prendere il treno per scendere a valle e lasciarsi tutto alle spalle in modo del tutto anonimo per andare a confondersi con la folla di turisti che non avevano la benché minima idea della sua impresa. Chissà, magari mentre era ancora in città o da qualche parte sotto le pareti forse aveva lasciato il suo zaino. Mi immaginavo quel suo borsone di tela, simile a tanti altri, divenuto unico per essere stato lasciato da Bonatti lì, in attesa che qualcuno lo raccogliesse e continuasse lungo quel cammino.
Di certo la sua ultima salita fu un’impresa che superò tutte le realizzazioni di un’intera generazione e ancora oggi è possibile considerare quella del 35enne alpinista bergamasco come una delle più eccezionali gesta dell’alpinismo in toto, non solo di quello solitario. All’apice della sua fama, riuscì a dire basta, dedicandosi al giornalismo, alla scrittura e ai viaggi di esplorazione.
Biografia
Nato nel 1961 a Szczecin (Stettino), in Polonia, ai piedi dei Monti Tatra e cresciuto come alpinista nelle Alpi e in Himalaya, Marek Raganowicz ha scoperto le sue vere passioni, arrampicarsi in solitaria e su grandi pareti, nella Yosemite Valley. Affascinato dall’arrampicata in ogni suo aspetto e fedele al suo ideale di clean climbing (no chiodi, no spit, nessun supporto da altre persone, ecc.), tra le sue ascensioni spiccano la prima solitaria di Secret of Silence (VI/A4), versante nord del Ship’s Prow, Isola di Baffin, Canada; la prima solitaria di MantraMandala (VI/A3+), versante orientale del Ship’s Prow; la prima solitaria invernale dell’SG Harryland (6/A3), Troll Wall, Romsdal, Norvegia; la solitaria di Plastic Surgery Disaster (A5/5.9), El Capitan, Yosemite, California; la prima di Katharsis (VI/A4/M7), Troll Wall, Romsdal, Norvegia; la solitaria di Surgeon General (A5/5.9), El Capitan, Yosemite, California; la prima ascensione di Bushido (VII-/A4/VII-), Great Trango Tower, Karakorum, Pakistan e di Superbalance (VII/A4/M7+), Polar Sun Spire, Isola di Baffin, Canada. Lavora come ingegnere su piattaforme oceaniche ed è prolifico autore di libri di successo negli ambienti alpinistici e letterari polacchi.
“Come alpinista, sono nato sui Monti Tatra polacchi, poi sono cresciuto tra le Alpi e l’Himalaya. Il mio vero amore è l’arrampicata in solitaria e big wall, che ho iniziato a fare in Yosemite. Non mi limito a scalare grandi pareti, mi muovo e ci vivo, respirando il loro ritmo. L’arrampicata mi affascina; l’intensità dell’esperienza, la varietà della natura sul fianco della montagna, le sfide, la solitudine, le amicizie e il modo in cui le persone possono essere vinte dalla passione e dalle avventure dell’arrampicata (Marek Raganowicz)”.
10
Ed è proprio quel qualcosa insito nel DNA , che dà ad alcune persone l’imput per accostarsi a tali imprese , valorizzandole !!!!!!!
Confesso che sono rimasta delusa nel leggere che Raganowicz lavora sulle piattaforme off-shore.
Mi viene da pensare che questa potrebbe essere una delle ragioni che lo spinge a trascorrere molto tempo da solo e ricercare la purezza nel gesto alpinistico.
Azzardo, adrenalina, rischio, determinazione, paura, ribellione, e qui inizia l’avventura. Chi sà cosa avrebbe pensato Bonatti sapendo che il suo libro è stato il movente di un furto? Per me l’avrebbe giustificato.
Ora confessato, quasi una liberazione.
Una verità assoluta. C’è solo da tirarle fuori al momento giusto. Ma lo senti, te ne rendi conto.