Montagna Sacra
a cura di Mauro Penasa
Introduzione
La montagna è uno degli ambienti messi più a rischio dalla massiccia presenza umana e dal riscaldamento globale. Tutti ne sono più o meno consapevoli, indipendentemente dall’orizzonte che ognuno traguarda nel suo rapporto con l’ambiente alpino.
Le Alpi sono state antropizzate durante secoli di colonizzazione, che ha mutato il paesaggio alpino rendendolo tanto caratteristico e gradevole. A lungo le comunità montanare hanno prosperato rimanendo relativamente chiuse, per quanto possibile autosufficienti, ma col boom economico il turismo ha portato le masse a contatto con un ambiente naturale e culturale destinato, senza la dovuta protezione, a soffrire e soccombere. Poiché, con le masse, si propagano idee di sviluppo economico che non sono quasi mai sostenibili.
Per fortuna l’invasione umana si localizza in zone definibili “alla moda”, nelle quali l’offerta è sempre più lontana dalla frugalità tipica della montagna. Restano fuori realtà secondarie che, anziché rincorrere l’esempio dei grandi centri, dovrebbero puntare a valorizzare ambiente, paesaggio e tradizione, controllando per quanto possibile l’accesso umano, che nei grandi numeri ha sempre impatto negativo.
Soprattutto occorre combattere l’aggressione miope ad un ambiente che è patrimonio insostituibile: quindi niente nuovi impianti di risalita, sì alla protezione e valorizzazione delle foreste, ma soprattutto promozione di una cultura del turismo che privilegi la frugalità e un rapporto più stretto con la natura della montagna.
Nonostante questi siano concetti chiari e largamente accettati, la battaglia quotidiana contro chi, affarista o predone, antepone il ritorno economico (di solito di pochi) camuffato da sviluppo locale, non ha mai termine. La nascita del fenomeno chiamato alpinismo ha occupato gli spazi rimasti vuoti in quota e sulle pareti, senza però sviluppare nella maggior parte dei praticanti una vera consapevolezza di quanto sia fragile l’ambiente montano e il sistema sociale di chi ci vive. Del resto, l’alpinismo è solo un aspetto della montagna, e neanche quello principale. Grazie al forte richiamo esercitato su una schiera di appassionati, l’alpinismo, almeno per quanto se ne tramanda, è stato principalmente un palcoscenico di affermazione personale.
Ma se a lungo l’alpinismo sì è nutrito di un terreno pionieristico di scoperta, nel corso degli anni l’esperienza che si può trarre dall’avventura in montagna è cambiata in modo sostanziale, incanalata, precostituita, in mondo sempre più globalizzato almeno sulle cime frequentate.
Per fortuna l’alpinismo consente di rinunciare all’offerta e vivere ancora momenti forti e “autentici”, ma è innegabile che in media si sia ridimensionato il gusto dell’avventura.
Certo, abbandonarsi alle comodità è facile. Vogliamo ridurre i tempi di impegno, concentrarci sui nostri interessi specifici, gettare alle ortiche tutto quanto intorno appesantisce una visione “dedicata”, proprio noi alpinisti, che dovremmo avere una sensibilità illuminata al riguardo.
Rifugi a 5 stelle, impianti di risalita, “avventure” mordi e fuggi su pareti attrezzate dove la roccia è migliore e si può pensare solo all’arrampicata. Così ci si allontana sempre più dal concetto di avventura, e non solo laddove si concentra la ricerca di ritorni economici o di visibilità legati alla frequentazione.
Gli alpinisti cavalcano la tigre della facilitazione in montagna e, pur rendendosi conto della contraddizione insita in questo compromesso, sempre più spesso si abbandonano all’ebbrezza del parco giochi, presi dalla propria realizzazione tecnica, unita all’irrefrenabile impulso divulgativo tipico di questo secolo. Ce ne rendiamo conto, ma facciamo finta di nulla…
Quindi, abbiamo la coda di paglia… e di certo qualche scheletro nell’armadio…
È allora naturale che di fronte alla proposta di eleggere una cima a simbolo di una nuova consapevolezza della protezione ambientale montana, di cui ha parlato Toni Farina a fine 2022 e ancora a giugno 2023, o nella formulazione alternativa di riconsiderare il limite come valore positivo, sostenuta da Paolo Rumiz, la maggior parte degli alpinisti aderisca con entusiasmo. Tanto più che la limitazione, simbolica, non tocca affatto progetti e sogni, ben lontani dalla cima proposta.
Di certo è positivo parlarne, ché la memoria è corta e l’attenzione labile. Ma elevare a simbolo un’entità irrilevante rischia di svilire l’operazione. Che sembra proprio il rito autoassolutore di chi vorrebbe sentirsi la coscienza a posto, come sottolinea Carlo Alberto Pinelli.
Temo proprio che il Monveso di Forzo sarà presto dimenticato: tutto muore in fretta se non mantenuto sotto i riflettori della comunicazione.
E qui la vedo davvero difficile.
Una “Montagna Sacra”
(nel centenario del Parco Nazionale del Gran Paradiso)
di Toni Farina
Le premesse
1922. Una data storica per la conservazione della natura in Italia. È l’anno che ufficializza l’istituzione del Parco Nazionale del Gran Paradiso (PNGP), seguito, a poche settimane, anche del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise (PNALM).
L’istituzione dei primi due Parchi Nazionali italiani – tra i primi anche in Europa – salva dall’estinzione tre specie “iconiche” della grande fauna italiana: lo stambecco nel PNGP, l’orso marsicano e il camoscio d’Abruzzo nel PNALM. La loro istituzione consente altresì la tutela di paesaggi, ecosistemi, comunità e specie animali e vegetali di straordinario valore scientifico e culturale e segna la nascita dell’ambientalismo pionieristico italiano.
Il 2022 è stato quindi il centenario dei due parchi, “fiori all’occhiello” del sistema di aree protette nazionali. La ricorrenza è stata occasione di manifestazioni, dibattiti, mostre, incontri e pubblicazioni da parte dei due Enti. Per un’occasione del genere, si voleva però proporre qualcosa di davvero speciale.
I problemi che, cent’anni orsono, hanno portato alla nascita di PNGP e PNALM, come di altri parchi nazionali in Europa e altrove, sono ben diversi da quelli – di scala globale – che l’umanità deve oggi fronteggiare: riscaldamento climatico, sovrappopolazione, inquinamento, esaurimento delle risorse, in associazione a una presenza umana sempre più invasiva e permeante gli ecosistemi. La natura intatta, libera o quasi da impronta umana (the human footprint), si trova relegata a pochi angoli e a estensioni sempre più limitate del nostro pianeta.
II territorio del PNGP, come quello della maggior parte delle aree mondiali protette (l’85% di esse non supera i 1.000 km2), copre un’estensione relativamente ristretta (710 km2). Il Parco tutela le ricchezze biologiche racchiuse al suo interno, ma poco può fare verso problemi di scala planetaria.
Beh, non del tutto.
Per la sua storia, per tutto ciò che ha rappresentato e rappresenta nel panorama della conservazione, anche a livello internazionale, il PNGP può e deve fornire, proprio in occasione del suo centenario, un segnale culturale forte per la tutela della natura, un messaggio di responsabilità, nuovo e dirompente, comparabile a quello che, cent’anni orsono, ha significato la sua istituzione.
Il centenario del PNGP (come anche del PNALM) è stato anche occasione per ripensare il ruolo di queste istituzioni, ruolo di riferimento, più incisivo di quanto sinora avuto, per far sì che la transizione ecologica non sia solo affidata alla tecnica ma sia, soprattutto, transizione culturale.
La prima riflessione
L’anno della pandemia, del confinamento degli uomini nelle loro abitazioni, ha visto gli animali ricomparire in spazi “umani” con una rapidità sorprendente. Noi chiusi, loro liberi. Ma il confinamento ha anche prodotto, appena le norme lo hanno consentito, un’esplosione di presenza umana nelle aree protette, come mai prima. Un’affluenza che impone nuove riflessioni verso le necessità di rispetto e tutela delle aree di natura più delicate.
È evidente, infatti, che anche le attività ricreative “verdi” (escursionismo, ciclismo, corsa, arrampicata, sci alpinismo, canoa e canyoning, ecc.) pongono problemi d’impatto sull’ambiente, determinato non tanto dai mezzi (in sé, “eco-compatibili”) con cui sono praticate, ma dall’intensità (numero di persone) e dalla frequenza (ricorrenza temporale) del fenomeno. L’impatto non è slegato dalla coscienza con cui le attività sono praticate, ossia una natura fruita dai più come spazio, come palestra delle proprie attività, luogo d’azione e di soddisfacimento personale e non come ambiente, magari fragile ed esclusivo, di vita di altri esseri.
Tutto lascia ipotizzare che numeri e modi di questo uso ludico-sportivo-ricreativo della natura si manterranno o, anzi, aumenteranno negli anni a venire. Il primo problema per la conservazione nelle aree protette è già, e sarà sempre più, l’impatto turistico/ricreativo di massa.
Il PNGP racchiude uno spicchio di straordinari ambienti alpini. Ambienti simbolo, per loro stessa natura, di inacessibilità, inviolabilità e di dominio della natura. La realtà non è esattamente questa. Tutte le cime del Parco sono “classiche” alpinistiche. Le arrampicate, su roccia o ghiaccio, sono ampiamente diffuse e praticate da numeri rilevanti di persone. Non esistono nel Parco luoghi o aree precluse agli uomini o non raggiungibili da alpinisti esperti.
Le altre riflessioni
– Invasività e alterità. L’Uomo è di gran lunga la principale specie invasiva. Da quando è uscito dall’Africa (l’Out of Africa degli antropologi) Homo sapiens ha poco per volta raggiunto e colonizzato – unica specie vivente – ogni angolo del mondo, Antartide esclusa. La sua espansione si è accompagnata alla scomparsa degli “altri”: le tre-quattro specie cugine del genere Homo esistenti, e poi migliaia di altre specie (quante scomparse prima di essere descritte?), in percentuali elevatissime tra quelle di grandi dimensioni, e di localizzazione insulare.
Ora siamo 8 miliardi, numero che crescerà ancora, sin oltre i 10 miliardi. Quale spazio avranno gli “altri” in un mondo sempre più sovrappopolato? Forse lo spazio di un’Arca di Noè? No, non basta. Limitate ad aree ristrette (caratterizzate da popolazioni con piccoli numeri), è inevitabile che le specie che non si adattano a vivere in ambienti antropizzati si estinguano.
Indipendente da ogni diretto tornaconto umano, è nostra etica responsabilità consegnare alle future generazioni la ricchezza biologica che abbiamo conosciuto, già notevolmente impoverita rispetto al passato. Per farlo, si dovrà pensare di lasciare spazio alla “alterità” (ciò che non è noi) decidendo di escludere la nostra presenza da date aree del Pianeta, da (con)sacrare agli altri. È l’idea recentemente espressa anche da Edward O. Wilson – il Darwin del XXI secolo – con il suo libro Metà della Terra.
– Conquista e limiti. L’idea della conquista (la mad ambition), la stessa che ci ha condotto in ogni angolo della Terra, sulla Luna e, tra qualche anno anche su Marte, è profondamente insita nella natura umana, tanto da averne forse base genetica. L’idea della conquista è, soprattutto, fortemente radicata nella cultura alpinistica, ne è, in qualche modo, l’anima stessa. La natura alpina, da oggetto di ammirazione estetica dei romantici, è divenuta con l’alpinismo (e con la scienza) luogo di conquista e di sottomissione, a scopo militare, sportivo e ora soprattutto turistico.
Un’anima che si è, peraltro, fortemente trasformata negli ultimi anni, con la prevalenza dell’esibizione sociale sulla semplice soddisfazione privata. È il momento del protagonismo, delle performance sportive autocelebrative, praticate da persone indifferenti (in percentuale non trascurabile) al rispetto e alla conoscenza dei luoghi, nonché al relativo impatto della propria presenza. Palestre all’aria aperta più che ambienti, come si è detto, terreno prediletto per mettere in scena il superamento di ogni limite (quello della verticalità, della fatica, delle prestazioni, della velocità, dell’affollamento, del deterioramento degli habitat naturali…).
Forse è giunto il momento di porsi dei limiti, superando il concetto novecentesco della conquista no-limits, come già fecero – in grande anticipo sui tempi – gli scalatori del Nuovo Mattino negli anni Settanta, che respinsero l’obbligo e il feticcio della vetta [un obiettivo dissacrante di opposizione alla visione tradizionale dell’alpinismo, ma niente a che vedere con il ridimensionamento delle ambizioni di conquista, NdR].
È tempo di cambiare. Conquiste non più fisiche, ma spirituali. Cime come luoghi da lasciare “inviolati” alle aspirazioni di “possesso” fisico, ma fonti di ispirazione, contemplazione e riflessioni interiori.
La Montagna Sacra
La proposta è semplice, priva di costi e di divieti: istituire una Montagna Sacra nel Parco Nazionale del Gran Paradiso, una montagna consacrata alla natura da cui escludere ogni presenza umana, per dar senso e concretezza al centenario del Parco. Un’idea progettuale “rivoluzionaria” – in quanto capovolge il modello culturale: da no-limits a off-limits – di grandissimo valore simbolico, più che direttamente finalizzata alla conservazione (come nel caso delle riserve integrali) e mai realizzata ex novo nel mondo occidentale.
Montagne sacre, nel senso religioso del termine, esistono in altre culture. Sono sacri alle culture locali il Machapuchare 6993 m in Nepal, e il Kailash 6638 m in Tibet, preclusi all’accesso umano e, quindi, all’alpinismo, come anche l’Uluru (un tempo noto come Ayers Rock), nell’omonimo parco nazionale australiano, vietato oggi all’accesso turistico, anche se solo dal 2019. Nel nostro caso, il termine sacro vuole enfatizzare un altro significato. La sacralità è, in effetti, una costruzione culturale, declinata in molte forme da diverse culture, anche come visione laica. La più antica etimologia del termine, d’altra parte, indica un luogo elevato e inaccessibile, affascinante, a prescindere dal culto religioso. Montagna Sacra come luogo da lasciare esclusivamente agli “altri”, come simbolo affettivo ed emotivo della Natura tutta per il suo valore intrinseco, non in funzione umana.
Non tutto quello che siamo in grado di fare deve essere fatto. Non tutte le montagne che siamo in grado di salire devono essere scalate (conquistate). Per una volta, in un luogo almeno, può prevalere l’idea dell’astensione. Astenersi non significa necessariamente privarsi. In questo caso, l’astensione, più che togliere, regala qualcosa.
Si tratta di un simbolismo profondo, un simbolismo di dialogo con gli elementi naturali senza sopraffazione, che stimoli sentimenti di fascinazione e affiliazione. Sono i due costrutti individuati da Edward O. Wilson nella sua ipotesi della biofilia.
Un luogo che incrementerà il proprio valore simbolico nel tempo: con che occhi sarà guardata quella cima dopo generazioni di assenza umana?
La Montagna Sacra non sarà luogo di divieti, perché un progetto culturale non può basarsi sull’imposizione. Il progetto non prevede alcuna interdizione formale, nessun divieto d’accesso, nessuna sanzione pecuniaria per chi non vorrà “astenersi”. Molto più semplicemente, l’impegno a non salire sulla cima sarà una scelta suggerita e argomentata, al fine che venga rispettata da tutti. Siamo assolutamente rispettosi della libertà altrui, ma faremo ogni sforzo perché la nostra visione sia compresa e condivisa dai più, non come atto di forza, ma come gesto responsabile e di liberazione.
Un progetto che propone una nuova forma di fruizione del Parco, totalmente diversa dalle attuali. Intorno alla Montagna Sacra si potranno costruire, con la collaborazione degli operatori locali, itinerari e punti di sosta che pongano l’enfasi sull’osservazione e non sulla conquista, sul momento di conoscenza e di contemplazione più che sulla competizione sportiva, così da generare riflessioni sul nostro rapporto con la natura e promuovere una diversa cultura della fruizione della montagna e, più in generale, degli ambienti naturali.
Quale e perché
Si è proposto di eleggere il Monveso di Forzo 3322 m, a Montagna Sacra del Parco nazionale Gran Paradiso.
La scelta è motivata dalle seguenti ragioni:
a) Si tratta di “una delle più eleganti montagne del vallone di Forzo“, la cui forma di “slanciata piramide quadrangolare” (Andreis, Chabod & Santi, CAI-TC11980) – da qualunque versante la si guardi – rappresenta l’icona delle cime alpine nell’immaginario collettivo.
b) Si trova sulla cresta spartiacque tra Piemonte e Val d’Aosta ed è quindi condivisa dai due versanti del Parco.
c) Sul versante piemontese, la cima si trova alla testata del Vallone di Forzo (Val Soana) e, insieme alla Torre di Lavina, ne caratterizza in modo importante il paesaggio. La cima è ben visibile già dalla media valle. Sul versante valdostano, si localizza sul versante destro del Vallone di Valeille (Val di Cogne) nel gruppo di cime detto “Le Arolle”, ed è visibile da Gimillan e, anche se in modo meno prominente, dall’abitato di Gogne. Il Monveso è visibile dalla pianura canavesana.
d) Il gruppo de Le Arolle, di cui il Monveso fa parte, racchiude “montagne belle e solitarie” dove “gli incontri umani sono al limite dell’inesistente“. Il Monveso costituisce, in effetti, una meta alpinistica da sempre molto poco frequentata, per il suo isolamento e per l’impegno fisico richiesto al raggiungimento della sua cima (un dislivello di 2144 m da Forzo e di 1700 m da Lillaz).
L’istituzione del Monveso a “Montagna Sacra” comporterebbe quindi l’esclusione umana da un’area (l’intera piramide) già attualmente frequentata in modo limitatissimo a fini alpinistici e escursionistici. C’è però da ritenere che proprio la sua istituzione costituirebbe un “unicum” attrattivo, per una fruizione turistica responsabile e a distanza, particolarmente rilevante per la Valle di Forzo.
Se la montagna torna sacra
di Paolo Rumiz
(pubblicato su La Repubblica del 17 novembre 2022)
Alla fine degli anni Sessanta i Greci mi invitarono a tenere lezioni di arrampicata sul Monte Olimpo. Ero giovane, agile, incosciente e imbevuto di mitologia, per cui accettai.
La dimora degli Dei: un attrattore troppo forte. Le vettovaglie arrivavano al rifugio via mulo. I pascoli sottostanti, verso Litochoron, erano popolati da feroci cani pastori. Ogni sera, minestroni incendiari pieni di pepe; poca carne, tanta feta, pane, vino e allegria. Niente inglese: comunicavo in greco antico, e bastava. Ma non capii subito che i miei allievi erano figli di Bisanzio – sulla capanna del Club Alpino Ellenico garriva la bandiera gialla con l’aquila bicipite – e a Giove non prestavano attenzione. E cosi, quando, dopo una salita per la facile via Mihailidis sulla parete est, chiesi loro di non calpestare la cima, distante poche decine di metri, perché lì abitavano gli Dei, mi guardarono come un originale. E rinunciarono. Ma molto malvolentieri. Fu una delle mie prime esperienze della scomparsa dell’Invisibile e del senso del limite nel mondo contemporaneo. Era la stagione delle conquiste: non ero granché come alpinista, ma ardevo dal desiderio di far mie le cime e guardare il mondo dall’alto. Ero ancora imbevuto di letteratura tardo-romantica inquinata da venature mistico-eroiche filtrate dal fascismo. D’altra parte, un innato bisogno di silenzio e distanza dal mondo controbilanciava l’ansia da prestazione, e quel silenzio richiedeva un perimetro inviolabile: in latino il “Sacro”, in greco il “Tèmenos”, da cui “Templum”, tempio. Uno spazio negato ai mortali, come la foresta del Fauno o il luogo segreto dell’Assemblea degli animali che sarebbe stata narrata cinquanta anni dopo da Filelfo. Un luogo che ci ricordasse che la Natura chiedeva tregua e non aveva bisogno di noi uomini. Niente di meglio della cima di una montagna proibita.
Ho sempre cercato un posto simile, ma non l’ho mai trovato. In questa ricerca, i libri con foto patinate sulle imprese dei Fortissimi non mi hanno dato una mano. Troppa contemplazione dell’io, dei propri muscoli, troppa bulimia di spazi “beyond the limits”. Pretesa di purezza, anche: come se gli uomini non si portassero in quota le loro miserie. Era sempre la stessa storia. Dopo la ricerca dei “paradisi incontaminati”, dopo la ricerca dell’inviolabile da violare, arrivava il trionfo degli sponsor e lo stupro di gruppo della verginità, la dissacrazione turistica di massa anche ad alta quota, con o senza ossigeno. Negli ultimi 40 anni non ho letto più testi sulle conquiste estreme. Non contenevano percezione dell’Ineffabile. Spesso nemmeno una parola sulla devastazione della Natura o sulla mutazione climatica.
Il mondo era pieno di montagne sacre, ma quasi tutte erano state violate. Il Sinai, dove Jahvè aveva dettato a Mosé i dieci comandamenti, era pattugliato da soldati. Sul vulcano Mauna Kea nelle Hawaii, il cielo era diventato più lontano proprio da quando la cima era stata coperta da… telescopi. La città perduta di Machu Picchu, a picco sulla valle dell’Urubamba in Perù, formicolava di turisti, e la sommità del monte Fuji, la sacra piramide del Giappone, innevata dieci mesi l’anno e tempestata di templi su ogni versante, era salita ogni giorno da colonne di visitatori. Quanto al rosso monte Uluru, solitario monolite nella piatta desolazione del bush australiano, gli aborigeni chiedevano da decenni che ne fosse proibita la scalata, ma il governo aveva sempre rinviato l’applicazione del bando. Al Monte Graham, in Arizona, avevano prima estirpato il nome originale apache per togliergli l’anima, poi piazzato un osservatorio astronomico. Sul roccione chiamato Ngog Lituba, sacro ai popoli centroafricani, il Vaticano aveva piantato una croce cattolica e una statua di Maria Santissima. Di cime dichiarate “off limits” l’Europa non ne aveva più nessuna. Persino dall’Athos, del resto proibito solo alle donne, arrivavano notizie sconfortanti. Liti feroci fra monasteri, fiammate nazionalistiche divise per paesi di riferimento, proliferare di autocefalie, crescente ostilità verso i pellegrini di origine cattolica nonostante il “via libera” del patriarca di Costantinopoli. Ma soprattutto c’era il ragno della Rete che si infiltrava nelle antiche fortezze della fede attraverso lo squillo degli smartphone. Fine della separatezza, insomma. Ma se veniva contaminata persino la montagna sacra degli ortodossi, pensai, allora era davvero la fine dei paradisi, nel senso etimologico del termine, dal persiano “pairidaeza”, giardino recintato. Il web aveva in tutto questo un ruolo sterminatore. In decine di cime delle Alpi e dell’Appennino, là dove veniva installato un ripetitore, tornavano in luce resti di un tempio a Giove o altre divinità antiche.
Oggi, la notizia che, proprio nel massiccio del Gran Paradiso, si sia indicata come “sacra”, quindi potenzialmente inviolabile, una montagna come il Monveso di Forzo, possente pilastro di 3322 metri lontano dalle rotte escursionistiche più battute, apre una prospettiva rivoluzionaria, nello stesso tempo antichissima e nuova, laica e sotto sotto anche pagana, nel nostro approccio all’Alpe e alle cime in generale. È un “alt” alla pretesa di onnipotenza dell’uomo dell’Antropocene, espresso non con divieti amministrativi, barriere fisiche o minaccia di sanzioni pecuniarie, ma con esortazione a una scelta consapevole: quella di non salire più sulla sua cima e di convincere altri a non farlo. L’idea, del tutto nuova sulle Alpi, è appoggiata da molti “patriarchi” dell’alpinismo europeo, da Kurt Diemberger ad Alessandro Gogna, scrittori come Paolo Cognetti o Silvia Ronchey, grandi camminatori tipo Riccardo Carnovalini, o attori come Lella Costa e Giuseppe Cederna. Tutti viaggiatori in parole e scarponi, che vengono a dirci: è giunto il tempo di farsi un po’ in là.
Darci dei limiti. Tracciare linee invalicabili. Il segnale che, nel centenario dell’istituzione del parco del Gran Paradiso (mai nome più appropriato in materia), ci arriva da una cima in bilico fra Val d’Aosta e Piemonte, indica al viaggiatore, a ben pensarci, una rivalutazione dei confini. Quei confini che, dopo l’euforia per il crollo del Muro, la moda del “no border” ha frettolosamente liquidato come pura negatività. Il Monveso simbolizza la nostalgia del sacro, nel senso di spazio separato. “Nel mito giudaico – osserva la Ronchey – l’uomo viene cacciato dal paradiso nel momento in cui tradisce, per avidità, la comunanza con il resto della natura vivente“. Annibale Salsa, ex presidente generale del CAI, rimarca l’esigenza di “individuare, anche nelle odierne società postindustriali, alcune cime che sul piano simbolico possano significare che non tutto deve essere profanato“.
È il mito del Kailash che si fa carne nelle Alpi Graie, nel cuore d’Europa: la leggenda del Gigante di Cristallo, la solitaria pagoda himalayana di 6338 metri che i fedeli di quattro religioni venerano – senza mai salirla – come centro del mondo, alla sorgente dei quattro fiumi del subcontinente indiano: Indo, Gange, Brahmaputra, Sutlej. Reinhold Messner, il conquistatore di tutti gli Ottomila, ebbe 35 anni fa il permesso di violarne la cima, ma ebbe l’onestà di tirarsi indietro, e dal rispetto di quel tabù, dicono, trasse nuova felicità. In questo senso, il Monveso (Mon Vezo, nell’accezione antica) rappresenta la più difficile delle sfide in un mondo governato dal consumo. Il coraggio della rinuncia. Il silenzio della contemplazione di fronte all’indicibile.
Montagna Sacra o Montagne Sacre?
di Carlo Alberto Pinelli
Ha ottenuto sulle prime molte adesioni e consensi la proposta ideata e sostenuta con significativa tenacia da Toni Farina, rappresentante delle associazioni ambientaliste nel Consiglio del Parco Nazionale del Gran Paradiso, di identificare all’interno dei confini del parco stesso una vetta alla quale attribuire, per comune consenso, il significato di “montagna sacra”, condannandone da quel momento in poi l’ascensione.
Infatti è innegabile l’immediato fascino di una simile idea, direttamente ispirata dal monte Kailash in Tibet e da altri monti asiatici reputati dalle popolazioni locali sedi degli dei e di conseguenza inavvicinabili. Tuttavia, a raffreddare gli entusiasmi si è presto fatta strada un’opinione contraria, sostenuta tra gli altri anche da Mountain Wilderness.
Nella cultura del mondo occidentale non si conoscono esempi di montagne ritenute inviolabili perché rese tabù da prestigi sacri. Generalmente in passato le alte vette, i ghiacciai, gli appicchi valangosi, venivano addirittura immaginati come regno dei demoni e degli spiriti ostili; oppure la loro ascensione (per lo più simbolica) rientrava nell’ambito delle esperienze mistiche: era una scala iniziatica, irta di rischi oggettivi e psicologici, che avvicinava al divino. Come ebbe poi a dire – molto più tardi – Papa Giovanni Paolo II, ascensione e ascesi hanno avuto da sempre, qui da noi, radici comuni.
Decretare, da un giorno all’altro, che una montagna delle Alpi non dovrebbe mai più essere scalata perché le è stata appioppata artificialmente una dimensione sacra sarebbe un non senso, al limite del ridicolo. Sia per la difficoltà di selezionare una vetta adatta allo scopo, sia per concordare a chi spetti una simile decisione, sia per l’impossibilità di ottenere il consenso di tutti quelli che desidererebbero raggiungerne la vetta. Scegliere un monte secondario, anonimo, che non interessa praticamente a nessuno, equivarrebbe a trasformare la proposta in un ben misero ripiego. Solo un monte noto, frequentato, di grande fascino, potrebbe paradossalmente meritare l’appellativo di sacro. Però provate a immaginare cosa succederebbe se una commissione dedicata decidesse che il Gran Paradiso non si dovrà più scalare. Oppure la Grivola, che pochi affrontano, ma che domina il paesaggio dell’alta Valle d’Aosta e avrebbe, diciamo così, “le physique du rôle”.
Forse perché consapevoli di queste critiche, i sostenitori del progetto hanno poi deviato l’obiettivo da una “sacralità” di matrice ambientalistico/mistica, ad una dimensione più laica: propongono di dare al divieto (solo morale) di salire una certa montagna un significato emblematico, collegato all’accettazione e esaltazione del valore del limite. Il messaggio direbbe: non tutto quello che si può fare deve essere fatto. L’idea certamente sembra più ragionevole e non priva di un certo fascino, anche se resta intrinsecamente contraddittoria. In una visione laica e occidentale la sacralità di un monte si suggella proprio salendola. Perché di per sé stessi i monti non sono altro che accidenti geografici e la loro sacralità nasce come riflesso delle esperienze profonde che la loro frequentazione può favorire.
Tuttavia, i problemi pratici ai quali si è accennato più sopra continuerebbero a rendere irrealizzabile anche il percorso finalizzato all’esaltazione del limite. Per avere senso l’operazione dovrebbe comunque rivolgersi a una montagna nota, prestigiosa, in grado di accollarsi credibilmente un simile ruolo. E montagne con tali caratteristiche sono anche molto frequentate. Con una postilla: non si correrebbe il rischio, così facendo, di “desacralizzare” tutte le altre montagne, lasciandole esposte agli attacchi dei mercanti del tempio, con minori difese?
Dobbiamo dunque buttare nel cestino l’appassionata proposta di Toni Farina e seguaci? Forse no, non del tutto.
lo credo che se ne potrebbe recuperare il succo, spostando l’obiettivo in una diversa direzione. Invece di intestardirsi a individuare un monte, si potrebbe tentare di proporre un giorno estivo – sempre lo stesso tutti gli anni – in cui si invitano i frequentatori delle montagne ad astenersi dal raggiungere le vette, come simbolica adesione al concetto di limite, restituendole così per ventiquattr’ore al silenzio e alla solitudine. Solo associazioni prestigiose come il CAI o Mountain Wilderness – qualora volessero impegnarsi nell’impresa – avrebbero il carisma per rendere credibile, condivisibile e pregnante la proposta. Probabilmente agli inizi l’invito potrebbe rivelarsi un “flop”, ma col tempo forse le adesioni aumenterebbero. Col risultato collaterale di dare un significato meno retorico all’ingresso dell’alpinismo tra i monumenti immateriali del mondo.
Hircus Emissarius con polenta concia
(riflessione sul filo del paradosso)
di Carlo Alberto Pinelli
L’antico rituale ebraico prevedeva che nel giorno dell’Espiazione il Sommo Sacerdote trasferisse su un caprone “espiatorio” tutte le colpe commesse dalla comunità durante l’anno appena trascorso. Colpe oggettive ma anche delusioni, disgrazie, frustrazioni derivate dalla divaricazione tra i buoni propositi e la loro effettiva realizzazione. L’innocente caprone, carico di quel simbolico fardello, veniva scacciato dai confini della comunità e abbandonato nel deserto, dove ad accoglierlo si riteneva ci fosse il demone Azazel. Da quell’istante tutti, indistintamente, si sentivano assolti e tiravano un sospiro di sollievo. “Ecce Agnus Dei, ecce qui tollis peccata mundi”. La frase di San Giovanni Battista si riferiva proprio a quell’antica usanza, ribaltandone tuttavia in parte il significato.
Poco tempo fa, in occasione di un convegno dedicato, un gruppo di persone per bene, appartenenti in senso stretto o lato all’orizzonte dell’alpinismo, si è impegnato a rinunciare d’ora in poi all’ascensione di una specifica montagna del Parco Nazionale del Gran Paradiso, in omaggio al valore del “Limite”. Limite troppo frequentemente travalicato dalla comunità alla quale costoro reputano di appartenere, macchiandosi essa di colpe quali il superomismo atletico, la competitività estrema e totalizzante, l’auto celebrazione smaccata, l’indifferenza di fronte alla crescente aggressione del turismo speculativo e l’antropizzazione turistica delle alte quote. Difficile dar loro torto riguardo a tali denunce. Lo scempio delle montagne italiane e la banalizzazione forzata della loro frequentazione sono davanti agli occhi di chiunque le ami davvero.
Tuttavia, la trovata messa in atto per liberarsi dal rimorso sembra riflettere troppo da vicino il rito del capro espiatorio (Hircus emissarius), così come era praticato dagli Ebrei, dai Greci e da molti altri popoli del mondo. Anche se, ovviamente, declinato in positivo. Le colpe da espellere probabilmente non riguardano direttamente quel folto numero di aderenti al progetto, ma piuttosto sono attribuibili alla consorteria alla quale costoro sentono di appartenere, e dei cui errori immaginano di dover comunque rispondere, pur essendo personalmente innocenti.
Ma attenzione! L’inaccessibilità del Monveso di Forzo (su questa sconosciuta montagna alla fine è caduta la scelta) non è stata in realtà proposta come un buon esempio “virale” al quale dovrebbe ispirarsi il comportamento quotidiano di tutti gli appassionati di montagna, rinunciando a mettere il piede su qualsiasi vetta, perché ciò equivarrebbe a rinnegare l’alpinismo, sterilizzandone le radici. Infatti, anche se oggi l’arte di scalare si è spesso rinchiusa nel bozzolo dell’esperienza appagante del gesto fine a sé stesso, il raggiungimento della vetta resta il sigillo distintivo dell’alpinismo. E allora, quale messaggio veicola questo traballante tabù, se non intende porsi come modello esplicitamente “anti-alpinistico”?
La cima del Monveso è stata caricata di un significato simbolico circoscritto, non esportabile, proprio come il capro espiatorio, esiliandola fuori dai confini della pratica dell’alpinismo, pur ammantandola con i prestigi di una sacralità artificiale. Del resto, a quanto ne so, l’alpinismo aveva già di per sé – e da tempo – voltato le spalle a quella vetta di rocce insicure, contribuendo a rendere il tabù attuale del tutto indolore. L’esito tuttavia potrebbe non escludere un risvolto autoassolutorio per tutti coloro che invece serenamente continueranno ad agire all’interno dei confini dell’alpinismo.
Lo ripeto, questa critica non intende mettere in dubbio l’onestà intellettuale dei mille firmatari del documento, ma riguarda l’eco della proposta rimbalzata all’esterno, l’interpretazione di comodo che potrebbe suggerire. Se solo una montagna merita di essere considerata sacra, quale tipo di rispetto è dovuto a tutte le altre?
Mi sembra che l’intera operazione rifletta modalità proprie delle religioni arcaiche, precedenti alla conquista storica delle responsabilità individuali, non scaricabili in automatico all’esterno della coscienza, attraverso rituali e sacrifici collettivi. Per liberarsi da tali imbarazzanti paralleli magico-religiosi i promotori attuali si sono affrettati a specificare con insistenza che l’iniziativa ha per loro un carattere laico. Niente in comune con il Kailash e le altre montagne dell’Asia la cui ascensione sarebbe considerata sacrilega perché abitate dagli dei.
Con il dovuto rispetto, su questo ho i miei dubbi.
Non tanto perché i promotori stessi continuano a parlare di “Montagna Sacra”, pur tra molti distinguo, ma soprattutto perché oggi troppo spesso si ama usare il termine “laicità” come velo per impacchettare pulsioni provenienti da un passato arcaico che è più conveniente non mettere a nudo. Il caprone, disperso nel deserto, torna a volte a bussare alle nostre porte, mascherato da laicità. Tra parentesi, se sulla vetta del Monveso si trovasse una vecchia croce, i proponenti la smantellerebbero, per evitare equivoci, in nome della loro sacralità laica? Quello si che sarebbe un punto a favore del progetto!
Questo piccolo evento, che reputo destinato comunque a non lasciar grandi tracce, suggerisce ulteriori riflessioni. Se l’esaltazione del valore del limite vuole liberarsi davvero dalle scorie della ritualità arcaica di stampo religioso e magico, dovrebbe includere un sacrificio personale, un’autolimitazione individuale in qualche misura sofferta. Verrebbe da chiedersi: quanti tra i firmatari del documento che opta per l’inviolabilità del Monveso di Forzo avevano in animo di scalarlo, e ora, con personale sofferenza interiore, hanno rinunciato a farlo? Di più, quanti avevano sentito nominare quella montagna, prima di appore con entusiasmo la loro firma in calce al documento? A uno storico delle religioni potrebbe venire in mente l’antica pratica del “doppio facile”, così come la raccontava Mircea Eliade. Ma il discorso porterebbe eccessivamente lontano.
Restando in argomento, è troppo comodo sacrificare (sacrificio, uguale a rendere sacro) una montagna sconosciuta e quasi totalmente priva di attrattive, mantenendo intatti i propri progetti riguardanti l’ascensione di tante altre montagne ricche di fascino, di prestigio e, magari, di ritorni di immagine garantiti. Anzi, avendo trasferito i rimorsi della propria comunità su una povera cima di roccia instabile, a cavallo tra Piemonte e Val d’Aosta, può diventare più agevole riprendere le vecchie abitudini, assolti da ogni presunta colpa (Ecce Agnus Dei…).
Dico presunta, perché anche l’enfatizzazione del valore simbolico del “limite” contiene margini di ambiguità, al di là delle ragioni oggettive giustamente addotte e riassunte all’inizio di questo breve testo. All’interno dei comportamenti di qualunque normale frequentatore delle montagne come può essere tradotto il “limite” che ci viene proposto? Forse bisognerebbe specificarlo meglio.
In realtà basta l’incontro “by fair means” con la wilderness montana a indicare, anche impietosamente, a ciascuno i propri limiti. Allo stesso tempo suggerendoci la possibilità di superarli, purché con umile consapevolezza. Come è stato scritto, i confini li conosce solo chi ha l’ardire di affacciarsi aldilà. E di oltrepassarli, a volte, per chiudere il cerchio toccando quella ineguagliabile calamità di sogni che rimarrà sempre la vetta.
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“alla fin fine si preresci dare maggior tutela al diritto di TUTTI di andare in montagna e alla tutela della libertà individuale di come ciascuno preferisce andare in montagna”
Aridaje, ma sei proprio gnucco forte!
Il diritto di tutti non significa in alcun modo libertà di fare quello che si vuole.
A parte ovviamente che nel tuo cervello schierato, bloccato e totalmente impermeabile a qualunque idea differente o dicersa
sono sempre più convinto della necessità del ritorno a una mentalità, fra i frequentatori della montagna, sobrtia e spartane. Per sintesi la definisco una mentalità “stile Montagna Sacra”. Ma non sarà a prezzo basso o addirittura nullo: occorrerà un profondissimo lavoro di e-ducazione dei fruitori della montagna e, se del caso, anche l’applicazione di forme di selezione. Vediamo in altri commenti (rifugio Santner), quanta confusione ci sai ancora fra chi dovrebbe essere un appassionato “genuino” della montagna. alla fin fine si preresci dare maggior tutela al diritto di TUTTI di andare in montagna e alla tutela della libertà individuale di come ciascuno preferisce andare in montagna. Finché resistono inalterati questi due totem ideologici, l’ambiente naturale delle montagna subirà progressivi danni/scempi e non ci sarà nessuna ideologia, neppure quella della Montagna Sacra(ideologia che io condivido in pieno, sia chiaro), che riuscirà a tutelare le montagne dai danni dello sfruttamento umano.
Ogni tanto la montagna sacra ritorna.
Inevitabile tormentone di questo periodo segnato dai “sensi di colpa” ambientali.
Tanti pensano di essere frequentatori della montagna “migliori” degli altri.
Così vorrebbero limitare l’accesso ai monti agli altri per poter essere gli unici a raccontare la salita sulle vette.
Discorsi da serata sociale o da osteria.
Trovo penoso l’intervento di Penasa: imbarazzante collazione di luoghi comuni, che ci sta quando a scrivere è il caiano militante, ma veramente indegna per un super caiano come lui.
La mitica montagna si è svuotata della vita secolare che ha dipinto i paesaggi che tanto ci piacciono quando i montanari si sono stufati della “frugalita”.
Sono andati a lavorare e vivere in città per stare meglio.
Così la mitica montagna è diventata il teatro di azione di cittadini annoiati, come lo è sempre stata, a partire dagli albori dell’alpinismo di annoiati ricchi nobili o borghesi d’oltre manica.
Codici e convenzioni placano l’animo umano teso alla ricerca di serenità.
Ma la natura non è mai in equilibrio, e questo destabilizza.
Mi sono rasserenata nel leggere l’articolo di Pinelli.
Interessante come negli altri si promuova l’elezione a Montagna Sacra di una vetta che risulta poco frequentata.
Interessante pure come nei testi si sottolinei il piano simbolico: salviamo una cima per lavarci la coscienza rispetto allo scempio che compiamo su tutte le altre? E questa rappresenta la più difficile delle sfide? La più difficile sarà, per l’umanità, sopravvivere su questa Terra.
Dulcis in fundo l’elezione di un solo giorno per concentrarci sull’inaccessibilità di una sola montagna, come accade per tutte le feste comandate e le miriadi di giornate mondiali create appositamente per calarci nel ruolo di bravi cittadini.
Io invito ogni giorno i miei ospiti a cercare di preservare le piante che vivono intono ai sentieri che percorriamo, li invito a evitare di schiacciare le coccinelle che in questo periodo pullulano in alta quota, a non lasciare rifiuti e, anzi, a raccogliere quelli che si trovano.
Mentre attendiamo di partecipare alla giornata di Legambiente continuiamo a gettare rifiuti in ogni dove? Mentre attendiamo di eleggere una sola montagna come inaccessibile le distruggiamo tutte?
Temo proprio che non abbiamo compreso che abbiamo già largamente superato la soglia che ci permette di continuare a vivere sulla Terra.
allora io sono un uomo di buona volontà.
Mah… da tempo mi sono convinto che ormai siamo giunti a una situazione tale per cui tenere insieme i due concetti “inclusione” e “rispetto dell’ambiente” sia impossibile. Sono concetti incompatibili all’atto pratico. Occorrerà sceglierne uno: o includiamo chiunque voglia metter piede in montagna, ma allora dobbiamo esser disposti a sacrificare l’assoluta tutela dell’ambiente, oppure poniamo come obiettivo primario la tutela dell’ambiente e allora dobbiamo ipotizzare un approccio selettivo alle montagne. Non mi impegolo nella diatriba se sia eticamente più giusto uno o l’altro (le valutazioni in merito risentono troppo della “soggettività” individuale), certo è che chi si strappa le vesti per la tutela dell’ambiente a tutti i costi non può, contemporaneamente, sostenere il diritto di indiscriminato accesso antropico. Purtroppo mi imbatto spesso in questa contraddizione. Le due cose sono incompatibili (a bene vedere la conclusione vale non solo in montagna, ma non andiamo fuori tema e restiamo strettamente collegati alla montagna).
Gli italiani non sono un popolo primitivo in cerca di stregoni o di feticci da adorare, almeno spero. Del resto è molto significativo che la parola greca témenos e la parola latina templum nel senso di tempio siano state sostituite dalla parola latina ecclésia e dalla parola italiana chiesa che derivano entrambe dalla parola greca ekklesía che vuol dire assemblea, perché il sacro nei popoli civili non vuole escludere ma includere tutti gli uomini di buona volontà. Almeno quelli che in montagna cercano la bellezza.
Chi mi conosce sa che è una delle battaglie che mi stanno più a cuore. Quindi mi allineo sostanzialmente con la posizione complessiva, ma ho alcuni rilievi da fare, stimolato da alcune affermazioni che riporto per comodità dei lettori: 1) “Per fortuna l’invasione umana si localizza in zone definibili “alla moda”, nelle quali l’offerta è sempre più lontana dalla frugalità tipica della montagna.” Non è, è PURTROPPO, così vero. Certo, esistono ancora dei valloni solitari e isolati e paradossalmente sono spesso i più vicini alle metropoli, forse perché vengono considerati “sfigati”. Ma l’aumento dei frequentatori sta invadendo anche questi luoghi e, soprattutto, li sta contaminando. 2) “Nonostante questi siano concetti chiari e largamente accettati, la battaglia quotidiana contro chi, affarista o predone, antepone il ritorno economico (di solito di pochi) camuffato da sviluppo locale, non ha mai termine.” Vero, ma è solo una faccia del problema, manca l’altra quelle della domanda di un turismo consumista e quindi negativo per l’ambiente. Sono i “cannibali” che con il loro desiderio di una montagna piena di opzioni 5 stelle che danno spago agli imprenditori predoni. 3) “Gli alpinisti cavalcano la tigre della facilitazione in montagna e, pur rendendosi conto della contraddizione insita in questo compromesso, sempre più spesso si abbandonano all’ebbrezza del parco giochi, presi dalla propria realizzazione tecnica, unita all’irrefrenabile impulso divulgativo tipico di questo secolo. Ce ne rendiamo conto, ma facciamo finta di nulla…“. VERISSIMO! E’ il vero nocciolo del problema: la montagna, da una ventina d’anni sto parlando delle nostre montagne, Alpi e Appennini) è sempre più frequentata da falsi alpinisti che la concepiscono come un palazzetto dello sport dove realizzare le prorpie performance (atletiche o tecniche). Se l’aspetto spoitivo prende il sopravvento, o è l’unico “motore”, allora non dobbiamo stupirci delle mandrie di cannibali, che “chiedono” una montagna comoda e agevole e quindi spingono gli imprenditori a farla trovare. Da qui rifugi a 5 stelle, impianti per “sciabattoni”, strade che salgono in quota ecc ecc ecc. CONCLUSIONE: la sacralità della montagna non è tanto rispettare quei 10 mq della vetta dove ci si astiene dal mettere il proprio piede (gesto simbolico che approvo, ma che, se si limita a ciò, è limitato e spurio), ma andare in montagna con lo spirito sano che rispetta i quali, fin dal primo metro del nostro cammino.