Taste the Paine
(assapora il Paine, 34 giorni da solo su una big wall in Patagonia)
di Dave Turner
(pubblicato su The American Alpine Journal, 2008)
Togliendo il ghiaccio di brina dagli occhiali, riuscivo a malapena a distinguere il ghiacciaio molto più in basso. Ho fatto un passo più in alto sulla staffa, guadagnando una decina di centimetri su un gancio molto ballerino. “Trattieni il fiato, ora”, ho pensato. Solo un po’ più in alto e… pop! Il gancio è andato e io via con lui. Roccia dorata e grigia mi accelerava davanti agli occhi mentre involontariamente precipitavo verso la sosta. Ho sentito il suono rassicurante ma in qualche modo spaventoso del nylon che si lacerava di uno Screamer (1) agganciato a un’ancora (2). L’ancora saltò fuori e io continuai a cadere, ora pendolando paurosamente. Un altro Screamer si attivò al successivo posizionamento di ancora, e a quel punto mi sono fermato.
(1) Gli Screamers sono estensori (quelli che noi chiamiamo “rinvii”) specializzati per posizionamenti estremi, quelli cui si è costretti normalmente durante l’arrampicata artificiale o invernale. Sono generalmente costituiti da fettucce cucite con punti progettati per strapparsi sotto carico in modo che l’impatto dello strappo sia graduale piuttosto che “secco”. Forniscono una protezione aggiuntiva in situazioni di arrampicata artificiale in cui non solo assorbono energia direttamente a causa dell’effetto di rottura programmata, ma consentono anche alla corda di assorbire meglio l’energia della caduta con l’aumento dell’intervallo di tempo della caduta stessa. Lo Screamer standard (ad esempio) può ridurre efficacemente i picchi di carico di 3-4kN (NdR).
(2) Le ancore (beaks) sono un tipo ingegnoso di chiodi che offrono protezione nelle fessure super sottili, dove anche i micro dadi sono troppo grandi per penetrare. Sono disponibili in tre dimensioni comuni. Le ancore vengono spesso posizionate con un martello, ma succede anche di farlo a mano (NdR).
Il mio ancoraggio di sosta era appena sotto. Ho discusso con me stesso se sbattermi nel portaledge per un minuto o due, sia per lasciar passare una raffica di neve sia per riprendermi un poco. Era il mio ottavo giorno in parete e ovviamente sembrava proprio che sarebbe stato lungo. Alla fine presi uno jumar che avevo sul retro dell’imbrago e risalii sulla corda per finire il tiro. Mentre agganciavo lo jumar alla corda, avvertivo una sensazione di morbidezza all’interno del mio guanto sinistro. Me lo tolsi e vidi uscire sangue. Era stato il gancio che, appena staccatosi, mi aveva squarciato le nocche. Ma l’emorragia si fermò presto, sapevo che avrei potuto occuparmene più tardi; all’interno del portaledge avevo antidolorifici e materiali per cucirmi, e più tardi quella notte avrei potuto giocare al dottore.
Sono tornato su per finire il tiro, ma dopo un movimento con lo jumar l’ancora che aveva trattenuto la mia caduta ha deciso che ne aveva abbastanza, così sono precipitato sul portaledge. Scioccato, ho guardato l’ancoraggio di sosta, quasi aspettandomi di trovare un compagno cui gridare: “Hai visto?” Ma ero solo.
Seduto al piano di sopra al Café Andino nella città peruviana di Huaraz, sorseggiando Americanos e sfogliando riviste di arrampicata, mi sono imbattuto in un articolo sul Cerro Escudo. Tre americani avevano scalato una via sulla parete est di questa vetta colossale tra la fine del 1994 e l’inizio del 1995, e altre due linee avevano quasi raggiunto la cresta sommitale, ma nessuno aveva scalato le ripide pareti orientali e settentrionali fino alla vetta. Vedendo le foto degli americani in abiti Gore-Tex e scarponi di plastica, che si battevano su questa parete tra le leggendarie tempeste della Patagonia, sono rimasto affascinato. Quel giorno ho programmato di provare quella big wall.
Il gennaio 2007 mi ha visto ai piedi del Cerro Escudo. Non ero venuto per arrampicare; era solo un viaggio di ricognizione per capire la logistica e definire una nuova via sulla parete est. Ho trovato una potenziale linea a sinistra della via americana: ripida, su bellissimo granito grigio e dorato, e alta oltre 1200 metri. Proprio quello che stavo cercando.
A novembre sono volato dalla mia città natale, Sacramento, a Buenos Aires, in Argentina, pagando $ 700 extra per tutte le mie sacche piene di attrezzatura e provviste, tutto ciò di cui avevo bisogno per rimanere in Patagonia per quattro mesi e da solo su un big wall. Nel terminal di Buenos Aires ho avuto una drammatica scazzottata quando un uomo ha cercato di fregare uno dei miei zaini, ma alla fine ho salvato tutta l’attrezzatura e mi sono diretto verso la regione delle Torri del Paine, nella Patagonia meridionale.
Una volta arrivato al parco, è iniziato il vero lavoro. Fin dall’inizio ero contrario all’idea di assumere cavalli o portatori; ho trovato più gratificante portare tutto da solo. L’approccio alla parete è stato un viaggio di andata e ritorno di 24 miglia da dove il minibus ti lascia. Ho effettuato questo tragitto 11 volte, trasportando attrezzatura, cibo e carburante, per un totale di oltre 260 miglia. Ma alla fine mi sono sistemato alla base della via, con un bel campo in mezzo al ghiacciaio.
La salita è iniziata con una placconata di 150 metri che è risultata abbastanza facilmente, per lo più 5.6 e A2+, e che mi ha portato su una grande cengia di neve in po’ in pendenza. Ci sono voluti quasi due giorni interi per trasportare tutti i bagagli su questa cengia, a causa dei carichi pesanti, del maltempo e di un leggero incidente. Mentre trasportavo i sacconi uno per uno, il sole ha fatto una rara apparizione. All’improvviso la parete, riscaldandosi, ha iniziato a far cadere ghiaccio e pietre tutt’intorno a me. Sono tornato rapidamente a terra; dopo essermi tolta l’imbragatura ho camminato verso il mio accampamento sul ghiacciaio, a 10 minuti di distanza. Quando il muro è andato in ombra due ore dopo, sono tornato e ho scoperto che il mio deposito di attrezzatura alla base era stato centrato dalla caduta di un blocco. L’imbragatura, le staffe, le daisy, gli jumar, il Mini Traxion e alcuni rinvii erano stati distrutti o danneggiati. Avevo ricambi per tutto tranne che per l’imbrago. La cintura era stata tagliata quasi a metà, ma per fortuna l’imbragatura Yates Big Wall aveva così tanto materiale rimanente che sembrava resistente a sufficienza. Ho spalmato un po’ di Seam Grip sui tagli, ho cucito alcuni nuovi passanti e ho definito il tutto “buono”.
Una volta che tutta l’attrezzatura fu sulla grande cengia innevata, sono partito per quella che sarebbe stata la più grande avventura della mia vita. I successivi 1000 metri sarebbero stati ripidi e molto difficili. Il tipo di roccia e lo stile di arrampicata sembravano un misto delle vie Tempest e Zenyatta Mondatta di El Capitan, solo molto più dure e più lunghe. Per la maggior parte dei giorni sarei fortunato a poter salire un singolo tiro lungo, pulirlo e preparare il materiale e le corde per il giorno successivo. In media le lunghezze richiedevano dalle cinque alle otto ore, poiché di solito erano molto lunghe (dai 65 ai 70 metri) e il tempo feroce rendeva difficile la scalata rapida. Molte volte il vento e la neve mi hanno costretto a tornare al portaledge, che lasciavo quasi sempre pronto in loco, per aspettare. Avevo scelto di fare questa salita a partire da dicembre, un po’ prima della maggior parte delle altre grandi salite nel parco, quindi avrei sperimentato la neve piuttosto che la pioggia. In questo modo sarei rimasto molto più asciutto, ma era anche molto più freddo. A me il compromesso è sembrato buono, dato che la stragrande maggioranza della salita era in artificiale e non fa grande differenza se fa freddo.
Mentre salivo la parete, di solito spostavo il mio campo portaledge ogni due tiri. Ho scelto di scalare la parete in questo modo piuttosto che fissare lunghi tratti di corda fino al suolo o campi in portaledge ampiamente distanziati. I giorni in cui spostavo il campo erano quelli più snervanti dell’ascensione. Avevo così tanta attrezzatura e peso che mi era necessaria la parte migliore della giornata, perché le tempeste arrivavano di colpo e violente: perciò mi esponevo continuamente al rischio di esserne vittima proprio mentre ero impegnato nei traslochi. Preparare il campo successivo era sempre lungo e difficile. Ho usato una tendina Cliff Cabana con un sistema personalizzato a doppia parete e triplo palo, ancorandola a tre punti diversi ogni volta. Le correnti ascensionali in parete erano così forti che avrebbero sollevato anche i sacconi di carico, così legavo anche loro. Su circa metà delle mie soste non ho utilizzato spit.
Dentro la mia casetta avevo tutto quello di cui avevo bisogno per la scalata e anche un po’ di più. Ho portato non solo due rainfly (i tessuti della tendina portaledge, NdR), ma anche due fornelli, due sacchipiuma, due paia di giacca e pantaloni Gore-Tex, due materassini e così quasi per ogni altro oggetto essenziale. Portare tutto dentro e fuori dal portaledge e dai sacchi nel vento impetuoso era una missione.
Quattro tiri di arrampicata difficile e sempre più ripida mi hanno portato alla prima e unica cengia naturale sopra la grande cengia di neve (il mio campo base avanzato) a 150 m da terra. Il pomeriggio sono arrivato lì, il tempo era piuttosto instabile. Verso le 17.00 ho deciso di spostare tutto fino alla cengia, che misurava circa 1×2,5 m. Tutto è andato bene mentre trascinavo i sacconi, ma quando ho iniziato a smontare il portaledge sottostante, la tempesta è esplosa a uragano. Rimasi seduto sul portaledge per cinque minuti, in dubbio se spostarlo. Avevo solo due ore prima che calasse la notte, che in quella stagione e latitudine vuole dire le 23.30. Decisi di farlo e pagai cara quella decisione.
Avevo appena approntato il traino che cominciò a nevicare nelle raffiche di vento. Soffiava così forte che era quasi “divertente”. Anche salire a jumar era difficile. Alla cengia ho lottato per allestire la Cabana; questo era il portaledge di modello più grande, ed era come una vela gigante. Una volta che ho impostato il portaledge, è arrivato il momento cruciale: applicare i doppi rainfly. Un modello da spedizione non si monta come una normale tendina. Devi aprire il tessuto e inserire il sostegno attraverso l’apertura; se non lo fai bene, non andrà mai bene insieme. A metà di questo traffico, ho sentito una folata di vento in avvicinamento che mi sembrava stesse squarciando il tessuto del tempo. Ebbi solo un secondo per afferrare l’angolo della ledge, poi mi ritrovai in volo. La corrente ascensionale risucchiò il portaledge e mi tirò su con lui finché i miei piedi non furono ben due metri sopra la cengia rocciosa. Le mie daisy scattarono strette contro l’ancoraggio, e il portaledge e io cavalcammo nel vento per più di cinque secondi. Non potevo mollare la presa, altrimenti il vento avrebbe battuto il portaledge e me siesso contro la roccia finché non fossimo stati fatti a pezzi. Quindi ho tenuto duro in quel momento pazzesco! Dopo quella che sembrò un’eternità, la folata passò e ci lasciò cadere sulla cengia.
Più di un’ora dopo ero al sicuro all’interno del bivacco. Durante i due giorni e mezzo successivi, tre metri di neve caddero e si riversarono sul campo mentre la Patagonia faceva del suo meglio per allontanarmi dalla parete. Dopo aver superato quelle giornate ero abbastanza contento perché a quel punto ero davvero sicuro che il mio sistema da bivacco era sufficiente anche per le tempeste peggiori.
Passo dopo passo su fessure lunghe, sottili e difficili, i raccordi si presentavano al momento giusto. Quando la fessura che stavo seguendo iniziava a svanire, un’altra di solito non era lontana. La maggior parte delle volte pendolavo su un’altra fessura appena prima di dover perforare. Ma, naturalmente, a volte erano necessari gli spit: un compito che richiede tempo e che prosciuga mentalmente, la sporca faccenda dell’arrampicata su big wall. Poiché la maggior parte delle vie che avevo fatto su El Cap e altre pareti avevano dai 100 ai 200 buchi, avevo con me più di 200 spit. Ma alla fine ho praticato solo 80 fori sull’itinerario di salita. In 25 tiri, ho fatto una media di tre o quattro buchi per tiro. Niente di veramente impossibile mi ostacolava: un miracolo, in realtà.
Verso la metà del percorso, stavo arrampicando sopra il mio campo quando vidi una pioggia di piccole pietre e ghiaccio che cadeva proprio verso di me. Ho cercato di farmi il più piccolo possibile e ho aspettato che arrivasse, guardando attentamente. Ho schivato a destra e a sinistra mentre la scarica passava, solo per sentire un grosso pezzo colpire direttamente il portaledge. Dopo aver finito il tiro, sono tornato alla sosta per scoprire che un sasso dalle dimensioni di una palla da tennis aveva squarciato il portaledge. Seguì un’altra sessione di cucito e incollaggio, un compito costante su una parete incazzata come questa.
Dopo aver ultimato due lunghezze sopra il mio ultimo campo, quello sospeso più in alto di tutti, ho iniziato a pensare alla mia strategia per la vetta. Ho caricato il mio zaino da montagna con attrezzi da ghiaccio, ramponi, fornello a butano, sacco da bivacco e altra attrezzatura. Il 33° giorno ho risalito le due corde fisse, con l’intenzione di attrezzare un ultimo tiro in artificiale, quello che mi avrebbe portato su una rampa più facile che portava alla cresta sommitale. Un tiro incredibile, tipo Shield Headwall, mi ha portato alla rampa alle 11 del mattino. Ho pensato che era abbastanza presto, perciò potevo salire la rampa di due tiri e dare un’occhiata alla lunga cresta sommitale. In poco tempo mi ritrovai seduto in un intaglio della cresta, una gamba buttata sul lato est della montagna e l’altra su quello occidentale. Un’enorme torre verticale mi bloccava la vista del crinale davanti a me. Era ancora presto, verso le 13, e un pensiero mi attraversò la mente: perché non provarci? Non avevo portato il mio zaino con quegli oggetti essenziali, cibo, o acqua. Ma ero eccitato e il tempo sembrava reggere. Mi legai sulla schiena una corda da 70 metri sulla schiena, agganciai qualche protezione alla mia imbragatura e iniziai il free solo.
Sulla cresta, la roccia si è trasformata da bel granito solido a roccia metamorfica di qualità mediocre. Di tanto in tanto mi auto-assicuravo su brevi tratti con un anello di corda. Ho scalato o aggirato una serie apparentemente infinita di torri e gendarmi, di solito superando quelli più ripidi a destra (ovest). Alla fine non ci fu nulla di più alto e il mio sogno si era avverato. No, sono stato io a realizzarlo. Tutta l’esperienza, l’impegno e le energie degli anni precedenti si sono concentrati in quel momento esatto. Mi sono infilato ancora in un piccolo intaglio direttamente sotto la vetta e ho scattato alcune foto e un video. Trovai un piccolo rivolo d’acqua nella parte posteriore di una fessura da cui potevo bere qualche sorso. Il tempo era ancora buono, ma ero tutt’altro che finita.
Quasi velocemente come ero caduto nel magico spazio mentale della vetta, sono tornato alla realtà della discesa. Senza esitazione ho voltato le spalle alla punta e ho iniziato a scendere da solo lungo la cresta. Ho dovuto risalire o aggirare la maggior parte delle torri che avevo superato durante la salita, facendo alcune brevi doppie su qualche spuntone. Alle 23.00 ero di nuovo alla portaledge, a riempirmi di cioccolata e bevande calde, con l’iPod che suonava a tutto volume le mie canzoni di vittoria. La festa non durò a lungo, ma ricordo di essermi svegliato il giorno dopo con il cioccolato su tutto il viso.
Sorprendentemente il tempo continuava a resistere e ho iniziato a muovermi presto per approfittarne. Avevo 1000 metri di dislivello da scendere e, credetemi, calare in corda doppia da solo una parete strapiombante con circa 120-130 kg di attrezzatura è abbastanza difficile.
Per prima cosa legavo le mie quattro corde insieme e andavo giù verso le varie soste, fissando una corda ad ogni ancoraggio. Poi tornavo su alle sacche, rimuovendo tutti gli ancoraggi direzionali. Tornato all’ancoraggio più alto, calavo tutti i sacchi e poi me stesso lungo le quattro corde. Alla fine tornavo su, portando con me la corda che avevo usato per ultima, e poi mi calavo di nuovo, ogni volta recuperando le corde messe in doppia. Ho ripetuto questo processo per più di 18 ore di fila, fino a quando non sono sceso dall’ultima corda sull’ultimo set di doppie.
A questo punto le corde erano in cattive condizioni, con numerosi colpi di anima e gravi abrasioni. A circa 60 metri sopra il ghiacciaio, una di queste sezioni danneggiate è passata attraverso il mio sistema (un GriGri che alimentava un ATC a doppio moschettone esteso dall’imbracatura), e improvvisamente la corda sembrava rompersi. Quando la corda danneggiata è venuta in contatto con l’ATC surriscaldato, la guaina si è rotta o si è bruciata e io sono precipitato per i due metri più spaventosi della mia vita. Mentre ciò succedeva, sentivo odore di nylon bruciato; l’ATC “rovente” stava ora cominciando a bruciare i fili del nucleo. Cercai disperatamente nella parte posteriore della mia imbragatura il mio coltello per tagliare il bagaglio pesante che avevo appeso, ma non sono riuscito a trovarlo. Quindi ho solo guardato mentre l’ATC si faceva strada nel nucleo, finché alla fine il dispositivo si è raffreddato a sufficienza e ha smesso di fondere il nylon. Ma ora ero bloccato. Si era accumulata così tanta guaina sotto l’ATC che non potevo muoverlo. Alla fine ho trovato il mio coltello e ho tagliato il mio anello di sicurezza dall’imbracatura, liberandomi dall’ATC. Sono caduto un po’ sul GriGri, che ora era agganciato ai miei due punti di aggancio, quindi ho tirato la maniglia più velocemente che potevo e sono scivolato lungo la placca finché con i piedi non hi toccato il ghiacciaio. Ho emesso il più grande urlo animalesco mai sentito, che ha echeggiato nella Valle del Silencio. Alcuni alpinisti che mi avevano tenuto d’occhio per settimane hanno iniziato a lampeggiare con le loro lampade frontali e gridare dal loro campo in alto sopra l’altro lato del ghiacciaio. Che momento!
Sfortunatamente, il nucleo di quella corda era così danneggiato che sarebbe stato stupido da parte mia risalire per recuperare le mie corde: anche gli altri alpinisti e le guardie del parco mi suggerirono in seguito di non provarci. Mi sarei preso a sberle per aver lasciato quella spazzatura sulla montagna, unico difetto in una salita altrimenti perfetta. Molte persone credono che il tempo rimuoverà le corde, ma io ho già previsto qualche giro di aperitivi per i prossimi salitori (o il prossimo salitore) che, durante la seconda salita, al loro ritorno toglieranno quelle corde dalla parete e me le impileranno alla base perché io possa portarmele via.
Sommario
Area: Torres del Paine, Patagonia meridionale, Cile
Ascensione: Prima salita alla vetta del Cerro Escudo per la parete est, attraverso una nuova via denominata Taste the Paine (VII 5.9 A4+); salita in solitaria di Dave Turner. La porzione di big wall è di 1200 metri su 25 tiri, mentre la lunga cresta sommitale presenta ancora circa 300 metri di dislivello con difficoltà fino al 5.9. Turner ha trascorso un totale di circa quattro giorni scalando i primi 150 metri e trasportando la sua attrezzatura su una grande cengia nevosa a quell’altezza. Ha lasciato la cengia il 23 dicembre 2007 ed è tornato a terra 34 giorni dopo, il 25 gennaio 2008.
Una nota sull’autore
Dave Turner ha trascorso il suo 26° compleanno sul Cerro Escudo. Abitando nel nord della California, ha effettuato più di una dozzina di ascensioni in solitaria su El Capitan, comprese tre nuove vie in solitaria, e ha completato cinque spedizioni in Sud America. Turner ringrazia l’American Alpine Club e Cascade Designs/MSR per il generoso supporto di questa spedizione attraverso un Lyman Spitzer Cutting Edge Award.
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L’Escudo del Paine è stato salito per la prima volta da una spedizione del CAI Bergamo a fine 1967 inizio 1968 dal lato opposto, lungo una rampa ascendente ghiacciata, e poi la cresta di rocce metamorfiche scure (varie torri). Per allora era una salita di elevata difficoltà tecnica su ghiaccio e misto. Piero Nava, che era il capospedizione, ha fatto anche un film per la cineteca centrale del CAI: “Vittoria allo Scudo del Paine”.
E’ stato pubblicato un lungo resoconto, con numerose foto, sull’Annuario CAI Bergamo del 1968.
In contemporanea alla salita sulla Fortezza erano impegnati gli inglesi di Ian Clough.
https://www.fanpage.it/cultura/la-merda-d-artista-di-piero-manzoni-venduta-per-275mila-euro-all-asta/
certo che 276 mila euro di cioccolata valgono di piu’. Anche 275000,001 e magari finissero in tasca ai produttori.
de gustibus non est disputandum, si puo’percio’ preferire stracci a seta, cacca a cioccolato….( anche la propria cacca ha un suo valore che si rivaluta ancor di più se ti viene blocco intestinale, forse piu’ del cioccolato)
onirico significa “Sognante, irreale, rarefatto… riguarda un’atmosfera”..quindi con confini non ben definibili con logica strigata scientifica.Ognuno se li declina come gli pare o gli riesce . Analogie non vuol dire mettere sulla bilancia di precisione, comunque a me come narratori e fotografi vanno a genio entrambi i protagonisti senza pesarli o confrontarli.
Origine
Qui siamo alla dimensione onirica dell’alpinismo. Bonatti si è fermato a quella fisica. Senza nulla togliere al Walter nazionale, ma stiamo paragonando gli stracci con la seta. La merda con il cioccolato. O, fate voi.
(E so benissimo che ci sono 2 generazioni in mezzo, ma nonostante ciò, confermo quanto sopra).
Ricorda qualche impresa di Bonatti e sembra dire”Alzatevi dal divano..provate anche voi , che ce vo’, tagli alle mani, corde al limite di rottura ,scazzottate.. corde tagliate… caduta sassi…tutto il resto e’noia!”
Visto che sono citato nell’articolo insieme al catalano Joan J0over per aver fatto un tentativo nell’inverno Patagonico del 1996 vi posso assicurare che la parete affrontata dall’autore è veramente repulsiva e posso solo immaginare i 34 giorni passati da solo. Veramente una cosa eccezionale, concordo pienamente con Cominetti.
Ho dimenticato di aggiungere: lindo golazo!
Al confronto di Turner, Sisifo era un dilettante, viene da pensare. Inoltre, è pazzesco che si continui a osannare chi ripete le normali agli 8000, relegando personaggi come questo nel più completo anonimato. Ma forse preferiscono così.