E’ la sera del 3 giugno 1978 quando Nella ed io, lasciato il van nei pressi del famoso immondezzaio di Monte Cucco, ci avviamo per i pochi minuti necessari a giungere l’enorme antro verso est, verso San Lorenzino. Non ricordo più perché abbiamo deciso di non dormire nel nostro mezzo.
Metadiario – 75 – Il Gufo di Monte Cucco (AG 1978-003)
“All in all is just a brick in the wall (Pink Floyd, The Wall)”.
(Tutto questo è solo un altro mattone aggiunto al Muro)
Non è molto tardi quando salutiamo gli amici, quasi mezzanotte. È maggio e i grilli fanno già concerto: è una bella serata e le stelle non sono molto luminose. Inciampando e portando il necessario in mano, Nella ed io percorriamo il sentiero breve che porta alla base di Monte Cucco. Da alcuni anni ormai chi viene da lontano per arrampicare sulla pietra del Finale dorme protetto da un’ampia caverna, dalle pareti rossastre e con sabbia fine sul terreno. Non è un luogo da pipistrelli e da guano. È solo un soffitto arrotondato che riesce a proteggere dalla pioggia creando un’atmosfera raccolta. Questa caverna ha visto anche più di quaranta scalatori sdraiarsi alla sua base, immaginarsi quale confusione, rumore. Questa notte siamo solo noi due e ci dividiamo in serenità una mezza borraccia d’acqua prima di dormire. La ricerca del posto non è difficile, la sabbia fa ogni angolo confortevole. C’è una buona temperatura, la protezione del sacco piuma è gradita, ma potrebbe essere superflua. Sono felice di vivere così una notte ligure, mi sento circondato dai miei alberi, gli ulivi, e dalle mie brughiere. L’aria che respiro è mia, quel misto di mare e di campagna lo riconoscerei sempre. Una notte tranquilla, un sonno profondo. Ma all’alba i primi uccelli e qualcosa nell’aria mi svegliano con certezza: sarà una giornata di sole. Nella è ancora raggomitolata nel suo sacco rosso e non dà segni di risveglio e mentre la guardo mi accorgo ancora di avere gli occhi ormai del tutto aperti e di respirare la mia aria. Mi piace il mattino, sono le ore più belle per me, quando posso vedere il sole salire dall’orizzonte e colorare lentamente ciò che mi è intorno. Respirare con la pelle un’aria fresca, giovane, l’aria del nuovo mattino. Sento improvvisa la voglia di salire, di muovermi in questo ambiente così familiare e così amico. Godere da solo di un mondo che solo più tardi, mutato, potrà essere di altri. Prima della decisione ci penso ancora e mi vedo arrampicare con il cuore e con il ventre. La testa ora è inutile, potrei lasciarla nel sacco piuma. È con particolare cura che mi allaccio le scarpe: nella mia arrampicata non saranno né una difesa né un attacco alla roccia, saranno solo il mezzo, il punto di contatto con la pietra.
Elastico e veloce sposto con la mano i rami che invadono il sentiero, in pochi minuti la grigia parete è vicina ed io so che mi attende per fare l’amore con me. Il cuore mi batte forte, è l’emozione di rivivere ciò che a lungo si è dimenticato. Non porto con me nulla, solo l’amore di un’ora magica. Le dita sono forti, le ginocchia sicure, la paura ha rivelato la sua essenza di Amore, è scritto che io salga. Dicono che a un certo punto sulla via del Gufo c’è un passaggio difficile. È vero, perché lì ho sentito la mano che mi sosteneva, dopo un po’ di esitazione, spingermi più forte. Sul diedro finale della Corpus Domini ormai desidero vedere il sole giallo, poco sopra al mare increspato. Quando salgo sull’orlo della barriera, alle spalle è il vuoto e mi si apre di fronte il sipario della brughiera ligure, un verde denso e intricato che preclude la via al mare lontano.
Sono dritto sulle rocce finali come una statua, gli occhi non si chiudono al sole nascente, il viso non fa smorfie protettive. Per quanto tempo ho trascurato il mio giardino? Fino a quando ancora potrò stringere un appiglio come se lo accarezzassi? Quando sarà sazia la mia sete di infinito? Cosa succederà ancora sul sentiero del mistero?
Era tanto che non arrampicavo slegato, forse l’ultima volta era stata alla Piramide in Valle dell’Orco, quando ero anche caduto… Per questa “ricaduta” ho scelto un itinerario di media difficoltà, ma tutti voi mi insegnate che per un solitario tenere un profilo basso non è un sistema infallibile. Però quel mattino era speciale, sentivo forte la presenza della mia Liguria.
Più tardi in mattinata porto Nella sul Bric Pianarella, e saliamo la via Lunga, un itinerario del quale il nome dice già molto… In cima ancora profumi e colori di macchia mediterranea, tracce di cinghiali, solitudine.

Ma volevamo anche godere della nostra casetta in mezzo al bosco vicino a Champoluc. Così, in un weekend lungo, la sera di domenica 12 giugno 1978 Nella ed io ci portiamo al rifugio Mezzalama per l’ultima scialpinistica della stagione. Confesso che allora si poteva salire in macchina molto in alto, non era così lunga come oggi arrivare al rifugio delle Guide di Ayas, costruito nel 1991 accanto al vecchio Mezzalama. Il giorno dopo scegliamo di salire il Polluce, la cima gemella del Càstore, a torto dimenticata dalla maggioranza degli alpinisti e scialpinisti. Ma era un lunedì, e non c’era comunque nessuno.
Mauro Rossi
A fine marzo avevo ricevuto una lettera di un ragazzo sconosciuto, Mauro Rossi:
“Gravellona Toce, 25 marzo 1978. Caro Alessandro, sono un ragazzo di venti anni appassionato della montagna e appassionatissimo dell’arrampicata, che pratico da soli due anni. E’ quasi un anno e mezzo che ho concluso il liceo scientifico e che ho abbandonato la scuola, per insoddisfazione e anche per motivi familiari.
Così cercai un lavoro, non ti dico le pressioni dei miei genitori per farmi andare in un ufficio, ma in un modo o nell’altro sono sempre riuscito a scapolarla. Così, cercando un lavoro che mi piacesse e soprattutto mi desse delle soddisfazioni non tanto monetarie ma personali e che non mi costringesse a rimanere sempre rinchiuso in una fabbrica, ho fatto svariati lavori: dall’aiuto-muratore allo scaricatore di camion. La cosa che più mi ha oppresso e scoraggiato era l’essere inchiodato a una specie di catena di montaggio.
Così, grazie a questo periodo di crisi finanziaria e di idee, ma soprattutto di libertà (infatti cambiavo spesso posti di lavoro) ho potuto avvicinarmi maggiormente all’alpinismo.
Avendo letto alcuni dei tuoi libri e riscontrandovi dei problemi comuni, ho pensato di scriverti. Siccome considero l’alpinismo non tanto uno sport quanto invece un modo diverso di vivere, ho un grosso problema.
Finendo ad aprile il lavoro di ski-man al Sestrière che, pur piacendomi, mi ha costretto a una forte inattività, devo trovare un lavoro che mi dia più libertà e più tempo per arrampicare ma che non mi costringa a stare sempre rinchiuso in una fabbrica. Visto che anche tu avevi certi problemi ho deciso di chiederti un consiglio e un parere, se puoi, per risolvere il mio problema o almeno indicarmi quali tipi di lavori potrei fare pur rimanendo sempre a contatto con l’ambiente della montagna.
Mi piacerebbe moltissimo poterti parlare di persona, non tanto perché hai un nome famoso, ma perché sei riuscito a vivere in un certo modo…
Cosa ne pensi di quei Sassisti che hanno aperto una via di 400 m presso Sondrio, con difficoltà di IV e V con solo 3 chiodi di sosta? C’era un articoletto sulla Rivista Mensile del CAI di gennaio-febbraio 1978 (si riferisce al pilastro sud-ovest della Torre Bering, in alta val Toate vicino al Corno del Colino 2504 m, una via aperta da Ivan Guerini, Tarcisio Mattei e Massimo Casaletti il 29 febbraio 1976, NdA).
Pur togliendo tanto di cappello a quei ragazzi, non condivido il loro modo di arrampicare. Sono del parere che un eccesso di mezzi artificiali deturpi la salita. Ma, sia che ci si trovi sul V come sul III e vi sia un pericolo oggettivo di una certa caduta, penso sia necessaria una sicurezza, anche se pur minima. Questo come principio di base. Sbaglio?
Con questo non voglio dire d’essere contrario alle solitarie, anzi. Perché queste hanno, almeno per me, un concetto di base differente da quello della cordata con un compagno.
Vorrei poter continuare questo discorso e cercare di spiegarti meglio la mia situazione e la mia passione ma… ti sto già facendo perdere troppo tempo.
Avrei molti altri quesiti da porti (chiodi a espansione, alpinismo americano… ma quello del lavoro mi preme ed è lì che vorrei un tuo consiglio, sempre se vorrai e avrai tempo per rispondermi! Comunque (con un po’ di speranza) ti lascio il mio indirizzo. Ciao, Mauro. Buona Pasqua!”.
Mi decisi a rispondergli dopo quasi sei (!!) mesi, il 15 settembre:
“Caro Mauro, è solo dopo un bel po’ di tempo che mi decido a risponderti. Tu mi scrivi perché sono riuscito a vivere “in un certo modo”, e in effetti così è stato. Se hai letto il libro con attenzione avrai visto che ci uniscono molte cose in comune. Quello che non ho mai scritto sul libro è che purtroppo ognuno ha il suo destino e non si può “scegliere” un lavoro per poter “avere” una vita più essenziale. Caso mai bisogna “essere” per avere una vita più semplice. E, per essere, al massimo ci vengono offerte, ci capitano in mano delle scelte. A volte le rifiutiamo tutte perché non se ne vedono gli sviluppi e per seguire quello che invece la nostra volontà sta pianificando. Questo è un grande errore. Chi cerca non trova. Aspetta, abbi l’arte di saper aspettare. Soffri, se è necessario, ma non cercare. Sii essenziale. Sono le sole cose che posso dire e te le dico abbastanza chiare e dure, ma con il cuore. Non dare e non chiedere consigli. Spontaneamente ti ho scritto solo ora perché prima appositamente ho voluto lasciarti nel tuo brodo che poi però, vedrai, non è così cattivo. Non pensare che ti voglia parlare da “maestro”, ti scrivo perché sei stato tu a cercarmi e sarà solo un buon segno se non mi scriverai più. Sarà invece bello se il caso prima o poi ci farà incontrare. Cari saluti e auguri, Alessandro”.
Rilette dopo tanti anni queste due lettere, mi viene da considerare che la sua missiva mi ricorda quella che io scrissi a Gino Buscaini, quando più o meno ero immerso nelle stesse problematiche; che la risposta di Buscaini fu forse meno dura di quella che diedi io a Mauro, ma di certo ugualmente indigesta.
Ebbene, Mauro ce l’ha fatta. Non solo non mi scrisse più, ma anche ci incontrammo casualmente, qualche volta. Sono felice del corso che ha preso la sua vita.
Mauro Rossi era nato in Kenya da genitori italiani ed era arrivato in Italia all’età di otto anni. Dopo la maturità scientifica, eccolo intraprendere la sua grande ricerca, forse memore delle sue esplorazioni solitarie nella foresta africana. Roccia, ghiaccio, esplorazione e concretizzazione delle visioni di nuove vie alpinistiche è solo l’aspetto chiaramente visibile; ma attraverso queste incredibili avventure ed esperienze, a visioni premonitrici, e una lunga malattia approda alla pratica di diverse tecniche di guarigione, alla meditazione e a viaggi in India.
“Il mio primo viaggio in India, non per alpinismo, è diretto e deciso per incontrare, nelle vicinanze di Rishikesh, ShantiMay, maestra del linguaggio Sacha, dai cui ricevo, nel silenzio, nutrimento e amorevole saggezza, che mi permetterà di proseguire più agevolmente, il mio cammino di ricerca”, racconta.
Diventato guida alpina e maestro d’alpinismo nel 1980, ha all’attivo spedizioni in Himalaya come la salita della parete nord dell’Everest, dove a 8650 m decide di scendere, rinunciando alla cima, per l’incolumità degli altri alpinisti; poi il Manaslu 8163 m per la via Messner, la vetta del Cho Oyu 8201 m e dello Shisha Pagma 8013 concatenati in dieci giorni tracciando, sullo Shisha Pagma una via nuova di oltre mille metri. Tutto senza ossigeno.
Anche in Patagonia riesce a concretizzare in un mese quattro nuove vie, poi però va a cogliere l’essenza della Terra del Fuoco.
Apre innumerevoli ascensioni su ghiaccio e roccia nel Vallese, nelle Gole di Gondo e nel massiccio del Monte Bianco. Ancora oggi svolge attività di guida alpina, dopo una parentesi di 8 anni in un negozio di articoli sportivi.
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Mi devo correggere. Era prima del racconto di Alessandro perché 16 anni li avevo nel 1977, quindi un anno prima del racconto dell’articolo.Altra precisazione, che ho trovato per levarmi un dubbio consultando la guida di Andrea Gallo, Finale 007, la via Davide e Golia dal cui primo tratto mi sono lanciato negli alberi (non facendomi neppure un graffio) è stata poi aperta nel Marzo 1984 da A.Gogna (tantu pe cangiàa) e F.Salino.Il correttore del telefono mi ha fatto fare degli errori: gli alberi rasentavano la parete e non la “presentavano”. Ciao
la via del Gufo, la via della Pulce, la Corpus Domini sono state le mie prime via a Finale.
non sei un buon esempio per la società di oggi che tutto vuole in sicurezza.
Ma lo sei per l’istinto di sopravvivenza
Il racconto di Monte Cucco lo conoscevo bene, anche perché da genovese anch’io, sento molti punti in comune con Alessandro. Nello stesso posto, pochi anni dopo, passai una notte delle peggiori della mia vita. Era pieno inverno e la sabbia della caverna era gelata. I nostri sacchi a pelo (ero con Fulvio Torre e avevamo 16 anni) estivi e la mancanza di un materassino ci fecero morire di freddo. In più nel mezzo della notte insonne udimmo delle urla strazianti che ci terrorizzarono non poco. Scoprimmo, ma dopo mesi, che si trattava dello stridio di una o più civette. Una cosa agghiacciante. La mattina eravamo storditi come campane e volevamo aprire una via dove poi aprirono Davide e Golia. Una fessura strapiombante boulderosa e, quel mattino, fredda e ombrosa. Mi riuscì di salire di slancio i primi 6/7 metri e mi arenai strematato su una piccola cengia dove potevo riposare. La stanchezza della notte insonne al freddo si faceva sentire e decisi che ne avevo abbastanza. Avevo 5 chiodi troppo piccoli per fare un ancoraggio nei buchi calcarei che c’erano e dissi a Fulvio di andare a cercare una scala per farmi scendere. Dopo più di due ore di attesa non ne potevo più e stava venendo buio, così mi lanciai nei rami degli alberi poco distanti (presentavano la parete e negli anni 90 sono stati tagliati e oggi il bosco è a qualche metro dalla parte parete). Incontrai Fulvio alla locanda del Rio che era ormai notte e lo mandai al diavolo. Ancora oggi non crede che abbia saltato dalla cengia, ma andò così.
Il risvolto che mi è piaciuto di più di questo articolo è il passare con disinvoltura dalle falesie sul mare fino ai 4000. La “disinvoltura” non è tanto di tipo tecnico (come potremmo avere dubbi su questo aspetto di Gogna?), quanto mentale, ideologico. Di fronte ad un mondo di iperspecializzazioni, la “polivalenza” è una chicca: lo era già allora, figuriamoci oggi. Perché per essere polivalenti (specie se non si è Gogna) spesso si limitano le proprie potenzialità realizzative in un determinato settore dell’alpinismo. Per vocazione genuina, nel mio piccolo, mi definisco un appassionato di montagna da “zero a 4800”, parafrasando il titolo di un celebre libro di Kurt Diemberger (noblesse oblige, “da zero a 8000”) e ho sempre divulgato una questa visione, in particolare per chi va in montagna per piacere. Nel mondo dell’iperperformace questa impostazione può inizialmente apparire obsoleta e stantia, ma alla fine fa molta presa, molto più di quyanto si possa immaginare. Quanti allievi di scialpinismo, grazie a queste dritte ideologiche, sono diventati dei frequentatori delle falesie, ma anche dei salitori di 4000 e insieme dei ghiacciatori, degli escursionisti, degli appassionati di canyonig (forse, oggi, anche dei byker, chissà) ecc ecc ecc. A meno che uno abbia davvero dei talenti fuori dalla norma per una specifica attività, il bello esistenziale della montagna sta in questa alternanza di scenari e di discipline.