Tracce scomode del nostro passato
di Igiaba Scego
(pubblicato su internazionale.it il 9 giugno 2020
Roma è una città fascista. La frase potrebbe suonare come una bestemmia. Probabilmente lo è. Ma il fatto è che nella storia della capitale sono evidenti le tracce del ventennio. Chi abita nella capitale lo sa bene, i fasci littori spuntano stampigliati sui tombini quando meno ce lo aspettiamo, compaiono su un ponte o in alcuni murales. Spesso quando andiamo in una scuola, all’università o in un ufficio postale incappiamo in qualche palazzo d’epoca che presenta segni più o meno occulti del passaggio del regime. Molte delle case in cui abitiamo sono state costruite negli anni Trenta e nei cortili di certi palazzi è visibile la grande M di Mussolini.
C’è l’ombra del fascismo anche nei nomi delle strade. A volte ci capita di attraversarne alcune che rimandano a conquiste coloniali o, peggio, abitiamo in vie dedicate a feroci gerarchi. Quel passato di violenza e coercizione insomma è ancora tra noi, vivo nello spazio urbano. È un passato che contamina il presente e che se non viene discusso può provocare danni alle generazioni future.
In occidente il dibattito sui monumenti con un portato storico “pesante” si apre ciclicamente, spesso dopo una qualche azione pubblica. Il dilemma è sempre lo stesso: rimuovere o non rimuovere quelle tracce funeste? Quale azione è più efficace?
Negli Stati Uniti
Non è un caso se dopo l’uccisione di George Floyd a Minneapolis, il dibattito è ripreso con grande forza e partecipazione soprattutto negli Stati Uniti. Lottare per la sicurezza dei corpi afrodiscendenti è sempre stato intimamente legato alla cura del corpo delle città, e dunque di un paese. Le tracce di un passato schiavista, misogino, razzista, omofobo rappresentato dalle tante statue dedicate a politici e militari della confederazione – che durante la guerra civile erano contro i diritti dei neri – sono una ferita nel corpo della nazione. Anche perché tante non risalgono nemmeno ai tempi della guerra civile, sono monumenti messi lì a inizio novecento, quando i neri erano segregati a causa delle leggi razziali di Jim Crow ed erano linciati un giorno sì e un giorno no. Furono erette per sfregio, quasi come ultimo tentativo di restaurazione dell’epoca in cui i bianchi prosperavano sulla pelle degli schiavi neri. Tante furono messe sui piedistalli in periodi di tensione, contro ogni tentativo degli afroamericani di alzare la testa e pretendere diritti, come quelle realizzate tra il 1950 e il 1960 quasi per impedire che il movimento dei diritti civili si sviluppasse e crescesse.
Il movimento Black lives matter ha capito che la distruzione dei corpi dei neri ha anche a che fare con uno spazio urbano che non è neutro. Negli Stati Uniti l’attenzione per questo spazio segnato da tracce di razzismo, violenza e segregazione è cresciuta dal 2015, anno in cui Dylann Roof ha ucciso nove neri a Charleston, in South Carolina, mentre assistevano alla messa. L’intento del terrorista suprematista era innescare una guerra tra razze, e i suoi modelli erano proprio alcune delle personalità rappresentate nelle statue dei confederati, che lui venerava come sue divinità.
Dopo la morte di George Floyd, Black lives matter ha fatto pressioni affinché alcune di quelle dedicate a schiavisti ed esponenti della confederazione fossero rimosse. A Filadelfia, in Pennsylvania, la statua dell’omofobo e razzista Frank Rizzo – capo della polizia dal 1967 al 1971 e sindaco dal 1972 al 1980 – è stata portata via. A Nashiville, in Tennessee, è toccato un destino simile a quella di Edward Carmack, senatore dal 1901 al 1907, noto per aver preso di mira l’attivista nera Ida B. Wells. Dopo anni si è deciso finalmente di rimuovere anche la statua del comandante delle truppe confederate Robert E. Lee a Richmond, in Virginia, anche se un giudice ha temporaneamente bloccato le operazioni. Nel 2017, nella vicina Charlottesville, c’era stato un raduno neonazista e quella statua – ricoperta da slogan antirazzisti dopo la morte di Floyd – era considerata dai molti un oltraggio. Ecco perché dopo l’annuncio della sua rimozione è diventata virale la foto che ritrae Ava Holloway e Kennedy George, due ballerine adolescenti della Central Virginia dance academy, mentre ballano sulle punte su quell’orrore architettonico, dedicato a chi aveva schiavizzato e violentato le loro antenate. Quell’immagine, insieme alla decisione di rimuovere Lee dal suo piedistallo, è sembrata a tanti una riparazione necessaria.
In Europa
Naturalmente questo dibattito si è diffuso anche in Europa, perché sono numerosi gli spettri che si aggirano molesti per il continente. Quello della schiavitù si accompagna in Europa a quello altrettanto nefasto del colonialismo. Qualche anno fa in Sudafrica è nato il movimento #RhodesMustFall, che ha preso di mira le statue dedicate a Cecil Rhodes, il più colonialista tra i colonialisti, colui che si era fatto un nome e una posizione sulle ossa dell’Africa. Tutto è cominciato il 9 marzo 2015, quando lo studente e attivista sudafricano Chumani Maxwele ha lanciato degli escrementi contro la statua di Rhodes che dal 1934 campeggiava all’università di Città del Capo.
Dal Sudafrica il movimento si è poi allargato ad altre città del continente e ha infine raggiunto la Gran Bretagna, dove ha chiesto la rimozione di altre statue raffiguranti discutibili personaggi del passato. E tutto mentre il pensiero imperialista da “Britain first” aleggiava pericolosamente nella politica britannica a causa della campagna per la Brexit.
Quando il 7 giugno gli attivisti di Bristol hanno tolto dal piedistallo la statua del mercante di schiavi Edward Colston – reo del trasporto di centomila persone nella tratta atlantica –, e l’hanno fatta rotolare come un birillo nel fiume, in tutta la città si è diffusa una sensazione di sollievo. Erano anni che con petizioni, picchetti e performance creative se ne chiedeva la rimozione, ma il comune era stato sordo a ogni richiesta. E più il clima politico britannico peggiorava, più il razzismo aumentava, più quella statua sembrava uno sfregio ai tanti black british che in quel Regno Unito sono considerati come cittadini di serie b. La città aveva bisogno di decolonizzare la sua storia, far sì che quel passato (e la ricchezza ottenuta dallo sfruttamento) fosse finalmente discusso, per poi voltare pagina tutti insieme. Ma invece di essere ascoltati, i cittadini di Bristol sono stati ignorati. Rimuovere la statua da soli è diventata quindi l’unica soluzione possibile.
In Italia
E gli abitanti di Roma? E quelli dell’Italia intera? Come si pone il nostro paese all’interno di questo dibattito? Prendiamo l’esempio della capitale. È chiaro che qui le tracce del fascismo non possono essere abbattute come una statua. Sono tracce della storia di questa città e di questo paese, in alcuni casi sono esempi di quell’architettura razionalista che, con il suo gioco di linee e sinuosità, ha realizzato monumenti di gran valore. Ma se non possono essere cancellate, cosa possiamo fare? Di certo sono tracce che non possono essere lasciate lì senza un dibattito e un lavoro intorno a loro. Alla vigilia delle Olimpiadi di Roma del 1960 Gianni Rodari scrisse per il quotidiano Paese Sera un pezzo dal titolo Poscritto per il Foro. Era sulle scritte al Foro Italico che inneggiano al fascismo, un’epoca ancora piuttosto recente nei tempi in cui Rodari firmava il suo articolo.
Si vogliono lasciare le scritte mussoliniane? Va bene. Ma siano adeguatamente completate. Lo spazio, sui bianchi marmi del Foro Italico, non manca. Abbiamo buoni scrittori per dettare il seguito di quelle epigrafi e valenti artigiani per incidere le aggiunte.
Per Rodari le aggiunte dovevano riguardare il dolore che il fascismo aveva inflitto. Un dolore che andava ricordato per non ripetere più un obbrobrio del genere. Completare quindi, per non soccombere. Un tentativo in questo senso è stato fatto nel 2019 quando il festival Short theatre ha svolto alcune delle sue attività anche nel palazzo che un tempo fu la Casa della gioventù italiana del littorio (Gil), restaurato dalla regione Lazio. Ideato nel 1933 dall’architetto Luigi Moretti, che allora aveva 26 anni, l’edificio è in puro stile razionalista ed è stato inaugurato nel 1937, l’anno dopo la conquista violenta dell’Etiopia, proprio per celebrare quella guerra sanguinaria.
Nel 2019 un collettivo di studiose postcoloniali e femministe formato da Ilaria Caleo, Isabella Pinto, Serena Fiorletta e Federica Giardini ha, insieme con gli organizzatori del festival, portato all’attenzione pubblica la problematicità del palazzo e soprattutto di una mappa esposta nel salone d’onore, un luogo di passaggio tra le palestre e i piani superiori, raggiungibili attraverso una scala di marmo. In quella raffigurazione, l’Africa è immensa e domina tutta la parete, ma è un continente vuoto, dove sono segnati solo i possedimenti italiani e si vede solo la M di Mussolini (insieme alla sua famosa frase “Noi tireremo dritto”), che sembra incombere sui territori occupati. Accanto alla mappa i nomi delle città conquistate dagli italiani: Adua, Adigrat, Macallè…
Cosa fare davanti a un tale sfoggio di fascismo coloniale? Quella mappa lascia interdetti per la sua ferocia, ma picconarla sarebbe un grande errore, perché solo osservandola si capiscono tante cose della nefasta visione che il fascismo aveva del mondo, soprattutto di quei popoli che erano malauguratamente finiti sotto il suo dominio. Quella mappa vuota ci parla ancora oggi delle violenze che si sono abbattute sui corpi dei colonizzati.
Il collettivo di studiose postcoloniali e femministe l’ha inondanda di frasi, proiettate o messe lì attraverso dei cartelli, e parallelamente ha organizzato dibattiti pubblici. Il vuoto è stato riempito con domande come: la mia pelle è un privilegio? Chi è civile? Chi è superiore? Gli italiani sono bianchi? Che lingua parlano i tuoi fantasmi? Dov’è la Somalia? Dov’è L’Etiopia? Dov’è l’Eritrea? Chi può parlare? La patria è donna? Perché questa mappa dell’Africa è vuota?
“Qui, per intervenire, una didascalia, non basta (…) fare memoria è un atto simbolico quanto materiale, e quindi politico, riportando sulla scena le relazioni tra quante rifiutano le narrazioni del colonizzatori. E il come è tutto da inventare”, hanno scritto le studiose.
La parola magica è relazione, ed è la parola che ha adottato il nuovo museo italo-africano nel quartiere Eur di Roma (per inciso: un quartiere nato per l’esposizione universale del 1942, una manifestazione che Mussolini aveva tanto voluto ma che dovette annullare a causa della guerra). Dedicato alla giornalista italiana Ilaria Alpi, uccisa in Somalia insieme all’operatore Miran Hrovatin nel 1994, il museo sta ancora archiviando i materiali che presenterà al pubblico nel 2021. Ma intanto ha creato una comunità dialogante di artisti, studiosi, studenti, insegnanti che di temi legati al colonialismo si sono sempre occupati. Perché solo una collettività transculturale (con origini diverse) può prendere queste tracce e reinventarle a seconda dei tempi e delle circostanze.
Il delicato dibattito sulle tracce del passato non va ridotto all’abbattimento o meno di statue e monumenti. A sdegni incrociati. A veti. A rabbie. Va tutto discusso e reso patrimonio comune. In questa storia non c’è giusto o sbagliato. Ci sono le relazioni. Il consiglio di Rodari, ovvero quello di completare quelle tracce, è sempre da tenere presente. Oltre a monumenti su cui discutere collettivamente – a Roma l’obelisco con la scritta Dux, a Parma la statua dedicata all’ufficiale ed esploratore Vittorio Bottego, sarebbe importante anche costruire monumenti riparativi. Ovvero dare dignità, anche monumentale e statuaria, a chi ha sofferto. Se i nostalgici della schiavitù a inizio novecento hanno progettato statue razziste, forse, soprattutto ora dopo la morte di George Floyd, anche qui in Italia è arrivata l’ora di costruire monumenti dedicati a schiavi, colonizzati, vittime del fascismo.
Una delle azioni decoloniali più recenti è stata quella del movimento Non una di meno, che ha versato una vernice rosa lavabile sulla statua di Indro Montanelli a Milano. Il giornalista, quando negli anni Trenta era in Africa a comando di un battaglione di ascari, aveva con sé una bambina di dodici anni costretta al concubinaggio forzato. L’azione di Non una di meno voleva dare peso, con quella vernice rosa, alla sofferenza di quella lontana bambina colonizzata dell’Africa orientale e con lei a tutte le bambine che soffrono di abusi sessuali più o meno legalizzati nel mondo. Sarebbe bello che qualcuno, che sia uno street artist o un comune, dedicasse una statua, un disegno, un ricordo a quella bambina lontana. Perché hanno ragione Caleo, Pinto, Fiorletta, Giardini: “Una didascalia non basta”.
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Penso anch’io che in luogo di impiegare la nostra energia a cancellare traccia del passato e che, come dice la parola stessa, se n’è andato, mi concentrerei sul presente e sul futuro.
La poca tolleranza nei confronti di chi è diverso da noi viene espressa continuamente, anche nel quotidiano, e non solo verso chi ha un colore di pelle diverso.
Impegniamoci, dunque, a far sì che ciò che verrà sia più luminoso di quel che è stato, ognuno nel suo piccolo, senza bisogno forzatamente che venga organizzato un evento con migliaia di persone per ogni singola azione.
Diversi anni fa passeggiavo con un conoscente di razza Quechua nella piazza principale di Huaraz, in Perù e mentre mi diceva di quanto la sua gente temesse i Salesiani (per intenderci quelli che gestiscono certi rifugi nella Cordillera Blanca e che hanno fondato una specie di scuola di alpinismo per farsi le vacanze a scrocco gonfiandosi il petto spacciandosi per benefattori, e finisco qui che è meglio), mi fece notare le due statue che troneggiavano dinanzi a noi: una di Gesucristo (con una testa enormemente sproporzionata ) e una di un certo Cortez.
Il primo portava un credo religioso imposto dall’alto e totalmente estraneo alle divinità Quechua, il secondo, nientemeno, fu quello che con il suo esercito arrivò lì per sterminarli. E me lo diceva con serena rassegnazione, come a dire che oggi il problema è più di chi si impone, perché incapace di tollerare l’altro, al quale però non potrà mai prendere l’anima .
Io lascerei stare tutto com’è, tanto non è che i mali del passato cambiano se tiri giù le statue. E poi quali statue si’ e quali no? Se si inizia, alla fine le si distruggono tutte, perché colpe le hanno commessi tutti. Per esempio: a Parigi proprio davanti a Notre Dame c’è una statua di Carlo Magno, detto appunto “magno” per la sua importanza storica. Eppure sotto il suo potere e con il suo volere furono eseguite delle immense carneficine, anche di popolazione inerme, specie dei Sassoni, cioè di popoli della Germania e dell’Est Europa. Secondo i parametri odierni son cose da far accapponare la pelle, ma se buttiamo giù anche quella statua, allora facciamo che radere al suolo tutto il pianeta. Ascoltate un vegliardo come me, l’obiettivo non è sindacare sul passato, ma evitare i guai del futuro. Le statue, i monumenti, i palazzi, l’intestazione delle vie…lasciamole come sono.
Sono d’accordo sul contestualizzare e proprio per questo una frase come:
“In generale io trovo stupido abbattere statue o modificare intestazioni di vie solo perché ci sono delle criticità del passato.”
non è accettabile, perché dipende da che statue e da che intestazioni si parla.
Voglio dire una statua di Nerone del I secolo non è una statua di Hitler del ’36, ma non lo è nemmeno la statua di Montanelli di 15 anni fa…
Detto ciò non credo che ci possa essere una regola onnicomprensiva.
Di sicuro però c’è una notevole pressione ideologica e comunicativa: non mi risulta che nessuno da noi si sia stracciato le vesti per le statue di Lenin, però è pieno di gente che dice che la storia non si può cancellare per quelle di qualche razzista bianco…
In generale io trovo stupido abbattere statue o modificare intestazioni di vie solo perché ci sono delle criticità del passato. Se iniziamo, non finiremmo più: per esempio dovremmo arrivare ad abolire tutti le vie/corsi/piazze intitolati agli Stati Uniti oppure all’Unione Sovietica, perché i primi hanno vissuto una fase di schiavitù legalizzata e la seconda ha sterminato milioni di oppositori nei gulag… una cosa è la condanna storica dei crimini, un’altra è la modifica della struttura logistica. Se dovesse mai saltar fuori che Dante ha abusato di una fanciulla (o magari di un fanciullo…), che facciamo? bruciamo tutte le copie della Divina Commedia? Sono due piani diversi e vanno tenuti completamente distinti.
Ho detto che ci sono dei “crimini” di gravità tale per cui la condanna prescinde dall’epoca storica di competenza. L’elenco sarebbe infinito, fra di essi va compreso sicuramente la schiavitù, ma sarebbe impossibile fare un elenco oggettivo, così come è impossibile fare un elenco oggettivo antitetico, ovvero di certi episodi del passato che in realtà vanno contestualizzati. L’intelligenza dell’osservatore odierno sta proprio nel saper distinguere, fenomeno per fenomeno, in che contenitore inserirlo.
Hai sicuramente ragione Vilfredo.
D’altra parte ai tempi di Edward Colston la schiavitù era perfettamente legale e lui è stato una colonna della società e ha grandemente contribuito al benessere di Bristolm, dei sui abitanti e dell’Inghilterra tutta…
Come la mettiamo?
Ad eccezione dei crimini oggettivi (che non hanno tempo nella loro negatività), ogni altra cosa va contestualizzata nel periodo in cui è maturata. L’errore peggiore è giudicare le cose del passato con i parametri di oggi. Un esempio in tale direzione è la faccenda di Montanelli e della sua “moglie” dodicenne che, nella civiltà tribale di quel luogo e di quel momento storico, era una donna in età da marito: se non fosse finita in sposa a Montanelli, sarebbe andata in moglie a qualche altro uomo, ma non sarebbe cambiato molto per lei in quel preciso contesto storico (85 anni fa). E’ altrettanto palese che ci sono invece dei crimini che non hanno età, come i genocidi, e che vanno sempre condannati. Ma non è abbattendo le case “fasciste” di Roma che esprimiamo la nostra condanna verso le leggi razziali del 1938.
E’ un tema di non poco conto. Tempo fa lessi un libro di cui non ricordo il titolo che trattava, fra le altre cose, questo problema che si posero in Italia al termine della seconda guerra mondiale. In effetti, all’epoca, diversi nomi di vie e piazze vennero cambiati però un conto è cambiare un nome e un altro abbattere dei monumenti.
Sono sincero, ho goduto emotivamente nel vedere l’abbattimento di alcuni monumenti dopo l’uccisione di Floyd, sebbene in certi casi ritengo si sia esagerato, però è chiaro che razionalmente parlando queste manifestazioni possono essere comprese ma non sempre giustificate.
Faccio veramente fatica a trovare la quadra nella mia testa proprio perché si scontrano ragione sentimento. La ragione mi dice che la storia è quella lì, c’è poco da discutere. Non possiamo prendere dalla storia ciò che ci fa comodo, a questo già ci pensano, malamente, altri (come per esempio la recente riconversione di Santa Sofia a moschea). D’altro canto ci sono dei simboli che pesano come macigni sulle storie dei popoli.
Insomma non è facile.