Una lettera a casa
di Topher Donahue
(pubblicato su The American Alpine Journal, 2006)
23 febbraio 2006. Caro papà, qualche giorno fa, quando ho sparso un po’ delle tue ceneri alla base di Fitz Roy, non avevo idea che saremmo saliti per un altro tentativo. Ora siamo in cima alla scalata più “scandalosa” della mia vita. Se l’avessi saputo, ti avrei disperso da qui. Ma, per come è il vento in Patagonia, probabilmente saresti ancora per aria.
Sono circa le 16 e stiamo andando quasi ininterrottamente da 36 ore. Le nuvole stanno rincorrendosi sopra al Cerro Torre, e i venti stanno diventando più forti ogni minuto. È ora di uscire di qui, ma voglio soffermarmi un momento e condividere alcuni pensieri con te sulla salita che abbiamo appena completato.

Vorrei che tu e io avessimo provato a scalare il Fitz Roy un paio d’anni fa. Allora avrei potuto essere qui con te, piuttosto che con la tua memoria e alcune delle tue ceneri al vento. Dato che non potevo provarlo con te, ho scelto di venire qui con l’unico alpinista al mondo che conosce la nostra famiglia ed è anche in grado di scalare sulla parete est di questa incredibile vetta: Tommy Caldwell. All’inizio di questo giro, abbiamo avuto un paio di grandi avventure provando una famosa scalata al centro della parete che una cordata di tedeschi ha graziosamente decorato con un paio di centinaia di spit. Si chiama Royal Flush, ma con i suoi diedri bagnati fradici Toilet Flush sarebbe stato un nome altrettanto appropriato. È ironico che la cordata della prima salita l’abbia spittata per le masse, come una falesia sulle Alpi: perché poi gli dei del Torre hanno versato acqua e ghiaccio lungo quegli spit per circa 364 giorni all’anno.
Ci siamo stancati del fattore doccia, quindi quando è terminata l’ultima tempesta abbiamo deciso di dare un’occhiata a una via più asciutta e un po’ più lunga sulla stessa parete chiamata Linea di Eleganza. Fino ad oggi era stata scalata una sola volta da una cordata italo-argentina, che usò molte corde fisse e impiegò più stagioni per raggiungere la vetta. La loro visione per la linea era fantastica, non così le loro capacità di far pulizia. In quell’esperienza che vale un’intera vita alpinistica hanno purtroppo lasciato lì corde fisse e attrezzature sparse nella parte inferiore della salita, oltre a un paio di sacchi per il trasporto pieni di immondizia nel loro campo alto.
Per qualche motivo abbiamo pensato che sarebbe stato divertente lasciar giù tutte le nostre attrezzature da bivacco e salire senza sosta fino a che avessimo potuto. Abbiamo invitato Erik Roed a unirsi a noi. Alla base della parete ci fermammo a guardarla da una bella roccia in mezzo al ghiacciaio. Splendeva il sole ed era tutto bellissimo. Volevamo andare il più veloce possibile ma anche provare la salita tutta in arrampicata libera: così il primo liberava il tiro e i due secondi salivano sulle corde a jumar.

La roccia era eccellente e i tiri di corda andavano via rapidi. Tra pezzi di arrampicata incredibile in parete scoprivamo fessure e diedri. Cominciammo Tommy e io mentre Erik si sobbarcava il trasporto materiale. Erik è un buon alpinista, ma Tommy e io abbiamo molta più esperienza: nelle nostre prime salite ci eravamo fatti una buona esperienza nel reperire l’itinerario da seguire. Mentre i due alpinisti fermi in sosta scherzavano e ridevano, il leader risolveva i problemi dell’arrampicata libera a vista. Alla fine il sole si abbassò, l’arrampicata divenne molto più difficile e tutto cambiò. Era il mio turno, vedevo una sottile fessura strapiombante che incideva uno spigolo esposto. Ho iniziato in un camino per 13-14 metri, poi sono arrivato al punto. Da lì ho salito d’incastro una fessura leggermente bagnata, dandoci dentro su appigli sfuggenti, fino a quando ho perso le forze e sono volato nel vuoto dei 500 metri tra noi e il ghiacciaio.
Mentre mi calavano alla sosta, pensavo a quante possibilità avevo davvero di “chiudere” questo tiro senza perdere troppo tempo. Così decisi di lasciare la chance a Tommy. Dopo aver recuperato la corda, Tommy ha provato una prima volta. E’ il miglior scalatore di granito che io abbia mai visto: vederlo inventarsi riposi con agganci a doppio tallone, faticare in alcune “dülfer” bestiali e piazzare protezioni da posizioni assurde, mi ha fatto capire che avevo fatto bene a rinunciare ad andare da primo.
Poche ore dopo era buio, nessuno si divertiva molto ed ero di nuovo davanti nelle cinque ore più impegnative che ho trascorso legato in cordata. La mancanza di materiale adatto mi ha costretto ad allontanarmi dalla linea originale in artificiale, preferendo una serie di lastre che permettevano scarsa protezione e costringevano ad un’arrampicata lenta. Isolato nel mio piccolo mondo al chiarore della mia frontale, salivo pian piano. Al freddo di quella lunga sosta, i miei soci riuscivano anche a urlarmi belle parole di incoraggiamento, fino a che sono riuscito a fermarmi su un complicato ancoraggio di cinque nut collegati.
Dalla sosta sbirciavo nell’oscurità fino a quando la mia luce me lo permetteva. Del ghiaccio pendeva minaccioso da un ripido diedro in alto. Speravo di aggirarlo, ma già dopo una decina di metri è diventato evidente che avrei dovuto scalare anche sul ghiaccio. Mi sono fatto passare un attrezzo e ho iniziato a diventare creativo. Con una mano bianca di magnesite sfruttavo delle scaglie, con l’altra piantavo la picca nel ghiaccio sottile del diedro. Senza anni di esperienza di quell’arrampicata mista che sa di antico, mai avrei potuto scalare quella roba. Se non fossi cresciuto con la guida del tuo vedere la scalata, Papà, e del tuo modo di interpretare le cattive condizioni come opportunità di nuove sfide, avrei semplicemente dichiarato quel tiro “non in condizioni”. Invece, mi sono imbattuto in sottili strisce di ghiaccio di carta, cambiando l’attrezzo da una mano all’altra. Che a volte usavo per eliminare il ghiaccio rotto nella fessura per fare spazio a un incastro o a un friend. Ho continuato l’arrampicata libera, ma facevo una fatica insostenibile. Più volte ho pensato di fermarmi per indossare scarponi e ramponi, ma la roccia era troppo liscia; spesso riponevo l’attrezzo o lo lasciavo indietro per fare alcune mosse di insicuro strisciare sul granito.
Mentre io ero bello preso e accaldato, Erik e Tommy erano belli presi al freddo. Li stavo bombardando con piccoli pezzi di ghiaccio e potevo sentire i loro scarponi battere ritmicamente contro la roccia per scaldare le dita dei piedi. La leggera nausea da sforzo e l’enorme impegno mi stavano costringendo ad appendermi frequentemente al lacciolo da polso della piccozza per recuperare energia, e dato che ero ancora in arrampicata libera sapevo che i miei partner avrebbero voluto che mi prendessi tutto il tempo necessario. Alla fine raggiunsi roccia asciutta, una fessura sottile per mano e dita. Venti metri dopo, senza attrezzi, senza energia ma senza essermi mai attaccato a nulla se non alla roccia e al ghiaccio, ho fissato le corde e sono crollato sulla sosta.
Il tiro seguente, Tommy ha ripreso il comando, facendo al buio ma con efficacia una fessura verticale. Erik lo assicurava mentre io mi lasciai svenire appeso al mio imbrago. Papà, devo chiedermi, avresti mai pensato tutti quegli anni fa, quando tuo figlio di 5 anni prendeva la tua attrezzatura da arrampicata e giocava sul pavimento della nostra baita, che un giorno sarei stato a ottocento metri dal ghiacciaio, delirante dalla fatica, senza attrezzatura da bivacco, all’estremità meridionale delle Americhe? È stato più terrificante o divertente guardarmi mentre guadagnavo abbastanza esperienza di scalata per arrivare a questa posizione così spettacolare ma anche buffa? Vorrei potertelo chiedere.

Erik e io salimmo lentamente le corde fino all’ancoraggio fatto da Tommy. Erik si addormentò, appeso all’imbragatura e con la testa incastrata in una fessura offwidth: il chiarore della frontale faceva risaltare la fissità di quella strana figura. La nostra unica informazione sulla scalata era stata una foto con tracciata la via: l’avevo scaricata dal web. Però l’avevamo anche persa chissà come prima ancora di toccare la roccia, quindi ora stavamo andando a intuito e alla ricerca della roba lasciata nella prima salita. Sei o sette metri sopra alla sosta Tommy si trovò in un punto dove non c’era nulla. Si vedeva una serie di prese a destra, così Tommy traversò a corda sotto di noi per vedere se effettivamente ci fosse la prosecuzione promessa. Non c’era. Mentre cercava di tornare alla nostra sosta, i suoi piedi scivolarono e lui partì in pendolo: le sue corde sbatterono più volte addosso a noi, fino a che smise di oscillare.
La ritirata, o almeno un po’ di recupero, era obbligatoria. Ci spostammo su una cengia arrotondata per riposare per l’ultima ora fino all’alba. Per alcuni minuti ci siamo accasciati appesi agli imbraghi, appoggiandoci l’uno contro l’altro come tre ubriachi a una motocicletta. Purtroppo poco dopo ci siamo svegliati tremanti e abbiamo acceso il fornelletto per sciogliere un po’ di neve e salutare l’alba con una bevanda calda. Quando il sole ha indorato la parete e ci siamo voltati per recuperare le corde dall’ancoraggio su cui Tommy era volato, ci siamo messi a ridere: le corde erano appese proprio nel punto più ripido della parete. Alla luce del giorno mai avremmo potuto andare fuori via in quel modo.

Ci siamo diretti a un terreno molto più facile e abbiamo iniziato la corsa per la vetta. Le nuvole correvano e il vento stava aumentando. Eravamo molto lontani dalla cima e quindi dalla discesa sulla via franco-argentina dall’altra parte della montagna. Misuravamo il nostro progredire rispetto all’imponente pilastro nord: era più lento di quanto volessimo, ma abbiamo continuato ad andare avanti. Ovviamente, non appena l’inclinazione della parete diminuì, ecco la presenza di ghiaccio in tutte le fessure. Ho tirato un curioso doppio offwidth decorato di un bel ghiaccio blu prima di restituire il comando a Erik. Qualche tiro più tardi, Erik si è assicurato a un enorme blocco in vetta e Tommy ed io lo abbiamo raggiunto al massimo della felicità.
Ora, seduto in cima, mi chiedo cosa avresti pensato dello scalare il Fitz Roy. So che avresti adorato l’incertezza del tempo e la tentazione di provare contro ogni regola. Hai sempre desiderato che il mondo avesse una montagna così grande e così difficile che nessuno potesse raggiungerne la vetta. Gli alpinisti si limiterebbero a fare del loro meglio e ad andare il più lontano possibile senza alcuna certezza di arrivare effettivamente in cima. Arrampicare in Patagonia è un po’ così. Per riuscire nella prima salita libera di questa parete, abbiamo dovuto dimenticare la vetta e immergerci nell’azione. Abbiamo dovuto lasciarci alle spalle tutto ciò che non serviva direttamente alla nostra salita. Ci siamo dimenticati del successo e così facendo lo abbiamo ottenuto.
Ma non ne siamo ancora fuori. Ci è toccato vedere una terza alba prima di raggiungere le nostre tende e i comfort del campo base. Vorrei poter condividere questa magnifica montagna con te, e immagino in qualche modo di averlo fatto. Ti sono grato per tutte le cime salite assieme, e sicuramente senza di te non sarei mai stato qui.
Tuo figlio, Topher
Sintesi
Area: Fitz Roy, Patagonia
Salita: prima salita in libera e in stile alpino in 50 ore della parete est del Fitz Roy, con la prima ripetizione di Linea di Eleganza (1250 m, 33 lunghezze, VI 5.12+ M8, Horacio Codo, Lua Fava ed Elio Orlandi, con Fabio Giacomelli, 2004, in sette giorni dopo vari tentativi); Tommy Caldwell, Topher Donahue ed Erik Roed, 22-24 febbraio 2006. Tentativi in libera su Royal Flush (ED+ 5.12b A1, Albert-Arnold-Gerschel-Richter, 1995) fino al 23° tiro, Tommy Caldwell e Topher Donahue; Caldwell ha fatto il tiro chiave (il 19°) in libera: “probabilmente intorno al 5.12c se asciutto, ma dal momento che non c’era un pollice di roccia asciutta sul campo mi è sembrato più simile a un 5.13”.

Una nota sull’autore
Topher Donahue, 34 anni, vive a Nederland, in Colorado, e lavora come scrittore e fotografo. Ha imparato ad arrampicare da bambino nel vicino Parco Nazionale delle Montagne Rocciose, che considera il miglior campo di allenamento in Nord America per l’arrampicata su roccia di alto livello in regioni di tipo alpino. Suo padre, Mike Donahue, era il proprietario per lungo tempo della Colorado Mountain School, il servizio guida del parco. Mike è morto il 16 novembre 2005, all’età di 59 anni.
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Bel racconto e superbo stile di scalata.
La bellezza..di averlo Letto ” ( Ogni parola dice tutto..! )..Grazie….
Ero alla Chocolateria di Chaltén in stampelle post incidente quando li ho visti arrivare, forse c’era anche Marcello Cominetti… o confondo gli anni. Caldwell aveva superato i suoi limiti fisici… se ne ha; Rumors dicevano che sul ghiacciaio al rientro dalla parete si trascinava a quattro zampe. In sostanza la classica spremitura di un giovane novizio alla sua prima Patagonia… ma quello che avevano fatto era l’inizio di una nuova era di free, fast and light su quelle montagne.
“Per qualche motivo abbiamo pensato che sarebbe stato divertente lasciar giù tutte le nostre attrezzature da bivacco e salire senza sosta fino a che avessimo potuto.”
“La mancanza di materiale adatto mi ha costretto ad allontanarmi dalla linea originale in artificiale, preferendo una serie di lastre che permettevano scarsa protezione e arrampicata lenta.”
Puro stile anglosassone, nello scalare e nello scriverne.
Cosa dire se non citare l’immortale definizione: “i xé superiori”!
Un bel racconto che dice già… tutto.