La morte di Anna Gutu e Gina Marie Rzucidlo sullo Shisha Pangma racconta molto delle conseguenze della progressiva commercializzazione e spettacolarizzazione dell’alpinismo himalayano.
Una rivalità finita male
a cura della Redazione di ilpost.it
(pubblicato su ilpost.it il 2 luglio 2024)
A giugno 2024 è stato trasportato in Italia il corpo di Anna Gutu, un’alpinista con cittadinanza statunitense morta in Tibet nell’autunno del 2023 mentre stava scalando lo Shisha Pangma, la quattordicesima montagna più alta della Terra. Gutu, che aveva parte della famiglia in Italia, era stata travolta da una valanga mentre cercava di diventare la prima donna statunitense a scalare tutti gli “ottomila”, cioè le 14 montagne che superano gli 8000 metri di altitudine. Era morta poco prima di Gina Marie Rzucidlo, un’altra donna statunitense con cui era in competizione per raggiungere il primato. La loro morte – con quella dei loro accompagnatori Mingmar Sherpa e Tenjen Sherpa – a poche centinaia di metri dalla vetta dello Shisha Pangma – è stata descritta come esemplare per raccontare la progressiva commercializzazione e spettacolarizzazione del turismo d’alta quota nell’Himalaya e di altre imprese alpinistiche.
Negli ultimi trent’anni alcune delle cime più famose al mondo, come l’Everest o l’Annapurna I, sono diventate più accessibili grazie ad alcune società private che offrono pacchetti turistici anche per alpinisti poco esperti. Provvedono a numerosi servizi per semplificare le ascese, dai trasporti in elicottero per raggiungere più velocemente i campi base, da dove partono poi le escursioni, alle bombole di ossigeno in grandi quantità per compensare l’aria rarefatta a quelle altitudini. Praticamente chiunque con una discreta preparazione alle scalate può quindi ambire a salire su un Ottomila, a patto che sia disposto a spendere qualche decina di migliaia di dollari.
Il risultato più evidente, e spesso citato, di questa forte commercializzazione è il ricorrente fenomeno del sovraffollamento e delle code per raggiungere la cima dell’Everest, con tutti i rischi che ne conseguono e le morti che vengono registrate in alcune stagioni. Una conseguenza meno evidente è il crescente numero di persone che tenta di battere qualche primato, cercando di ridurre il più possibile i tempi di un’ascesa, di fare più cime in un’unica stagione o di salire su tutte le 14 montagne che superano gli 8000 metri, come nel caso di Gutu e Rzucidlo.
Anna Gutu era nata all’inizio degli anni Novanta nell’attuale Moldavia (all’epoca il paese era nel processo di indipendenza dall’Unione Sovietica, che l’aveva assegnata all’Ucraina) e si era poi trasferita negli Stati Uniti quando aveva vent’anni. Non era una ragazza particolarmente sportiva fino a quando iniziò ad appassionarsi alle imprese dell’alpinista nepalese Nirmal Purja, diventato famoso nel 2019 per essere riuscito a scalare in sei mesi e sei giorni i 14 Ottomila. La sua storia, poi raccontata nel documentario Netflix 14 vette: scalate ai limiti del possibile, e spesso presa come esempio negativo della spettacolarizzazione degli aspetti più competitivi e muscolari dell’alpinismo himalayano, aveva ispirato molti dilettanti e negli anni della pandemia aveva spinto Gutu a provare a raggiungere la cima dell’Everest.
Nel 2021 Gutu si mise in contatto con Elite Exped, una società che offre assistenza e servizi per le scalate fondata, tra gli altri, proprio da Purja, e acquistò il pacchetto più economico da 3mila dollari per raggiungere il Campo Base dell’Everest e fare pratica. Nell’anno seguente tentò almeno una grande cima al mese, scalando in breve tempo il Manaslu e l’Annapurna I, due dei più noti Ottomila del Nepal centrale. Scalava appoggiandosi sempre ad alcune delle più grandi e costose aziende private per le esplorazioni alpine, suscitando qualche perplessità tra i professionisti dell’alpinismo. Gutu condivideva le proprie esperienze su Instagram tramite fotografie e video che talvolta ricordavano il classico stile da influencer, molto diffuso su quel social network.
La rivista Outside ha raccontato in un lungo e dettagliato profilo delle due scalatrici che anche Gina Rzucidlo si era appassionata alle montagne relativamente tardi. Dopo gli studi si era trasferita da Auburn nel Massachusetts, dove era nata nel 1978, a New York per lavorare come hostess per alcune compagnie aeree e come estetista; con i primi guadagni aveva iniziato a viaggiare e a fare qualche spedizione ad alta quota. Nel 2018 aveva raggiunto la cima dell’Everest, poi aveva scalato il Denali in Alaska, la montagna più alta del Nord America, e aveva proseguito fino a completare a 41 anni il giro delle “Seven Summits”, per convenzione le montagne più alte di ciascun continente.
Nel 2021 Rzucidlo aveva scalato l’Annapurna I, il suo secondo Ottomila, dicendo di voler provare a scalare le 12 vette sopra gli 8000 metri rimanenti. Tra settembre 2021 e luglio 2022 salì cinque cime tra Nepal e Pakistan arrivando a metà dell’impresa. «Sarò la prima e sola statunitense a farle tutte e la seconda persona statunitense di sempre», scrisse in un messaggio alla propria famiglia alla fine del 2022. A differenza di Gutu, Rzucidlo era poco incline a condividere sui social network le proprie scalate ed era critica nei confronti di quelli che riteneva essere gli «influencer degli Ottomila».
I nomi delle quattordici vette più alte del mondo evocano in alcuni casi storie leggendarie, in altri suonano come esotici e sconosciuti a chi non è appassionato di montagna: Everest, K2, Kangchenjunga, Lhotse, Makalu, Cho Oyu, Dhaulagiri I, Manaslu, Nanga Parbat, Annapurna I, Gasherbrum I, Broad Peak, Gasherbrum II e Sisha Pangma. All’inizio dell’autunno del 2023 sia Gutu sia Rzucidlo le avevano scalate tutte tranne l’ultima: un’impresa comunque difficile e pericolosa, soprattutto nel caso del K2, del Makalu, del Manaslu, salite tecnicamente molto impegnative, o dell’Annapurna e del Nanga Parbat, tra le cime himalayane sulle quali muoiono più alpinisti ogni anno.
Le due alpiniste non avevano sponsor e ancora oggi non è chiaro come avessero fatto a permettersi le svariate decine di migliaia di dollari richieste dalle società che offrono servizi, supporto logistico e assistenza per raggiungere ogni vetta.
Si erano conosciute per la prima volta pochi mesi prima, nel maggio del 2023, mentre erano entrambe al Campo Base dell’Everest per effettuare alcune scalate. Il loro rapporto era cordiale, ma si era velocemente deteriorato quando era diventato evidente che una delle due avrebbe raggiunto il primato delle 14 vette prima dell’altra. A luglio, quando si erano nuovamente incrociate al Campo Base del Gasherbrum II, Rzucidlo aveva commentato in alcuni messaggi la presenza di Gutu: «È solo la classica scalatrice di Instagram. Non capisco perché ‘sta gente si metta a scalare e provi a fare di corsa tutte queste montagne».
Il primo ottobre 2023 Rzucidlo aveva scalato il Cho Oyu e sulla via del ritorno aveva trovato Gutu, intenta a scalare la stessa montagna: era per entrambe la tredicesima. Avendo un minimo di vantaggio, Rzucidlo fece forti pressioni nei confronti di diversi responsabili delle spedizioni private per raggiungere il prima possibile il Campo Base e tentare la scalata dello Shisha Pangma in Tibet. Ottenne che le fosse mandato in aiuto Tenjen Sherpa, uno sherpa di esperienza che aveva aiutato l’alpinista norvegese Kristin Harila a raggiungere tutte le 14 cime degli Ottomila in appena 92 giorni. Rzucidlo pagò un anticipo di 30mila dollari.
Il 4 ottobre Rzucidlo raggiunse il Campo Base insieme ad altri alpinisti che stavano preparando l’ascesa allo Shisha Pangma dal versante nord. Tra gli Ottomila, lo Shisha Pangma è considerato relativamente semplice da scalare, ma i rapidi cambiamenti della temperatura lo rendono insidioso per via del rischio valanghe. Il giorno seguente Rzucidlo avrebbe voluto raggiungere il Campo II, ma a causa di qualche imprevisto le fu consigliato di attendere al Campo I insieme ad altri alpinisti. Gutu, nel frattempo, aveva recuperato i giorni di distacco e si stava avvicinando.
Con tempi e percorsi diversi, entrambe le alpiniste arrivarono al Campo II il 6 ottobre 2023 e secondo gli altri alpinisti presenti la situazione era particolarmente tesa. Gutu era stremata. Era arrivata al campo con Mingmar Sherpa e altri compagni di salita con pochissime provviste e attrezzatura: al Campo Base c’era stato un problema logistico e non avevano avuto la possibilità di avere maggiori appoggi per il trasporto del materiale. Gutu e Rzucidlo non si parlavano, ma alcuni partecipanti avevano provato a fare da intermediari per convincerle a collaborare nell’ascesa, in modo da farla con maggiore calma e in sicurezza, condividendo il primato una volta arrivate sulla vetta. Ogni tentativo fu vano.
Stando alla ricostruzione di Outside, la più completa e approfondita finora pubblicata, alle 2.48 del mattino del 7 ottobre 2023 Gutu partì con il proprio gruppo per iniziare la scalata dello Shisha Pangma. Partire molto presto è quasi sempre la norma nel caso degli Ottomila, per arrivare in vetta con le prime luci del giorno e quando la temperatura è ancora relativamente bassa, riducendo il rischio di distacchi di parte dei ghiacciai e di valanghe. La salita era difficoltosa soprattutto per la presenza di molta neve fresca, che rallentava l’apertura della via per l’ascesa.
Venuta a conoscenza della partenza di Gutu, anche Rzucidlo si era messa in marcia seguendo una via lievemente diversa. Mentre Gutu aveva scelto di passare più a ridosso della cresta, attraversando una sella che porta poi alla vetta vera e propria, Rzucidlo aveva scelto di seguire una via più diretta, che l’avrebbe portata direttamente alla cima. Poco dopo le otto Gutu notò la presenza di Rzucidlo a circa 500 metri di distanza. Consapevole della minore distanza che la sua avversaria avrebbe dovuto coprire, Gutu accelerò il passo e insieme a Mingmar e a un altro alpinista si separò dal resto del proprio gruppo.

Alle 11.30 Gutu raggiunse infine la sella e iniziò la traversata per raggiungere la cima vera e propria. Non era un passaggio particolarmente difficile, ma il sole era già alto e la temperatura si era alzata, rendendo meno stabile il ghiacciaio e lo strato più superficiale di neve. Più a valle, il resto del gruppo di Gutu osservò una nuvola di ghiaccio e neve sollevarsi, con Gutu e Mingmar che sparivano al suo interno. Tra la sella e la cima si era staccata una valanga che aveva travolto e ucciso i due alpinisti.
Rzucidlo osservò la scena da lontano, ma non è chiaro se realizzò che Gutu fosse morta. Nonostante Tenjen Sherpa le avesse consigliato di interrompere l’ascesa (per quanto potesse farsi capire non parlando inglese), Rzucidlo insistette per proseguire, mentre altri gruppi di alpinisti più a valle avevano scelto di occuparsi dei soccorsi e di tornare indietro per il rischio di altre valanghe.
Mancava un centinaio di metri alla vetta quando una seconda valanga travolse Rzucidlo, Tenjen e Kami Rita, l’unico sopravvissuto dei tre. Gli altri alpinisti si diedero da fare per soccorrere le persone ferite e tornare verso il Campo II. I corpi di Rzucidlo e Tenjen erano probabilmente finiti in un crepaccio e sarebbe stato pericoloso cercarli, mentre i corpi di Gutu e Mingmar furono portati in un’area accessibile per un successivo recupero, effettuato solo mesi dopo e rendendo poi possibile il trasporto del corpo di Gutu in Italia alcune settimane fa.
Nelle ore e nei giorni dopo la morte di Gutu, Mingmar, Rzucidlo e Tenjen i partecipanti alle spedizioni si sarebbero a lungo interrogati su quanto accaduto sullo Shisha Pangma, mettendo in discussione il loro ruolo e chiedendosi se avessero dovuto fare qualcosa diversamente.
Alpinisti e osservatori concordano sul fatto che la causa delle quattro morti sia riconducibile a un errore umano. I due gruppi impegnati nella scalata sottovalutarono i rischi posti dalle condizioni della neve e della montagna quella mattina, dando priorità alla possibilità di arrivare in cima prima degli altri, trascurando in questo modo la sicurezza. In particolare, Rzucidlo non avrebbe dovuto proseguire l’ascesa dopo che la valanga che aveva ucciso Gutu e Mingmar aveva dimostrato chiaramente le condizioni precarie sul versante in cui stava effettuando la scalata.
Gutu e Rzucidlo erano in competizione tra loro e avevano quindi una forte motivazione per raggiungere la cima, ma lo stesso non si può dire degli sherpa che le accompagnavano. Sia per Mingmar sia per Tenjen, scalare era un lavoro e il modo per sostenere le loro rispettive famiglie: avrebbero dovuto percepire diversamente il rischio, eppure non si rifiutarono di effettuare l’ascesa accorciando i tempi come richiesto dalle loro clienti.
Secondo diversi esperti consultati da Outside, il comportamento di Mingmar e Tenjen fu condizionato soprattutto da motivi culturali. Gli sherpa sono abituati a fornire assistenza ai loro clienti in modo spesso incondizionato, hanno un forte rispetto per le regole concordate prima dell’inizio delle spedizioni e sentono di dovere assistere in ogni circostanza i clienti. Stando ad alcune testimonianze, Tenjen propose una sola volta a Rzucidlo di tornare indietro dopo la prima valanga, ma rispettò la sua scelta di continuare e di raggiungere la vetta completando quello che per lei era l’ultimo degli Ottomila.

Le morti sullo Shisha Pangma hanno portato a nuove riflessioni sui cambiamenti avvenuti in pochi anni nell’alpinismo ad alta quota nell’Himalaya. Dopo le spedizioni di alpinisti esperti e professionisti, tra gli anni Novanta e i primi anni dopo il Duemila alcune aziende private iniziarono a offrire la possibilità di scalare l’Everest e altri Ottomila anche ai semplici appassionati di alpinismo, posto avessero una discreta preparazione atletica. Erano per lo più aziende occidentali che facevano poi affidamento su sherpa locali per la logistica, la gestione dei campi e l’assistenza durante le ascese. I prezzi erano spesso alti e venivano richieste cifre intorno ai 130mila dollari dei giorni nostri.
Intorno al 2010 le cose iniziarono a cambiare con l’affermarsi sul mercato di alcune agenzie private soprattutto in Nepal, che offrivano direttamente i propri servizi senza passare da società occidentali. La rimozione degli intermediari permetteva a queste nuove aziende di offrire spedizioni private a prezzi più bassi, spesso nell’ordine di poche decine di migliaia di dollari, rendendo quindi possibile l’accesso all’Himalaya a molte più persone.
Era un’evoluzione naturale e inevitabile, secondo alcuni corretta e auspicabile, visto che in precedenza agenzie locali e sherpa venivano spesso sfruttati ottenendo quote marginali dei ricavi ottenuti dalle società occidentali. Al tempo stesso, questa sorta di “democratizzazione” degli Ottomila favorì in breve tempo l’arrivo di persone più interessate agli aspetti turistici che a quelli dell’alpinismo propriamente detto. Nella breve stagione tra fine primavera ed estate in cui si può scalare l’Everest oggi tentano l’ascesa centinaia di persone, rispetto alle poche decine che lo facevano un tempo, con conseguenze per l’ambiente e per la sicurezza stessa dei partecipanti. Qualcosa di analogo avviene per alcune delle altre cime sopra gli 8000 metri, talvolta sottovalutate per la loro pericolosità.
La storia dell’alpinismo è costellata di grandi rivalità e sfide per raggiungere alcune delle vette più alte e difficili al mondo, ma il modo in cui si è sviluppata quella tra Gutu e Rzucidlo è particolare ed è stata commentata come una novità. Dopo essersi avvicinate all’alpinismo, Gutu e Rzucidlo scoprirono in fretta che c’era una via costosa – ma tutto sommato praticabile – per compiere quella che un tempo era letteralmente “l’impresa” nel panorama delle esplorazioni montane e la seguirono, con tutti i suoi rischi.
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“Chi va’ in montagna alla cazzo e’ un cretino”
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E il discorso si collega anche a tutto l’atletismo , il delirio di onnipotenza sui chiodi , e tutto il cazzodurismo del mondo che permea questo forum : l’obiettivo della gita che si progetta e’ andare in cima e tornare a casa , non passare alla storia.
@2 C’è sempre un tarlo di fondo in molto commenti: che le osservazioni “di qualità” siano solo quelle che “piacciono” alla platea, che suscitano una ola da stadio, mentre quelle, altrettanto lucide e spietate, ma si segno opposto danno fastidio e vengono rifiutate per default, derubricandole a espressioni di stupidità. Da sempre esprimo pubblicamente la mia posizione ideologica (anche 40 anni fa dicevo già le stesse cose) e non mi nascondo certo né per piaggeria né per ipocrisia democristiana. “Chi va in montagna alla cazzo è un cretina, a prescindere dalle sue capacità tecniche”, che poi la faccia nella gitetta con gli sci (magari in giornate di pericolo 5) o sulla Nord delle Jorasses o sugli Ottomila, non cambia nulla.
Mi riferisco al commento 4.
Mi auguro davvero di leggere sul blog la traduzione dell’articolo su Lama
In questo disastro annunciato un pensiero per gli sherpa, che consapevoli di rischiare la vita obbediscono come fantaccini agli ordini dei superiori e si sacrificano per l’imbecillità della guerra
Di quelli di cui si parla al 9
Expo, di quali riconoscimenti parli, da essere così eccitanti per gli alpinisti celebri?
Molti celebri alpinisti di questi riconoscimenti si facevano un segone a due mani , e sono quelli che mi piace ricordare quando escono queste stronzate degne dei calciatori !
Cassin e Ratti quando fecero la prima della Ovest di Lavaredo driblarono nascosti dalla nebbia per non essere visti dai 2 tedeschi che erano accampati li sotto la parete, beffandoli. Quindi la corsa ai primati è vecchia come il cucco, alla faccia dell’interiorità.
Expo. Miseria e Nobiltà. Per quale motivo l’alpinismo dovrebbe essere esente dal peccato originale che ci accompagna da sempre? Non ne è esente neppure il mondo delle arti più sublimi e del pensiero più acuto e profondo, perché l’Alpinismo, in fondo un’attività ricreativa di recente origine e di incerto futuro dovrebbe fare eccezione? Siamo uomini e caporali, con mescolanze diverse.
Ho capito bene che queste due donne sono morte non tanto per salire su una bella montagna ,ma per arrivare in cima una prima dell’altra allo scopo di ricevere un superficialissimo attestato con scritto: sei la quindicesima femmina a scalare i 14 ottomila ?.
Al pari di due che si graffiano perche’ hanno visto lo stesso vestito in saldo e ce n’e’ solo uno per il protagonismo di due ??
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E sti gran cazzi dell’interiorita’ e della dimensione interiore dell’alpinismo !
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Quasi come Casarotto ed Hermann Buhl !
Del resto l’alpinismo è una metafora della vita, con le sue contraddizioni, le sue gioie e i suoi dolori. Perchè prima di essere alpinisti o arrampicatori, anche fortissimi, siamo uomini/donne con tutto quello che ne consegue tra forza e debolezza, tra scelte giuste e sbagliate, tra egoismi e generosità e manie di protagonismo.
No l’interesse non era e non è per i morti ma per i vivi. Le storie di montagna, dei vivi e dei morti fanno emergere il forte intreccio tra Vita e Montagna. Anche quella specie di autoanalisi in pubblico rappresentata dall’Autobiografia di Gogna lo mette bene in evidenza. Ogni tanto io mi arrabbio per quelle che a volte a me paiono indiscrezioni su persone che non ci sono più ma è molto interessante, perché non fa sconti, neppure a se stesso, e non cerca di “vendere” un’immagine edulcorata di se’. Dietro l’andare per monti ci siamo noi, il nostro mondo interno con le sue dinamiche, conscie e inconscie, e il nostro sistema di relazioni, di coppia, di famiglia, di gruppo, di comunità. L’influenza di questi mondi ha un lato solare e uno più oscuro. Può creare gioia, amore, motivazione, serenità, forza d’animo ,,,ma può anche far emergere lati meno luminosi: competizione, invidia, tendenze autodistruttive, narcisismi…Molte storie di cui è piena la storia dell’alpinismo che finiscono male e non solo per incidenti, ma anche per deragliamenti personali, hanno spesso qui la loro radice. Vedi ad esempio le dinamiche di gruppo che stanno alla base di molti errori. Questa è la vera sfida in sede formativa. Possiamo limitarci a trasmettere tecniche e abilità psico-motorie e per il resto ognuno si aggiusta come può o possiamo lavorare almeno un po’ sullo sviluppo della consapevolezza e poi ognuno farà le sue scelte e seguira’ il suo destino? Consapevolezza, non trasmissione di modelli ideali validi per tutti che non esistono. È un tema che fu affrontato in passato con iniziative forse premature per i tempi e che oggi alcuni professionisti della montagna hanno ripreso. Del resto non è una novità. In sede professionale è ormai prassi abbastanza diffusa in certe professioni rischiose, in senso sia fisico che emotivo, introdurre elementi di consapevolezza e di aitoriflessione. Può ridurre i “Signori delle cime” o gli eccessi di “tracotanza umana” o di entusiamo che possono combinare guai a se e agli altri? Non lo sappiamo ma allo stato attuale delle nostre conoscenze sulla mente umana è forse una delle cose che possiamo fare in sede di prevenzione primaria: portare l’Io la’ dove domina l’ES, si diceva una volta. Certo vedere su FB le foto sorridenti dopo il Cervino dei due alpinisti del Bianco, l’ingegnere e la dottoressa, questa mattina mi ha stretto il cuore “ricondizionato” …mamma mia che pena per un futuro immagino di amore svanito la’ sotto.
Pasini, secondo me il Post è oggi il miglior sito d’informazione in Italiano. Questo articolo si basa comunque su un lavoro d’indagine fatto da Outside. Faccio quindi un paio di collegamenti: primo, a un articolo pubblicato nel 2021 da up-climbing (e in seguito riproposto qui), a firma di Emilio Previtali e intitolato “Alpinismo e post-verità”, dove era fatto riferimento a una serie di tragici incidenti, tra i quali quello accaduto in Canada a Lama, Auer e Roskelley. Da quest’ultimo fatto parte invece una “riflessione pacata e laica sul lato oscuro” pubblicata, ancora e ottimamente, dalla rivista americana Outside: per mio conto ne ho fatto la traduzione, qualche tempo fa, e la metto volentieri a disposizione del blog (a questo proposito scriverò a info@gognablog). Il link all’articolo è questo: https://www.outsideonline.com/outdoor-adventure/climbing/david-lama-jess-roskelley-hansjorg-auer-deaths-howse-peak/
PS: nella sezione commenti sul Post c’è un utente che chiede consigli su siti d’alpinismo, e uno gli risponde: “con alti e bassi il Gognablog è un riferimento e una lettura piacevole”, al che uno aggiunge “sul Gognablog leggere i commenti è spesso la cosa più divertente”. Il Circo che va in scena da questo sotto-palco, evidentemente, piace…
Dunque a ragione l’edicolante di Capezzano Pianore, quando dice che i giornali si vendono quando muore qualcuno.
Un bel pezzo di giornalismo di stile anglosassone: freddo, lucido, fattuale, senza toni giudicanti, melodrammatici e di colore. Come dice giustamente Cominetti si commenta da solo. Più difficile da usare come stimolo di partenza per baruffe di strada, prediche, anatemi anche se tutto è sempre possibile. Magari fosse sempre così. In ogni caso è molto interessante questa riflessione che si è aperta negli ultimi giorni sulle dinamiche umane che stanno dietro il tema del rischio in montagna. Dopo il dovuto silenzio sul recente incidente del Bianco, anche il tema delle dinamiche di coppia in montagna sarebbe da affrontare con lo stesso stile, visto che l’andare in coppia è una tendenza che mi pare oggi più diffusa di quanto avvenisse in passato, anche se non è certo una novità. Questa riflessione pacata e “laica” sul lato oscuro è uno dei filoni migliori secondo me del blog. Ricordo che iniziai a frequentarlo proprio per le lucide analisi qualche anno fa della disgrazia accaduta ad un gruppo di scialpinisti italiani con guida sulla traversata Zermat/Chamonix. Speriamo che l’ipotesi che a stimolo di qualità corrispondano reazioni adeguate sia valida, almeno sui grandi numeri. Da verificare.
Direi che per non cadere nei soliti deliri da “te l’avevo detto” , l’articolo si commenta da solo.
Ma non sarà abbastanza.
Cinque, quattro, tre, due….