Note evolutive o critica dello scientismo.
Una sola fioritura
di Lorenzo Merlo
(ekarrrt – 31 marzo 2024)
Il mostro ci ha generati. Nella ruota dell’eternità ci è toccato il genitore illuminista. Di per sé buono, nel senso che rilevava le manchevolezze della storia che l’aveva preceduto, proponeva una nuova modalità di conoscenza, rivelava come realizzarla. Ma la sua purezza d’intenti non ha avuto successo. I suoi emissari hanno fornito pessimi esempi educativi. Ne risulta che tutti noi di quella bontà illuminante ne abbiamo trattenuto un’ombra semplificata, bigotta, che non permette nemmeno più di risalire al messaggio originale.
Così, lo scientismo, ovvero la dogmatica concezione della conoscenza limitata alla scienza analitico-materialista, circola a pieno regime nelle nostre vene e nei nostri pensieri. Con questi, non abbiamo incertezze nello squalificare ciò che si muove e vive su ordini non cartesiani, in dinamiche non aristoteliche, su principi non meccanicistici. Ne è campione il femminismo, insetto nella tela del ragno, impedito a sentire la madre e il potere del femminino. Ma l’elenco oggi a disposizione, per riconoscere la tangente con la quale abbiamo definitivamente lasciato la verità della terra e della vita, è così lungo da riguardare ogni aspetto della nostra società.
La metastasi scientista è tale che dall’esperto al profano – categorie che lo scientista scambia per verità definitiva – è ordinario, e perfino garantito. constatare nei loro pensieri, e nelle loro azioni, una concezione dell’uomo, dell’altro, del prossimo, alla stregua di entità identiche, ovvero che reagiscono uniformemente agli stimoli, che intendono uniformemente. Da qui l’obbrobrio della legge uguale per tutti, della sacralizzazione della meritocrazia, della venerazione della farmacopea, incoronazione della tecnologia.
La logica, centro nevralgico della dialettica scientista, è quell’ottima prassi per organizzare le cose, ma disastrosa per conoscere gli uomini. Essa crea problemi che non può maneggiare perché l’uomo è infinito e la logica uno sputacchio al suo confronto. Essa impone una conoscenza cognitiva, limitata all’intelletto. Quanto ne esula, semplicemente non conta, quando non esiste del tutto. Nulla di quanto la logica non può contenere, circoscrivere e descrivere può essere riconosciuto né divenire verità. Non le bastano i suoi paradossi per riconoscere l’offesa che impone quando si erge a sola arma di conoscenza. Non le bastano i suoi dilemmi per riconsiderare il suo delirio di onnipotenza. E neppure le bastano le sue domande esistenziali che tutti si pongono e poi tralascia perché non ne viene a capo, per riconoscere che è il porre la domanda a generare il mistero. Incatenati al dogma che la logica contenga e produca il vero, si possono solo capire le cose. Essa non induce in noi l’idea della ri-creazione, che da sola basterebbe a riconoscere l’effimero del mondo e, contemporaneamente, ciò che è universale.
Basterebbe, per andare oltre la logica, per vederne i limiti, chiedere in che termini un’affermazione è vera e quando diviene falsa. Ma l’ascolto non è educazione prevista nelle aule del materialismo. Ad esso è preferito il giudizio, le categorie, la classificazione, il buon senso, la maggioranza, la democrazia. Tutte chiusure che interrompono o impediscono la conoscenza, muri tombali in cui ci rinchiudiamo a coltivare il nostro giardinetto. Fate voi.
Così ci tocca la sorte di leggere che “sarebbe opportuno evitare di confondere realtà con percezione della realtà. Altrimenti si rischia di fare come quei due che osservano lo stesso treno che transita davanti alla banchina di una stazione: il primo, che sta sul treno, è pronto a giurare che il treno è assolutamente fermo e la stazione si muove, mentre il secondo, sul marciapiede, afferma esattamente il contrario. E potrebbero convintamente litigare all’infinito”.
Ma come può esistere una realtà senza la nostra presenza, senza la nostra definizione e percezione di essa? In che termini è la realtà, che percezione non é? E di che realtà parliamo senza la percezione di essa? Cioè si vuole che la nostra descrizione sia universale? Un palo in faccia fa male a tutti? No, non è in questo la presunta universalità della realtà. È l’interpretazione del palo in faccia che crea la realtà. Chi se ne assume la responsabilità, la descriverà in un modo estraneo a quello tracciato dalla descrizione di chi la responsabilità la dà ad altro, fuori da sé. E chi cammina sulle braci, potrà dire che il fuoco brucia sempre?
Se non basta ancora a farci sentire ridicoli, possiamo sempre peggiorare il livello. Basta svegliarsi di colpo e dire “Ho avuto un incubo”, al che, quello sul treno dice “Ma non è realtà è un incubo”. Ah, le vostre categorie, quelle sì scambiate per una realtà che non esiste, se non in chi la crea.
Ma c’è un livello più profondo nel quale lo scientismo ci ha fatto precipitare. Ci ha reso impossibile vedere che tutto è contiguo e relazionato. Una svista che implica l’autoreferenziale autorizzazione a spezzettare la realtà, nella convinzione di poterla conoscere, a considerarla un oggetto di fronte a noi, nel quale ci muoveremmo, a concepire e giudicare l’altro secondo la nostra morale, a credere che la conoscenza scenda in noi dai sussidiari, dai manuali, dai professori, che essa voli sulle ali della dialettica logico-razionale del linguaggio. Come se ci fosse un ordine perseguibile, e come se l’ordine – occulto a noi stessi – fosse di perseguirlo.
Viviamo letteralmente dentro un calderone culturale di miopia infernale, nel quale non sappiamo fare di meglio che seguitare ad imitare l’esempio del mostro che ci ha generati. Ovvero ad utilizzare qualunque espediente egoistico nella convinzione che ci permetta una buona vita. Eppure, se a causa della forza vitale la lotta per la sopravvivenza fisica non poteva essere elusa, quella successiva, per l’acquisizione dell’abbondanza, ci ha conquistato a mani basse, e ha esaltato in noi la dimensione più bieca. L’opulenza è un valore, e guai a chi ce lo tocca. Forse dobbiamo passare da tanto degrado per riappropriarci del suo opposto, quello della frugalità.
Zuccherino dopo zuccherino, ci siamo lasciati condurre da un capitano serpeggiante verso lidi lussureggianti in cui era facile distrarsi e dimenticare il significato dei vizi capitali. E a chi ce lo faceva presente, non potevamo che sorridere sarcasticamente, ormai ignari e così lontani dal messaggio che implicano, da ritenerci indenni dai rischi di sofferenza che essi annunciano. Roba buona per i bambini e le vecchiette.
Ecco dove ci ha portato il tappeto volante dello scientismo. Ci siamo divertiti a planare sul mondo e non abbiamo voluto vedere dove ci stava conducendo. Le cose, tuttavia, sono in movimento e mutamento, sicché, ora che anche la confusione, il nichilismo e la sfiducia circolano nei nostri pensieri e nelle nostre vene, al punto da pietrificarci nell’incredulità di ciò cui stiamo assistendo, del futuro in cui stiamo precipitando, del cambio di paradigma che ci stanno imponendo, a qualcuno di noi accade di avvertire e intravedere il canovaccio della grande messa in scena. Un palco dove abbiamo ballato tutti i balli e recitato tutti i ruoli scambiati per vita vera. Siamo uguali, girano in noi le parti, le maschere, le emozioni e i sentimenti. Quanto diciamo al prossimo è quanto toccherà a noi dalla bocca di un altro. Quanto vivremo noi è vissuto da tutti nei loro tempi e nei loro modi.
Quindi, chi si avvede che avevamo circoscritto il mondo al palco di un inconsapevole teatrino, esauriti in recite farsesche, mossi dai fili di valori falsi, in quanto autoreferenziali, inizia anche a riconoscere che in nome della cosiddetta scienza e della – sua – conoscenza, ci siamo così tanto allontanati dalla nostra origine, da crederci indipendenti e autonomi. Da farci pensare che eravamo i possessori di noi stessi e che i nostri figli fossero davvero nostri. Da farci credere che non ci serviva altro oltre a noi stessi. Da negarci la consapevolezza che siamo espressioni di una sola fioritura.
Così stiamo qui. Il sogno resta sogno. La serenità, la bellezza, la gratitudine, la miglior salute restano ai margini, optional occasionali, nonostante sia nel nostro potere creativo fargli prendere il posto del conflitto e della sofferenza.
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“Così ci tocca la sorte di leggere che […]”
Ancora?!? 🙂
Onorato dall’ulteriore citazione, ma devo constatarne la totale incomprensione (tanto capire non conta, giusto ?)
Parrebbe che la risposta al quesito filosofico “se un albero cade in una forestadove non c’è nessuno, fa rumore ?” per l’autore sia un deciso “no“.
E questo, unito ad affermazioni del tipo “l’uomo è infinito” e “creatore della realtà“, tange pericolosamente quell’antropocentrismo e autoreferenzialità da lui tanto esecrati (negli altri).
Dato che il treno non è arrivato in orario (benché trattasse di velocità: grandezza relazionale per eccellenza), proviamo con un esempio quantico.
Lo stato di un sistema fisico è descritto, per la meccanica quantistica, dalla sua funzione d’onda. Questa, in tale contesto, è ciò che si può definire come realtà, ed è, temo, proprio una descrizione universale. Nel senso che descrive (probabilisticamente) il sistema a prescindere dall’esistenza di un qualunque osservatore.
La percezione della realtà equivale a ciò che avviene sottoponendo il sistema a un processo di misura (cioè all’interazione con un osservatore), che provoca il c.d. collasso della f.o. a quanto misurato (leggi percepito) dall’osservatore.
Ma non è la misura a creare la realtà, né l’osservatore: il sistema, con le sue infinite probabilità esisteva (era reale) anche prima della misura, che è “solo” ciò che lo fa percepire all’osservatore.
E così per l’uomo sul treno: in realtà si muove (rispetto a quello a terra) a prescindere dal fatto che lo percepisca.
O, infine, direi semplicemente che affermare che “è l’interpretazione del palo in faccia che crea la realtà” equivale a confondere il terreno con la lettura della mappa che lo rappresenta.