Il Naso di Zmutt – 2

Metadiario – 17 – Il Naso di Zmutt – 2
(da Un Alpinismo di Ricerca, 1975)

Quando ci muoviamo, siamo un po’ meno anchilosati di ieri mattina, perché la posizione è stata migliore. La parete è rivolta a nord-nord-ovest e perciò come al solito non possiamo aspettarci il sole tanto presto. Il ventiquattresimo tiro di corda è il primo di una lunga serie di diagonali a destra; la serie di tetti che ci sovrasta è il prodotto di una stratificazione ecce­zionalmente prolungata ed evidente che sbarra l’uscita dalla pa­rete del Naso. A volte lo strapiombo è orizzontale e si proietta nel vuoto per circa 15 metri. Escluso che a sinistra si possa continuare (a parte l’eventuale uso del perforatore), l’unico buco della serratura è a destra, in diagonale, nel solco compreso tra i tetti e la parete liscia sottostante. Il solo vantaggio di tutto ciò è che la nostra via, nel caso riesca, procedendo in diagonale a destra punterebbe direttamente alla vetta e supererebbe per­tanto il Naso per la soluzione più logica ed elegante. Nessuna scappatoia dunque.

Si incomincia con una traversata di 10 metri su roccia fria­bile e con un successivo recupero verticale di altrettanti, termi­nando il tiro su un buon terrazzo. Le difficoltà forse non sono molto superiori a quelle di ieri, ma in compenso abbiamo meno fiducia in una continuata percorribilità: ci sembra infatti di in­travvedere alla nostra destra, sempre sotto i tetti principali, un convulso ammasso di placche strapiombanti di problematico su­peramento. Subito sopra a noi c’è un diedro liscio, ma fessurato sul fondo; dopo 12 metri di sesto grado e due pas­saggi di artificiale posso uscire a sinistra e con minore difficoltà raggiungere un’altra buona sosta. A questo punto c’è una placca con un caratteristico foro che battezziamo «la ciambella». Mi alzo di due metri e sistemo un buon chiodo; con una larga spaccata provo a passare sulla placca, ma non mi fido per qual­che minuto, poi azzardo il passaggio e mi trovo sulla roccia li­scia con le gambe che tremano. Rinuncio a raggiungere la ciam­bella e proseguo con altri due chiodi malsicuri verso sinistra. La placca mi riporta ora in direzione contraria. Tutto sommato questo è stato un passaggio davvero traditore, forse il più rischioso di tutta la via.

Il nostro allenamento è ottimale, sto salendo senza zaino eppure alla fine sono decisamente stanco. Qui Leo preferisce, dopo l’invio degli zaini, attaccarsi alle corde e con l’aiuto di un Heibler riesce a raggiungermi. Ci guardiamo in faccia e insie­me guardiamo i tetti. Leo può ancora andare fino al cuore degli strapiombi, ancora con una piccola traversata a sinistra e con una rampa obliqua a destra raggiunge un piccolo nevaio del qua­le non sospettavamo l’esistenza. Questo ci permette di salire ancora un poco, sempre a destra, fino a una spalla, a pochi metri dal tetto che qui sporge moltissimo. Oltre non si può: occorre traversare.

Il passo della “ciambella”, 16 luglio 1969

Con delicati saliscendi mi sposto a destra per circa 15 me­tri senza vedere niente al di là di una quinta: c’è una fes­sura e su di essa per trenta metri mi impegnerò al limite delle mie possibilità. Ormai siamo lanciati, ci sarà pure qualcosa per poter continuare oltre quel pulpito che si vede e poi questa fessura non dovrebbe essere difficile. Invece non posso mette­re chiodi, tutti gli appigli sono rovesci, mi sento gli strapiombi sopra. Dopo mezz’ora ne vengo a capo, raggiungendo il pulpi­to. Siamo ben oltre i quattromila metri e lo sforzo si fa sentire sempre di più. Oltre il pulpito segue un diedro che dopo quaranta metri in diagonale ci porta sotto placche strapiomban­ti. Siamo sfiniti. Quest’ultimo tratto ci ha dato per oggi il colpo di grazia. Sono le 16.30 e abbiamo salito otto lunghezze. Bivaccare qui è assurdo, ci sembra, sarebbe giusto proseguire.

Il lungo diedro verticale, 16 luglio 1969

Vorrei qui spiegare bene la situazione nella quale ci trovia­mo, proprio perché una simile struttura architettonica non mi è mai più capitata su nessun’altra salita. A venti metri da noi (a sinistra e alla stessa altezza) c’è l’orlo dei tetti e quin­di del Naso. Al di là c’è la parete nord, la via Bonatti che noi dobbiamo raggiungere. Fa un certo effetto vedere la sicurez­za così vicina, perfino più bassa di noi, e non poterla raggiunge­re. Dobbiamo proprio continuare a destra e cioè dove i tetti con­tinuano. Ma sotto questi vi sono le placche strapiombanti che ora ci bloccano, soprattutto psicologicamente.

Tardo pomeriggio del 16 luglio 1969. Alessandro Gogna interrompe la lunghezza a questo punto.

Leo Cerruti la riprende il giorno dopo, 17 luglio 1969

… e al di sopra riesce a superare lo spaventoso muro leggermente strapiombante

– Se dovessimo scendere, quante doppie dovremmo fare?
– E tu pensi di poterle fare, con tutto il diagonale che ci siamo sorbiti oggi?
– E cosa vorresti fare?
– Io voglio andare avanti.
– Ma certo, questo anch’io, ci mancherebbe altro. Dicevo solo nel caso…

Attacco ancora, provo la placca, pianto due chiodi. Sono quaranta metri di strapiombo senza una fessura continua. Mi sorprendo a osservare a sinistra l’orlo dei tetti.
– Ci vorrebbero le ali!
– Ma non si può proprio uscire di là?
– No, guarda, è bestiale.
– Ma Cristo, per venti metri!!

Alessandro Gogna continua

Riprovo la placca. Sull’ultimo chiodo mi sento indeciso e quindi vinto. Scendo da Leo.
– Dài, dài, riproveremo domattina – mi incoraggia.
– Ma domani staremo peggio di adesso, dopo aver bivac­cato su questi luridi scalini!

Ebbene su quei «luridi» scalini ci prepariamo a soggior­nare per molte ore. Un guanto cade silenzioso nell’abisso. La cena è uguale alle altre, ma riusciamo a prepararla solo tenendo il fornello sulle ginocchia. La notte è tutta un brivido e non ricordo molto; devo aver dormito, non so.

Al mattino siamo tutti pesti, ma non rinunciamo agli equi­librismi della colazione. Facciamo a tempo a far bollire l’ac­qua e subito dopo ci cade nel vuoto il diffusore del gas. Abban­doniamo il fornello e la bombola di riserva ormai inutili: saranno un’altra traccia del nostro passaggio.

Leo è in piena forma fisica e morale, non ha dubbi. Io in­vece sono pessimista e vedo cose molto nere.
– Vado io – dice.

Alessandro Gogna nella lunghezza ancora seguente, 17 luglio 1969. Si vede assai bene l’orlo del Naso, distante da noi una ventina di metri e irraggiungibile.

Alle otto attacca. È il trentaduesimo tiro, già fatto la se­ra precedente. Poi sale sui miei due chiodi e con pazienza con­tinua il lavoro; dopo molto tempo sento la sua voce.
– Sta attento.
– Cosa c’è?
– Ho messo un rurp verticale.

Automaticamente stringo le corde. Il rurp è un chiodino americano con forma e dimensioni che ricordano una lametta da barba! È usato quando non vi è più alcuna possibilità e si devono sfruttare le fessurine quasi inesistenti, le screpolature. Gli si può affidare il peso per pochi minuti, dopo è facile che fuoriesca.

I rumori di martello che sento non mi convincono.
– Sta attento.
– Cosa c’è ancora?
– Un altro rurp verticale.

Ultima lunghezza di corda difficile

Io mi sento gelare, questi numeri non si fanno neanche in palestra, di solito. Finalmente il confortante suono di un chio­do che «canta». Leo vi rimane sopra a riposarsi per un bel po’; è a sei, sette metri dalla fine della placca. Cosa ci sarà sopra? Alle 11 lo vedo scomparire: ho soltanto un metro di corda a disposizione.

– Alessandro ci siamo, ci siamo!!
– Cosaaaa?
– Ci siamo, si può continuare!
– Ma ti puoi fermare?
– Sì, c’è una lista.

Fortuna ha voluto che, dopo quaranta metri di parete li­scia e strapiombante, l’inizio della placca superiore fosse in­tagliato da una minuscola cengetta. A mia volta seguo, dopo l’invio degli zaini, schiodando il possibile. Al di sopra, il trentaquattresimo tiro è ancora in diagonale a destra, perché nel frattempo l’orlo dei tetti si è alzato di tanto quanto abbiamo fatto noi. Ma qui è più facile e brevemente sono sotto a un grosso soffitto, dove faccio fermata. Leo continua in artificia­le per 15 metri sulla destra, guadagnando in altezza molto poco. L’esposizione assoluta che ci circonda, le difficoltà e la stanchez­za non ci interessano più; ormai cerchiamo disperatamente una via di uscita, perché tra l’altro ci sembra di essere proprio in trappola, in questo momento.

Continuo io. Prima di tutto il soffitto, che non ci lascia vedere niente: con un cuneo esco di sopra. C’è una piattafor­ma di un metro, insperata: sono tentato di recuperare qui, ma poi proseguo. Un altro strapiombo mi porta su un’esile cengia. Per abitudine guardo a destra, sicuro che la soluzione, come sempre, verrà da quella parte.

– Leo, questa volta siamo fregati. Non si può più andare.
– Ma prova, prova, dài.

Passa mezz’ora in cui capisco che forse si può andare a si­nistra in orizzontale. L’orlo del tetto è a dodici metri. Mi muo­vo guardingo e martello un primo bel chiodo. Traversata a corda.
– Tieni sulla rossa.

Altro chiodo, non ci speravo. Ho fatto quattro metri. È passata un’altra ora. Una voce rauca dal basso: – Come va?
– Senti Leo, forse possiamo uscire a sinistra, ma credo che sarà dura. Te la senti magari tra un po’ di darmi il cambio?
– Sì, sì, vai.
– Sta attento, ché ora non ti dico più niente.

Leo Cerruti in vetta al Cervino, ore 18.30 del 17 luglio 1969

Tutta l’esperienza di anni, tutte le astuzie imparate e l’in­tuizione di cui posso disporre devo giocarmele adesso. Per­ché, porca miseria, non ci sono fessure, non c’è niente, niente!

Metto un chiodo a pochi centimetri, tanto per non essere sempre nella stessa posizione, e mi ancoro con un cordino, che dovrò regolare almeno quattro volte, per avere un sostegno più valido della corda tenuta dal basso che può sempre scivolare un po’.

Attaccato al cordino ruoto di novanta gradi e mi sistemo orizzontalmente, coprendo così con le braccia una zona ab­bastanza ampia sulla sinistra. A venti centimetri c’è un piccolo foro, allungo il cordino di un po’, costringendomi quindi a pun­tare i piedi sulle piccole asperità: trovo una specie di bitorzolo all’altezza delle ginocchia, allungo ancora il cordino e mi trovo in posizione assurda e faticosissima. La cintura di sostegno mi schiaccia le costole sinistre, i muscoli della parte destra del collo lavorano al limite, ma non arrivo ancora a piantare nel foro il chiodino che stringo tra i denti. Tolgo una staffa dalla coscia e me la metto sotto al collo, riassumendo la stessa po­sizione di prima. Con leggeri dondolii riesco a puntare il chio­dino nel foro: per martellarlo, essendo il manico lungo venti centimetri, non mi servono più le oscillazioni. Al primo colpo il chiodo schizza nel vuoto. Piangendo di rabbia ne prendo un altro uguale e ripeto la manovra. Dopo un po’ di colpi dondolo di nuovo, mi attacco con un dito e lo martello ancora. E così avanti per altri due chiodi, compiendo altre acrobazie.

Alessandro Gogna in vetta al Cervino, ore 18.30 del 17 luglio 1969

Alle 15.30 agguanto e oltrepasso l’orlo dello strapiombo. Al sole, boccheggio; poi mi decido ad assicurarmi.
– Leo!
– Come va?
– Vieni.

Abbiamo qualche dado di combustibile meta e con questi sciogliamo un po’ di neve per un’aranciata: ormai sono gli ultimi gesti.
Alle 18.30, dopo un tratto abbastanza facile, siamo seduti insieme accanto alla croce della vetta.

Cervino, il Naso di Zmutt dall’aereo con il tracciato della parte mediana e superiore della via (foto Beat H. Perren)

(In stato di grazia mentale iniziamo la discesa, che non sappiamo se riusciremo a concludere al rifugio Luigi Amedeo di Savoia entro il buio. A dispetto dei tre bivacchi in parete siamo ancora freschi: e il tempo è così bello che, giunti sulla cresta orizzontale del Pic Tyndall e trovato un fantastico terrazzino, decidiamo lì sul momento di fregarcene della comodità del rifugio. Scelta che un po’ rimpiangeremo, visto che non possiamo più sciogliere neve. Al mattino presto ricominciamo la discesa, incontrando qualche cordata che sta salendo, passiamo accanto al rifugio Luigi Amedeo e alla nuovissima capanna Carrel, che verrà inaugurata di qui a qualche giorno.
Ora accusiamo un po’ la stanchezza, più in basso, ben al di sotto del Colle del Leone riusciamo a bere dai rigagnoli della neve che si scioglie. Arriviamo a Cervinia verso mezzogiorno. NdA).

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Il Naso di Zmutt – 2 ultima modifica: 2019-07-17T05:58:21+02:00 da GognaBlog

8 pensieri su “Il Naso di Zmutt – 2”

  1. Non ricordo quando ho letto per la prima volta Una vita d’Alpinismo ma era molto tempo fa; forse era appena uscito. Mi ha fatto sognare e la precisione dei dettagli di Alessandro Gogna mi davano l’impressione di poter vivere l’impresa esattamente come loro, quasi come un terso di cordata ma invisibile.
    Grazie Alessandro.

  2. Non è giusto! E poi c’è chi dice che gli uomini sono tutti uguali. Eh, no! È vero proprio il contrario: ogni uomo è diverso e fa storia a sé.

    il problema è che oggi vogliono farci essere tutti delle fotocopie.

    Questa salita è stata una grande pagina di alpinismo.

  3. Insomma, io a ventitré anni era ancora un bamboccetto e questo qui, bello bello, si sciroppa addirittura il Naso di Zmutt invece di stare in casa a studiare. 😂😂😂

    Non è giusto! E poi c’è chi dice che gli uomini sono tutti uguali. Eh, no! È vero proprio il contrario: ogni uomo è diverso e fa storia a sé.

  4. la gioia per queste realizzazioni si apprezza e si esprime solo dopo.

  5. Poverini i “nuovi mattini” !

    Che distanza abissale !

    Leo sorride e Sandro no ?

    Ma scoppiare di gioia ?

    🙂 🙂 🙂

  6. Leo Cerruti in vetta al Cervino, ore 18.30 del 17 luglio 1969

    Alessandro Gogna in vetta al Cervino, ore 18.30 del 17 luglio 1969

    17 luglio 2019  son 50 anni.

    GRANDI !!!

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