Metadiario – 36 – Terza Pala di San Lucano (AG 1972-001)
Messi definitivamente da parte, almeno per quest’inverno, i programmi per l’invernale alla Cresta Integrale di Peutérey, posso con tranquillità dedicarmi al mio lavoro con la Lange, in effetti assai impegnativo.
Il 30 gennaio 1972 salgo con Piero Ravà la via Comici al Nibbio, tanto per sgrezzare un poco la forma, di certo non eccellente dopo le feste di Natale e Capodanno. Che non sia troppo teso verso un obiettivo in particolare lo si vede anche dal fatto che il 5 febbraio faccio un tentativo di salita alla via dei Ragni sulla Corna di Medale e mi dimentico perfino di annotare perché sono tornato indietro e con chi ho condiviso quell’esperienza…
Poi una giornata per me importante: il 13 febbraio 1972 vado con Piero Ravà e le rispettive mogli per la prima volta a Finale Ligure. Ho sentito parlare a lungo di quel posto e sono proprio curioso di vedere che aria ci tira.
Fino a che avevo abitato a Genova nessuno si era mai accorto di quelle bellissime scogliere d’entroterra, dalla pietra così singolare da essere chiamata pietra del Finale, di lavorazione tenera quanto esteticamente irripetibile: dalla via Aurelia erano sempre state invisibili, prima dell’inaugurazione dell’autostrada Savona-Ventimiglia. E anche se Alessandro Grillo mi aveva accennato, già nell’ottobre 1968, di aver scoperto quel nuovo eldorado di arrampicata, non avevo mai avuto né occasione di visitarlo né di desiderare di farlo.
Al colmo della stranezza, l’invito a fare finalmente una prima capatina mi venne non da genovesi, bensì dagli amici torinesi Gian Piero Motti e Gian Carlo Grassi… Fu una domenica serena, anche se molto nuvolosa e un po’ fredda. Al mattino, salutando gli altri alla base di Monte Cucco, dove presto avrebbero creato la discarica comunale, ero del tutto inconsapevole che, a partire da qualche anno dopo, Finale sarebbe diventata la meta di parecchie centinaia dei miei weekend (e non solo).
Sotto a Monte Cucco incontriamo anche gli amici Motti, Grassi, Flavio Leoni ed altri. Ci dividiamo le ancora poche (in questi anni) vie a disposizione: con Piero, Gian Carlo e Flavio prima salgo la via del Corpus Domini, poi la via del Tetto.
Scalare a Finale Ligure comporta quel genere di relazioni e abitudini che in seguito caratterizzeranno i centri di arrampicata sportiva. Lazzi e frizzi tra una via e l’altra, bevute a fine pomeriggio, cene con gli amici in uno dei tanti ristorantini a disposizione. L’arrampicata è ancora protetta con i vecchi chiodi e con bei cordoni alle clessidre: siamo ancora distanti anni luce dalla protezione con infissi definitivi. L’amicizia con i torinesi, già ampiamente rodata l’autunno precedente sulle Tenailles de Mont Brison e sulla Tête Noire, si ravviva: ed è così che il 19 marzo, ancora con Piero, vado in quel di Pinerolo alla Rocca Sbarua. E’ una splendida giornata autunnale: con Vareno Boreatti, Gian Piero Motti, Ugo Manera ed Ennio Cristiano saliamo la via dei Torinesi. Appena scesi, risalgo con Boreatti, Motti e Ravà la via Gervasutti, superata nella parte alta con la variante del Tetto. E’ lì che riesco a fotografare Gian Piero confrontando l’orizzontalità del tetto con quella dell’orizzonte. Una foto che un giorno riuscirò anche a vendere per la pubblicità di un amaro. Con gli stessi compagni salgo anche la via Bianciotto. La serata si conclude con massima allegria e tanto dolcetto in una piola di Talucco.
Essendo la fine di marzo, non è ancora propriamente il momento per le Pale di San Lucano. Ma ugualmente Piero ed io ci uniamo ad Aldo Anghileri e Gianluigi Lanfranchi (il mitico Pomela) per salire la via Ruchin sulla parete sud del Torrione Magnaghi Centrale. E’ il 26 marzo, la via è lunga solo 100 m, ma è davvero impegnativa. Salita da Ercole Esposito e Gentile Butta nell’ottobre 1944, è un piccolo capolavoro che a ripetere per primi nel 1949 sono nientemeno che Walter Bonatti, Andrea Oggioni e Josve Aiazzi, in sette ore. La chiodatura precaria è la responsabile della rarità delle ripetizioni.
Poi arrivano le vacanze pasquali e qui finalmente ho modo di andare per la prima volta alle famose Calanques di Marsiglia. Ricordo molto bene il nostro arrivo al Joli Bois, una locanda in magnifica posizione solitaria sulla strada che unisce Cassis a Marsiglia. Da Milano siamo qui in otto: Ornella, Marina e Leo con il piccolo Paolino di nove mesi, ma anche Piero, Marina e il piccolo Rocco (anche lui di quella età). Al Joli Bois incontriamo Gian Piero con l’amico Fulvio Berrino (non ricordo se c’erano anche altri loro amici e/o amiche). La sera la passiamo a farci raccontare da Gian Piero, davvero esperto conoscitore di questi luoghi di Provenza, le mille cose belle che si potranno fare nei giorni prossimi. Il 31 marzo 1972 siamo tutti a En Vau. Con Gian Piero, Fulvio e Piero salgo la Passerelle de Gauche, e subito dopo il Pilier des Americains. A tardo pomeriggio con Fulvio decidiamo di salire la Super Syrene. Forse sono un po’ stanco, fatto sta che all’ultima lunghezza faccio un voletto di tre-quattro metri, ben trattenuto da Fulvio. La cosa mi fa abbastanza impressione. E’ la prima volta che cado senza rendermene conto: non è piacevole per niente.
Chissà dove siamo andati a mangiare tutti assieme, in ogni caso non ci metto molto a domare quella sensazione sgradevole dell’aver sbagliato qualcosa.
Il 1° aprile lo dedichiamo al camminare. Da Morgioux, Gian Piero ci porta verso la Chandelle. Partiti tardi, la carovana è assai lenta, il caldo si fa sentire, la preoccupazione delle mamme per i bimbi in fasce anche. Così concludiamo la serata in un fumoso locale di Morgioux dove ci ritroviamo a gustare la bouillabaisse assieme a Claudio Barbier. Il giorno dopo andiamo a Sourmiou, dove è praticamente d’obbligo salire la magnifica Voie de la Momie: rispetto ai quattro che eravamo a En vau, oggi si è aggiunto Leo Cerruti, ben felice di prendersi una vacanza dal mestiere di papà. Nel pomeriggio porto Nella, un po’ esitante, a scalare sull’affilato spigolo del Bec de Sourmiou: siamo in cima al tramonto.
Il 3 aprile il tempo non è più bellissimo: in una giornata freddina e nebbiosa, con Piero vado alle Calanques di Saint-Michel, dove saliamo l’Arête Victor Martin e poi facciamo una o due lunghezze dello spigolo sud-est. Non contenti, saliamo anche lo spigolo sud-ovest di Les Goudes. Sfruttiamo la nostra vicinanza a Marsiglia per andare a trovare Georges Livanos, con il quale mi sono in precedenza scambiato alcune lettere. E’ stato lui ad invitarmi, se fossi passato dalle parti sue. Siamo in sei (con Piero e le due mogli e un bambino). A dispetto di lunghe sonate di campanello nessuno ci risponde, sembra proprio che la casa sia deserta. Ce ne andiamo un po’ delusi, anche se Piero ancora oggi a quel ricordo scoppia a ridere, pensando a Livanos che vede in quanti siamo e decide di eclissarsi!
Peccato che la vacanza sia finita così presto…
Mi sono appena accordato con la direzione della Domenica del Corriere per una serie di itinerari escursionistici: l’idea, assai banale, è quella che un famoso alpinista dia consigli ai lettori su cose belle da fare. In mancanza d’altro, prendo per buona quest’occasione e mi dedico con metodo a questo progetto: già alle Calanques avevo documentato la nostra eroica quanto stentata escursione alla Chandelle. Nello svolgimento di questo piano, vado con Nella alla Pietra di Bismantova, dove naturalmente, prima di salire con lei e un altro compagno la via ferrata, salgo con Antonio Bernard la classica via Pincelli-Corradini. Il giorno dopo, 9 aprile 1972, Antonio ed io ci saliamo in tre orette, la magnifica via Nino Marchi (3a ascensione), davvero un piccolo capolavoro di bellezza.
Ormai sono lanciato nei miei reportage escursionistici, dunque mi reco sempre con Nella al Monte Procinto, nelle Alpi Apuane. E’ il 17 aprile, al rifugio Forte dei Marmi c’è anche Giustino Crescimbeni, che è lì senza programmi precisi. Ci vuole poco perché mi convinca a salire con lui lo spigolo sud-ovest, che lui stesso aveva salito nel 1968 con Agostino Bresciani e Mario Piotti: è la seconda ascensione di una via davvero impegnativa, anche se in prevalenza artificiale. Con Nella, nel pomeriggio, abbiamo tutto il tempo di percorrere e fotografare la cosiddetta Cintura del Procinto.
E’ quasi fine aprile e ancora non siamo andati alle Pale di San Lucano. Con Piero Ravà e Antonio Bernard ci accontentiamo, il 24 aprile, di salire la via Zeni-Trottner al Piz Ciavazes.
Poi, finalmente, giunge il grande momento.
Terza Pala di San Lucano
di Piero Ravà
(pubblicato su Lo Scarpone del 16 maggio 1972)
«L’amico Alessandro Gogna, da esperto conoscitore delle Pale di San Lucano (come si ricorderà assieme a Leo Cerruti tracciò due anni or sono una via sulla Seconda Pala di San Lucano), mi sottopose l’idea di fare, come si suol dire, una capatina da quelle parti. La cosa era senz’altro allettante, anche tenendo conto che noi «Ragni» di Lecco da quelle parti non avevamo mai bazzicato.
«Che cosa pensi di bello?» chiesi a Sandro. Ed egli mi prospettò di aprire una via sull’inviolata parete sud della Terza Pala di San Lucano 2360 m, parete che è di facile accesso, per quanto riguarda il fondovalle, ma che si raddrizza presto. E il problema non è solo della salita, ma (come dirò) anche quello della discesa.
La parete presenta un ripido zoccolo di circa settecento metri con folta vegetazione, il quale è sovrastato da una zona di rocce grigie, con qualche mugo, alta quattrocento metri, che termina sotto un’impressionante muraglia giallastra, fiancheggiata a sinistra da un lungo camino, il tutto per altri quattrocento metri. Lungo il margine destro di essa, corre lo spigolo sud-est, salito da Attilio Tissi e Giovanni Andrich.
Vi erano già stati dei tentativi: penso il primo di Angelo Ursella e Samuele Scalet, i quali volevano salire direttamente fin sotto la parete gialla, per poi attraversare fino al camino. C’erano poi stati altri tentativi, e fra questi quelli di Gogna, Dorigatti, Leviti, Giambisi e Scalet, con direttiva di salita leggermente diversa (in realtà oltre a Ursella e Scalet nessuno aveva tentato quella parete, NdA). Sapevamo inoltre che anche alpinisti della zona avevano posato gli occhi sulla parete; decidiamo quindi di accelerare i tempi.
Sandro si preoccupa di organizzare le cordate, ed essendosi Scalet dichiarato indisponibile, faccio partecipi, come ho detto, del nostro progetto due amici del Gruppo Ragni, Aldo Anghileri e il Pomela, al secolo Gianluigi Lanfranchi. Essi, senza troppe esitazioni, accettano la proposta; a noi si unisce Antonio Bernard, di Parma, anch’egli allettato dalla salita. Fissiamo l’attacco per il 22 aprile; così approfitteremo del «ponte» festivo, e alle 11 siamo tutti puntuali all’ospitale baita del «Tita», base ideale per l’attacco alla parete.
Manca la cosa più importante: la parete, o meglio non è che manchi, ma si cela sotto un profondo strato di nubi e nebbie. E’ piovuto da poco, il tempo è uggioso, di malavoglia preparati i sacchi, superiamo il prato boscoso che ci separa dallo zoccolo. Iniziamo a salire in un ambiente umido, poco interessante, e dopo aver salito circa trecento metri ci fermiamo incerti sull’itinerario da seguire. Ricomincia a piovere, la situazione è afferrata al volo da tutti; nascondiamo il materiale sotto un sasso e decidiamo di scendere. Il mattino dopo il tempo è ancora brutto e rimandiamo la salita alla settimana seguente.
(Così scrivo io, a proposito di questo tentativo: “Con un cielo che più greve di pioggia non si può, con Piero Ravà, Aldo Anghileri e Antonio Bernard, carichi come muli, risaliamo lo zoccolo di rocce e mughi della parete sud della Terza Pala di San Lucano. Una fine acquerugiola va a intristire ulteriormente un’atmosfera già fastidiosa. L’umore è sotto le suole, mi accorgo di essere solo io che vuole ancora continuare a salire a dispetto delle evidenze. Bernard non è per nulla a suo agio: non è il suo stile di alpinismo, questo. Arrivo a sostenere che le goccioline che ci stanno bagnando non sono pioggia, bensì “condensazione di nebbia”: questo rialza un po’ gli umori del gruppo. A distanza di anni tutti ce lo ricordiamo ancora…”, NdA).
Sabato 29 aprile alle solite ore 11, alla solita baita del Tita la rossa auto di Sandro scarica coniugi Gogna e coniugi Ravà, con i fidati e rispettivi cani (Skippy e Billy, NdA). Poco dopo arriva anche l’auto del Pomela e l’Aldino. Un pranzo non troppo frugale dal Tita e con i suoi auguri ci incamminiamo lasciando qualcuno ad attenderci.
Anche lo zoccolo adesso, sotto un sole non al cento per cento delle sue prestazioni, ha dei lati interessanti. In un ambiente grandioso, e in meno di tre ore, siamo al suo termine alla grotta del bivacco. Qui ritroviamo il materiale dei precedenti tentativi; avendolo saputo si sarebbe potuto risparmiare un bel po’ di fatica, ma ormai è tardi.
Il posto è buono e ci prepariamo al bivacco, satolli dopo un’abbondante cena, poi di colpo l’ambiente si surriscalda. Sandro, infatti, incomincia a raccontare circa alcuni libri capitatigli per caso in mano, con descrizioni altamente erotiche; dobbiamo rinforzare l’ancoraggio all’Aldino, che quasi dà in ismanie ricordando certe sue conoscenze femminili giù in valle. Eppure, nei libri, avevo sempre letto che in montagna lo spirito si eleva, tende verso l’alto… (occorre doverosamente dire che quel genere di divagazioni non erano le sole. In realtà avevo iniziato con i miei compagni un lungo processo di conversione musicale. Quelli solevano ascoltare Lucio Battisti con qualche concessione al massimo ai Beatles. Io li ho iniziati ai Rolling Stones, ai Led Zeppelin e soprattutto ai Pink Floyd, imponendo loro quella musica per tutto il viaggio in auto, andata e ritorno. E devo anche dire che mi ringraziano ancora oggi…, NdA).
Al mattino, primo ad alzarsi è Sandro e ci costringe a imitarlo. Poi attacca deciso una diritta muraglia sopra la grotta, l’avventura è ora veramente cominciata (anche se il tempo è un po’ incerto, NdA). Dopo 35 metri di bella roccia pianta un chiodo, si ferma, lo raggiungo e parto a mia volta; così via via su roccia sempre buona ci alziamo abbastanza veloci incontrando qualche chiodo di Scalet e di Ursella.
Le difficoltà non superano il V grado; a ruota ci seguono Aldino e Pomela. Arriviamo così a un’evidente cengia; di qui Scalet e Ursella proseguirono diritti; noi invece pieghiamo a sinistra verso una fessura-diedro, ben evidente anche dal basso, che con un balzo di duecento metri ci porterà alla base del camino. Traversiamo su una cengia fino alla fessura. L’inizio è subito difficile: pianto un chiodo, mi alzo su una staffa, ma poi trovo soltanto fessure poco adatte. Provo allora ad alzarmi su di un pilastrino friabile, accordandogli fiducia. Questa è però mal riposta e rifaccio il passaggio in discesa, assai più velocemente (in crudo gergo alpinistico: volo), ritento con un chiodo e posso finalmente raggiungere una nicchia dove sostare.
Sandro mi raggiunge con un sorrisino ironico sulle labbra, riparte e il sorriso sparisce subito mentre faticando supera un diedro strapiombante. Con altri tre tiri in fessura, sempre molto impegnativi, arriviamo a un ampio terrazzo, sovrastato da una fessura nera che si presenta abbastanza ostica. Di colpo ci tornano in mente i cari compagni e non appena essi ci raggiungono li invitiamo con parole e cenni a cimentarsi con la fessura.
Il tiro è veramente duro, la chiodatura difficile, ma l’Aldo è uno specialista di questi passaggi e prima del previsto ne è fuori (comunque ci ha messo due ore, NdA). Quando tutti e quattro siamo riuniti al posto di sosta è ormai notte e non trovando alcun luogo adatto al bivacco scendiamo in doppia al terrazzo sottostante, dove trascorriamo una buona notte.
Al mattino presto rifacciamo il tiro e ci ritroviamo esattamente sotto al camino, ultimo ostacolo da superare; questo all’inizio, con i suoi strapiombi, non ammette discussioni: preferiamo quindi aggirarlo sulla destra lungo una muraglia grigia. Passa in testa Pomela e supera tre tiri di bella e difficile arrampicata, tuttavia al quarto tiro la spiacevole sorpresa; la dirittura di salita s’infrange su di una placca liscia, impossibile da scalare!
Raggiungo Aldo e Pomella e ci guardiamo increduli: dover rinunciare proprio ora! Ci rincuora l’incrollabile fiducia di Sandro: con una traversata a sinistra (seppur molto difficile) si può cercare di riguadagnare il camino. Subito Sandro parte e con gioia di tutti riesce a rientrare nel camino (è solo dopo molti tentativi che riesco a passare, in quanto la roccia è qui priva di fessure e non si possono piantare chiodi di assicurazione, NdA).
Ormai la chiave della salita è nelle nostre tasche. Raggiungo Sandro, pochi metri nel camino, supero una strozzatura e finalmente vedo l’uscita, il termine delle maggiori difficoltà, salgo per una placconata fino alla base di una fessura gialla di quarantacinque metri.
(Il mio commento su Un alpinismo di ricerca: “Sto uscendo dal camino finale, difficile e pericoloso. Un momento esaltante, mi sembra ancora di essere veramente bravo e coraggioso“. NdA)
Sandro deve ancora faticare, strisciando fra placche mobili. Al loro termine dinanzi a noi vi è solo l’ultima rampa. Superiamo rapidamente gli ultimi tiri che ci separano dalla cima, un cumulo di neve sul quale neppure ci fermiamo! (sono le 16.30, c’è ancora molta neve e i monti che ci circondano sono di rara grandiosità: siamo i terzi salitori assoluti della vetta, dopo Attilio Tissi e Giovanni Andrich che nel 1931 vinsero lo spigolo sud-est e dopo Berto Lagunaz e Gianni Costantini che ne fecero la prima ripetizione e la prima invernale, NdA).
Abbiamo dunque sofferto, lottato per raggiungere un punto che non ci ha dato alcuna emozione? No, non era la vetta la nostra intima meta, ma soltanto il tornare a valle passando per quella vetta.
Gli alpinisti salgono le montagne con il paradossale desiderio di ridiscenderle: ci chiamano forti di spirito e di corpo, invece siamo più deboli degli altri, non sappiamo assoggettarci all’ineluttabile scorrere delle cose umane, cerchiamo nella montagna un’illusione di grandezza che ci aiuti a vivere.
I camini innevati dello spigolo sud-est che percorriamo in doppia sono interminabili. Uno sguardo verso la valle e una forte emozione: intravedo la macchina di mio padre. E’ lui che mi ha insegnato ad amare e a capire la montagna, e ora, laggiù, soffre per me.
La valle s’addormenta sotto il manto della notte e noi ci prepariamo all’ultimo gelido bivacco, scomodi, stanchi, un po’ tesi: ciascuno invidia la posizione da bivacco del compagno.
All’alba ci tuffiamo giù per lo spigolo in una rapida serie di corde doppie; a circa metà traversiamo a destra verso lo zoccolo dove, in basso, incontriamo la via di salita. Ora il sole, dopo l’allenamento dei giorni precedenti, è in piena forma e non ci risparmia alcuno dei raggi infuocati. Qualche sguardo alla parete vinta, poi fulminea l’idea del Pomela: «dedichiamo la via al Paolo, tu Sandro sei stato suo compagno per anni, tutti e quattro lo conoscevamo, io ho ancora un debito con lui, una bottiglia di rosso persa per una delle solite scommesse tra alpinisti».
Alla baita del Tita Bona ci attende il dolce sorriso delle mogli (sono le 14.30 del 2 maggio 1972. La parete sud della Terza Pala di San Lucano è alta 1300 metri ed era ancora inviolata. Abbiamo usato 65 chiodi, lasciandone 40, NdA)».
Piero, attendo con ansia anche io il racconto del Cerro Torre!
Un piacere leggerti.
Piero, dovresti scrivere di più perché lo fai benissimo.
Un po’ te l’ho sentito raccontare a voce, ma quando scriverai di quando sei arrivato (in cordata con Casimiro Ferrari) a pochi metri dalla cima dell’ancora inviolato Cerro Torre nel 1970?
Un abbraccio, Marcello.
Si Roberto , ultimamente mi sono divertito a salire Trad diverse vie del Procinto, tra cuo Effetti Collaterali.
È un tipo di roccia che si presta più di quanto si possa pensare.
Fra le poche vie che ho salito al Procinto, c’è Effetti collaterali vertigini. Complimenti ad Alberto che ho sentito dire l’ha fatta trad!
Questo racconto mi ha risvegliato una vagonata di emozioni! Dico soltanto che da luoghi come En Vau non vorresti più andare via, ed il poster che ho qui davanti mi ricorda sempre la bellezza di quel luogo e delle due grigie Pareti.
confermo la bellezza e l’ impegno di questa via del Procinto che ho salito la prima volta nei primissimi anni 80 con Fabrizio Convalle in preparazione per la nostra prima uscita dolomitica.
Ancora oggi lo spigolo sud-ovest, a differenza di tante altre vie del Procinto, resiste alla richiodatura e alla MESSA IN SICUREZZA…
Che bel viaggio la Paolo Armando !
Qualche anno fa, in una giornata d’autunno fra tre amici, partendo dalla baita del Tita, incontrammo in alto un magnifico ed enorme terrazzo coperto, erboso e fiorito, cinto da mughi, un posto romantico perfetto per passare una notte con una morosa, e più su una lunga corda bianca sfilacciata, che andava su e giù verso sinistra.
Poi dormimmo sulla cima con “il ramo secco” e un po’ di neve, la luna e tante stelle!
E il giorno dopo la Milarepa e il su e giù per tornare in valle.
E’ una via lasciata tutta ben attrezzata che merita un viaggio: ho incontrato tanta storia.