Uno sguardo obliquo
(senza avere gli occhi storti)
di Massimo Manavella
(rifugio Selleries, 10 maggio 2020)
Come spesso accade, mi ritrovo in una posizione complicata soprattutto da spiegare, quindi mi fermo a riflettere.
Mi è capitato di ascoltare espressioni di pensieri che fatico a fare miei permettendomi il lusso di dirlo, pur sapendo di non avere alcun titolo specifico da portare come pezza giustificativa. Ritengo, però, di poter esprimere un concetto che parte dal basso di una vita che scorre e si vive semplicemente. Pur non essendo uno studioso e nemmeno un intellettuale, tantomeno un docente universitario, mi arrogo il diritto di riflettere e poi di tentare di esporre un’analisi, cercando di non uscire dai miei ambiti e dal mio contesto, non dimenticandomi il limite delle capacità e, quindi, senza pretendere troppo da esse.
Intorno al rifugio gravitano individui, escursionisti, alpinisti, malgari e pastori, con opinioni e aspirazioni personali estremamente differenti e ramificate. Ognuno sale in montagna con esigenze che sono prettamente sue e difficilmente spiegabili a persone “fuori zona”, nel senso di persone appartenenti a un circuito diverso da quello che riguarda il micro cosmo di ognuno di noi. Quindi è ricorrente che si arrivi a un confronto e a volte a uno scontro. L’essenza di tutto è il modo in cui si arriva al confronto: per scelta o per obbligo. Da una di queste due opzioni dipende la conclusione, sempre inversamente proporzionale al punto di partenza: il confronto e lo scontro dipendono da scelta od obbligo.

Di fronte a posizioni di protezionismo ambientale assoluto, come vorrebbe la teoria della wilderness statunitense, ci si rende conto fin da subito di come le complicazioni attuative che ne derivano siano, in buona parte, legate a una mancanza di valutazione seria e obbiettiva. Le valli e i territori alpini italiani sono poco paragonabili ai grandi parchi statunitensi, innanzitutto per le dimensioni degli spazi a disposizione; infatti anche a uno sguardo superficiale è facile rendersi conto che il Parco dello Yellowstone ha dimensioni che sfiorano quelle del Piemonte nel complessivo della sua area regionale, quindi il territorio prettamente alpino non ha alcuna possibilità di avvicinarsi a porzioni territoriali di tali vastità. La densità della popolazione distribuita lungo l’intero arco alpino italiano non consente nemmeno di abbozzare un procedimento applicativo di Tutela Ambientale sulle basi previste nei grandi parchi statunitensi. L’altra grande discriminante è dovuta alla civiltà alpina italiana ed europea. Pur essendo l’Italia considerata, in prevalenza, di estrazione culturale mediterranea, non bisogna dimenticare che è l’unico paese in Europa ad avere l’intero arco alpino nei propri confini di stato, seppur da un solo versante: quindi la peculiarità culturale alpina ricopre un ruolo tutt’altro che marginale. Detto ciò, non ci si deve dimenticare che le popolazioni alpine sono da considerarsi connesse e collegate con tutte le altre popolazioni europee, siano esse di pianura o marittime, e questa consapevolezza ci fa rendere conto di tutti i legami e di tutte le commistioni della storia che, partendo dai porti di mare e passando per la pianura padana, ha portato, in qualche maniera nei secoli, interi clan e intere famiglie a raggiungere le pendici delle montagne.
In base alle necessità e agli obbiettivi, si può vivere l’arco alpino come un contrattempo e un impedimento, oppure come una possibilità di stanziamento e di investimento: la vivacità delle esigenze economiche e culturali, nonché difensive e strategiche, hanno fatto da base di partenza per lo sviluppo sociale e demografico avvenuto nei secoli in tutto il territorio montano, da qualunque versante venga osservato. Questa presenza di genti, lungo i secoli, la possiamo intuire, oggi, tutte le volte che ci mettiamo in cammino su uno qualsiasi dei sentieri che percorrono le valli e le montagne: a un occhio attento non sfuggiranno i solchi delle ruote dei carri che, nei lustri e nei decenni, hanno scavato le pietre che costituiscono il fondo di questi percorsi, sarà quindi automatico soffermarsi a riflettere, anche, sulle differenti calzature degli individui che hanno camminato sui sentieri alpini: dai piedi scalzi ai sandali, dalle suole robuste dei soldati a quelle in vibram degli escursionisti. Il passo e le scarpe indicano senza possibilità di errore le necessità di colui che si metteva, e si metterà ancora, in cammino. L’uomo e la sua presenza con una civiltà, in ogni sua espressione, cresciuta in secoli di vita vissuta un giorno dopo l’altro, ci impediscono di considerare ipotizzabile e, di conseguenza, attuabile la teoria della wilderness elaborata negli Stati Uniti d’America. Un escursionista che volesse pianificare una traversata dalle Giulie friulane alle Marittime liguri, deve solamente preoccuparsi di avere tempo e finanze a sufficienza oltre, ovviamente, a una prestanza fisica adeguata, ma non avrà alcun problema sulla disponibilità dei sentieri da utilizzare. E tutto ciò non solamente grazie al continuo lavoro odierno di CAI o AIB (Anti Incendi Boschivi, NdR), che oggi si prodigano in opere volontarie di mantenimento, ma, soprattutto, grazie alla presenza costante, tutto l’anno per secoli, di donne e uomini che vivevano in montagna, di montagna e con la montagna. Al contrario, partendo per una traversata simile nelle Alpi Neozelandesi, sicuramente più affascinanti a uno “sguardo wild”, ci renderemmo conto, appena partiti, dell’impossibilità di realizzare un progetto del genere, perché mancano i sentieri e i cammini: l’escursionista si dovrebbe trasformare in esploratore, con il diverso impegno che tutto ciò andrebbe a comportare.

La presenza umana del passato sulle Alpi non ci deve, però, trarre in inganno, facendoci dimenticare che ben diverse erano le condizioni di vita e ben diverso era, soprattutto, l’uomo. Senza cadere nella fascinazione e nel mito del passato e ricordando che pur sempre di uomini e donne si trattava: con i loro guizzi di genio che brillavano, estemporaneamente, nella melma della mediocrità umana. La civiltà alpina che, più o meno, si mantenne robusta e strutturata fino all’epoca della rivoluzione industriale, aveva necessità ed esigenze molto differenti e ben lontane dalle urgenze quotidiane di oggi.
Capita spesso in questa primavera anomala 2020 di sentir parlare di ritorno alla montagna, di recupero delle borgate abbandonate come risultato di un cambiamento di mentalità, oppure, più biecamente, come soluzione all’innalzamento delle temperature. Senza giri di parole, si potrebbe dire che chi ha la disponibilità fuggirebbe verso quote più elevate, lasciando e tralasciando tutti coloro le cui finanze non lo consentono. Quando, tutti, questi pensieri si presentano e si strutturano, la preoccupazione comincia a salire. Proseguendo in un definirsi sempre più allarmato, quando si capisce che a proporre questi discorsi non sono individui privi di cultura e quindi di scrupoli, bensì studiosi e docenti universitari, nonché pensatori illustri. L’inquietudine si alza ancora scoprendo che l’elaborazione di queste teorie, molto articolate e ben documentate, non pare tener conto di fattori elementari come, ad esempio, il progresso dell’uomo negli ultimi cinquant’anni.
Dovrebbe essere evidente che le 1.222 persone residenti nel Comune di Ostana, in Valle Po, nei primi anni Quaranta del ‘900 conducevano la loro esistenza con esigenze e conseguenti impostazioni, del tutto diverse e lontanissime da quelle che potrebbero essere le attuali aspettative di vita di un nucleo di individui che decide di spostarsi in montagna. Per dare immagini efficaci basta pensare alle autovetture, alle motoseghe, a tutte le apparecchiature elettriche ed elettroniche, ai cosmetici, ai surgelati e agli impianti di depurazione. Tutto questo “materiale” è, per l’essere umano occidentale moderno, banalmente scontato e prevedibile, quindi facilmente strutturabile. Per gli esseri umani che popolavano la civiltà alpina del passato, non era affatto così, le esigenze e le conseguenti impostazioni erano tutte più basiche ed essenziali.

Alla luce di questa consapevolezza, forse, può cominciare a farsi più chiara la mia perplessità. L’impatto dell’uomo di oggi che decide di stabilirsi nelle terre alte, può essere sostenuto dalla montagna stessa? Quando Luca Mercalli propone uno scenario di desertificazione nella pianura padana, quindi una fuga in massa verso l’alto, a me viene la pelle d’oca. Semplicemente perché totalmente insostenibile per il delicato ambiente alpino. Un ritorno ai numeri del passato, in fatto di abitanti, provocherebbe il collasso strutturale della Montagna, a causa delle necessità e delle aspettative nello stile di vita moderno.
Se si provasse a osservare in maniera differente ciò che è avvenuto nelle valli e nelle montagne italiane, a partire dal dopoguerra, ovvero la graduale ma inesorabile discesa verso i grossi centri in cerca di opportunità, ci si potrebbe permettere una riflessione con conclusioni diverse. Lo spopolamento della montagna potrebbe anche non essere interpretato, solamente, come una piaga, ma potrebbe essere anche visto come una pausa di mezzo secolo, per consentire al territorio di tirare il fiato. A Nuto Revelli, al quale da ragazzino ho avuto l’onore di stringere la mano, devo tutto il mio rispetto e la mia ammirazione, soprattutto, per la sua capacità straordinaria nel narrare l’abbandono di un territorio. Il Mondo dei Vinti, per me, è un capolavoro di indiscutibile spessore: una fotografia dalla quale, se si osservano i dettagli, si può cogliere una vera e propria “fuga frettolosa”, abbandonando tutto, come se stesse per arrivare un’invasione barbarica. La civiltà contadina e montanara si è sgretolata sotto i piedi di un’Italia in corsa verso il futuro, abbandonando il tavolo in legno presente in famiglia da generazioni, per sostituirlo con uno in formica. La “fuga frettolosa” ha causato il crollo di tutta la tradizione linguistica e culturale della montagna ed anche della pianura: si è gettata alle ortiche tutta la storia, nello slancio verso il “mondo nuovo” che stava per arrivare e, secondo me, abbiamo perso un patrimonio di un valore difficilmente quantificabile.

Ma se questa discesa non fosse avvenuta, se il “mondo nuovo” fosse arrivato con tutti gli abitanti delle terre alte nelle loro case, cosa sarebbe potuto succedere? Se la moderna era industriale e tecnologica si fosse insediata, negli anni Sessanta del Novecento, direttamente anche in montagna, imponendo tutte le esigenze, cui oggi riteniamo normale essere sottomessi, come si presenterebbe oggi la montagna?
Nella nostra ottica “moderna” tutto è indispensabile, quindi ogni famiglia deve avere, ad esempio, la sua motosega. Però se le circa 400 famiglie d’inizio anni Quaranta del Novecento di Ostana, avessero avuto, tutte quante, la motosega, con buona probabilità, oggi non ci sarebbe più un albero nel raggio di chilometri dal paese. La Villo e tutte le borgate ostanesi, invece di essere immerse nel verde, sarebbero circondate da una steppa brulla e la civiltà alpina avrebbe fatto la fine che fece il popolo dell’isola di Pasqua, del quale oggi non si conoscono nemmeno troppo bene percorso, nascita e sviluppo.
Trovo questa immagine utile ed efficace per stampare rapidamente un’istantanea che serva da monito: il mito del montanaro sensibile e responsabile è, appunto, un mito. Non ho idea di come si rapportassero gli abitanti delle Alpi nei secoli che precedettero la rivoluzione industriale, ma posso sbilanciarmi a dire che, dopo, tutto è cambiato, con un crescendo, in peggio, soprattutto dal dopoguerra del secondo conflitto mondiale. Nulla mi consente di non dubitare che i miei nonni sarebbero stati in grado di opporsi a questo mutamento epocale di approccio alla terra, pur trattandosi della loro Terra.
Ed oggi, ciò che vedo è una quantità spropositata di danaro investito per la montagna che ha prodotto un approccio sconsiderato e utilitaristico ai pascoli alpini, alle stazioni sciistiche, all’edilizia nei centri turistici. La mentalità è quella dell’imprenditore industriale, a tutti i livelli e in tutti i settori dove si rivolge lo sguardo: il pastore e il malgaro cercano di far monticare il maggior numero di capi, per aumentare i contributi; i gestori degli impianti sciistici dicono di utilizzare l’acqua in modo identico a ciò che si fa nell’agricoltura intensiva, quindi non c’è nulla di sbagliato nel loro operare e anche loro pescano contributi pubblici; gli speculatori edili e anche i semplici muratori operanti nei centri alpini, quasi sempre di origini montanare, costruiscono villaggi turistici con tutti i crismi architettonici che ci si aspetta di trovare, senza vedere che si continua a distruggere l’ennesimo pezzettino di montagna.

Il paesaggio alpino che noi conosciamo oggi è il frutto di secoli e secoli di presenza quotidiana, del lavoro di donne e uomini che non avevano ambizioni legate al guadagno e al soldo. La loro motivazione unica era la costruzione della loro vita in quel luogo, quindi un approccio distante anni luce dal modo di ragionare odierno. Come si diceva all’inizio per i sentieri, la manutenzione moderna consente di conservare un patrimonio costruito in secoli di lavoro, ma non contempla un recupero e un proseguimento della storia alpina.
Gli individui, sedicenti montanari, oggi si approcciano per usare e per sfruttare: per un’utile. Non per ricostruirsi la vita.
Se oggi si pensa ai paesaggi delle Alpi lo si fa valutando quale inquadratura potrebbe essere migliore per renderli più cliccabili sulle reti sociali, quindi si sfiora, oppure si cade, nel fasullo e nel finto, come, del resto, succede da decenni nell’ambito dell’architettura alpina: ci si preoccupa principalmente del rendere accattivante una casa e l’ambiente che la ospita, da un punto di vista di valore immobiliare.
Paesaggi e costruzioni alpine si vedono presi in considerazione perché potrebbero essere interessanti sul mercato, non per il valore storico ed ecologico che hanno, da sempre. Il malgaro e le sue mucche, il pastore e le sue pecore, il rifugista e il suo rifugio, l’albergatore e il suo albergo, lo skilifista e il suo impianto: tutti quanti salgono in montagna per il portafoglio, altrimenti si dirigerebbero altrove.
Non esiste la capacità di percezione indispensabile per osservare il contesto e la storia del paesaggio alpino e della montagna tutta, come un pezzettino di Gaia, ossia della Terra, quindi del Pianeta che ci ospita.
Pasqua era un’isola, quindi una porzione limitata di territorio. L’arco alpino è, anch’esso, una fetta di territorio relativamente ristretto, anche se a differenza di un’isola, si tratta di una superfice delimitata ma collegata, in tutto e per tutto, con il resto del continente europeo. Quindi un’implosione della montagna avrebbe conseguenze che andrebbero a ricadere su tutto il resto, senza fare finta di non sapere che anche Pasqua, pur se isola, ha un legame indissolubile con Gaia. Quindi qualunque accadimento, sia sull’isola che sulla montagna, non può essere visto come un fatto che non riguarda il Pianeta nel suo complessivo.

Temo che le buone intenzioni dei vari piani di sviluppo rurale e turistico in montagna, per il momento, non portino altro che speculazione e ad ognuno deve andare il suo pezzo di responsabilità, in un meccanismo perverso che oggi ci presenta la ristrutturazione di una borgata come la salvezza, senza tenere minimamente conto che è improponibile spostarsi in essa, pensando di trasportare tutte le mercanzie che paiono scontate in città. Senza andare a piantare il naso nel punto esatto nel quale verrebbe riversato il ruscello di liquami che fuoriesce dagli impianti fognari, che in quota funzionano solo in parte: depuratori di limitata efficacia ai quali si allacciano baite alpine in legno e pietra e alberghi che paiono casette per gnomi. Senza voler vedere e ammettere che la monticazione forzata di un numero eccessivo di capi di bestiame, comporta un impoverimento irreversibile delle praterie alpine. Pretendendo, anzi, di far passare i novanta giorni di presenza sui pascoli come una manutenzione del paesaggio delle Alpi, per nascondere la realtà dei soldi che stanno dietro a questo vero e proprio traffico di animali, costretti in stalle di pianura per quasi tutto il resto dell’anno.
Che cosa centra tutto questo mercanteggiare, questo passar di mano di danaro e favori, con la civiltà alpina? Con il paesaggio delle Alpi? Con la montagna?
Forse potrebbe essere un esperimento interessante provare a chiudere tutti i rubinetti che erogano soldi, per vedere chi continuerebbe regolarmente a salire. Riuscendo, forse e finalmente, a capire quali siano gli operatori, ammesso e non concesso che ve ne siano, che negli anni hanno inteso il lavoro come una costruzione della vita che avevano pensato per loro stessi.
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Ho letto, con molto interesse, questo articolo “Uno sguardo obliquo”, e condivido le riflessioni che proponi sul ripopolamento della montagna.
Ho partecipato ai webinar dell’UNCEM sull’argomento ripopolamento delle zone alpine e, relative, richieste di incentivi e devo dire che anche io sono rimasto basito di fronte alle proposte di molti esperti, tra i quali, ad esempio, gli architetti Antonio De Rossi, Stefano Boeri e Massimiliano Fuksas per quanto riguarda il turismo di prossimità e, in sintonia con quanto suggerito dal climatologo Luca Mercalli, il ripopolamento della montagna a causa del cambiamento climatico che renderà meno vivibili i grandi centri urbani.
Tanto meno trovo logico continuare a destinare incentivi economici per sviluppare un’economia che, di fatto, risulta completamente scollegata da una reale connessione con l’ambiente in cui la si vorrebbe inserire. (…) Si può dire che Bardonecchia è appetibile per il villeggiante perché rappresenta la succursale della città, il luogo dove vengono replicate le attività ludiche cittadine, ma in un contesto di vacanza, con in più la giostra degli impianti di risalita.
Ma quanti sono i paesi alpini che possono, in Piemonte, “vantare” queste prerogative ed aspirare alla sopravvivenza legata a questo tipo di sviluppo? Si possono contare sulle dita di una mano!
Non so se questo sia un bene o un male, ma, certo, questo tipo di sviluppo e la relativa sopravvivenza non mi affascinano per niente.
ho 1 motosega, 1 decespugliatore, 1 tagliasiepi, 2 tagliaerba, diversi pennati, accette, forbici da potà e tutto senta patentino…sono proprio un fuorilegge.
A me Marcello sta per scadere la revisione del Pennato.
Chiedo se il patentino per il decespugliatore va bene anche per la motosega?
Per Atanasio
Il patentino per la motosega devi averlo se sei un operatore professionale. Se tagli legna per te stesso non serve.
Carissimo Massimo Manavella , sei stato fortunato ! Sono Atanasio , veterinario libero professionista , in primis MONTANARO. Da circa 15 anni vivo sull’appennino Toscoromagnolo, in una casa in sasso (ristrutturata in gran parte da me e mia moglie poichè abbandonata da 50 anni), non sono ricco! ma ho sgobbato sodo (muratore ,falegname e tuttora Boscaiolo).Condivido le tue preoccupazioni ,e mi complimento per l’articolo ,inoltre ti ringrazio per averci consigliato il libro di N.Revelli.Vengo al dunque , chi fa la scelta come me di vivere sui monti ,deve avere una preparazione fisica e mentale che non si compra in farmacia o al supermercato, poi occorre fare delle rinunce a molte comodità . Quando nel 2014 mi sono svegliato al mattino con 150 cm di neve ,la casa più vicina è ad 1 km in linea d’aria ,il Paese a 5 km, la prima cosa che ho fatto è stata quella di spalare la strada (turbina 16 cavalli che ti rompe le braccia) poi accensione della caldaia a legna (legna che io taglio con la motosega ) e siamo solo all’inizio del giorno! mia moglie faceva il pane e mi aiutava con i lavori pesanti. Per 15 giorni siamo stati isolati. Come premesso sono veterinario ho l’ambulatorio dove vivo quindi per i clienti che hanno avuto bisogno prendevo il fuoristrada con quattro catene li andavo a prendere a circa due km e poi una volta eseguita la prestazione li riportavo (il servizio ovviamente di tassista era gratuito) ti assicuro che quello che scrivo è tutto vero ed è solo una minima parte di come vivo la giornata(dall’alba al tramonto del sole) e sono felicissimo ,pur con tutte le difficoltà. Ti volevo tranquilizzare sulle teorie dei pensatori illustri e dei docenti universitari (non sanno distinguere un pero volpino da una quercia ,non sanno usare la motosega , e ciliegina sulla torta non portano LE SCARPE GROSSE!) è vero che molte seconde case sono state comprate da persone facoltose ,che però arrivano al fine settimana d’estate quando in città non si respira e poi scappano .Viverci è una scelta difficile ,dubito che in massa si riversino sui monti , puoi avere i soldi ma se non hai una forma mentis adeguata alle prime difficoltà si dileguano come neve al sole.
P.S. ( dovete scusarmi ma oggi sono in vena di comunicare!)volevo solamente fare una precisazione sull’uso della motosega: primo devi avere un patentino,secondo devi essere preparato sulle piante che si possono tagliare e quelle che non devi assolutamente tagliare, da noi il bosco è ceduo e devi seguire delle regole ,sulle Alpi vi sono altre regole che se non rispettate La Forestale viene e ti fa u bel verbale ( 5-10 mila euro col penale) dopo sicuramente diventi bravo e rispettoso ,dell’ambiente in cui vivi .
SALUTI ALPINI E GRAZIE PER AVERMI ASCOLTATO
Vi sono diverse realtà che stanno puntando su ciò che oggi viene definito turismo alternativo. Alternativo a piste da sci, a frequentazione motorizzata, ecc..Quelle che conosco personalmente sono tre realtà ben definite: Alto Garda bresciano, Piana del Gaver, e Alpe Devero. Nelle prime due opero come Guida Alpina e ne avevo già parlato in altri post. In Alpe Devero si è formato un comitato che lotta ogni giorno in difesa dell’area contro chi vorrebbe sfruttarlo con nuovi impianti da sci, peraltro se ci fate un giro, capirete quanto possa essere ridicola e balzana l’idea che porterebbe soldi nelle tasche di qualcuno e dopo poco tempo sarebbe destinata a fallire, lasciando sul terreno i disastri fatti in nome di un progresso che sarebbe meglio definire regresso. In Alto Garda stiamo operando per la valorizzazione di un parco alpinistico che sia sostenibile e si inserisca senza forzature sul territorio. In Gaver l’idea è più o meno la stessa, con impianti da sci storici che sono falliti da qualche anno ed uno sviluppo da parte degli operatori locali puntati su scialpinismo e ciaspole.Questi come dicevo li conosco personalmente ma ho sentito anche di altre micro realtà che stanno evolvendo in modo alternativo.
Bell’articolo.
Una domanda per Stefano Michelazzi. Hai detto che qualcuno applica delle soluzioni che stanno dando dei risultati. Puoi entrare un po’ più nel merito? Grazie.
Articolo interessante e utile che dovrebbe portare a serie riflessioni, condivido anche gli interventi mirati di Michelazzi, puntuali e fondati. Io credo che quando si parla di ritorno alla vita in montagna, c’è sempre dietro il grande pericolo dell’avidita’ di molti, delle grosse speculazioni di pochi e invece le iniziative con un minimo di senso, sono marginali o marginalizzate proprio perché non ci si può fare grandi speculazioni. Così com’è adesso meno si fa’ ‘in montagna e meglio è, perché di funivie, di Cave, di comprensori per seconde case, ne abbiamo già in abbondanza.
condivido e apprezzo il pensiero di Michelazzi.
Anche le apuane vengono giornalmente smontate in ragione di una economia locale che fa leva sul lavoro a poche centinaia di eprsone e che in realtà consuma in tempi brevissimi lo stesso territorio in cui vivono, una visione assolutamente suicida.
LA differenza fra utilizzo (rispettoso) e sfruttamento è davvero fondamentale, e coinvolge tutte le realtà non solo quelle alpine.
in proposito consiglio un libro interessante, scritto da Cormac Cullinan “wild law” (tradotto in italia con il titolo “i diritti della terra”.)
Solo una visione improntata al rispetto e alla salvaguardia (assente in questo paese) può consentire all’uomo di sopravvivere: “Nel 2010 Cullinan, ambientalista e avvocato sudafricano, ha presentato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la Dichiarazione Universale per i Diritti della Terra, da lui redatta e inclusa nel libro. Ha partecipato inoltre al vertice mondiale sul clima a Durban nel 2011.La seconda edizione inglese è stata pubblicata nel 2011, e subito è stato accolto dai movimenti ecologisti e dai più eminenti pensatori e intellettuali come il libro-manifesto di un nuovo e rivoluzionario modo di rapportarsi alla natura e agli ecosistemi, finalmente riconosciuti — ecco il cambio di prospettiva — come persone legali aventi diritti e bisognose di tutele.”I diritti della Natura” nasce dal senso di frustrazione davanti ai disastri ambientali e dalla constatazione che trattati, leggi, vertici e summit politici sono incapaci di rallentare la distruzione del nostro unico habitat.”I diritti della Natura” coniuga la più stretta attualità politica alla filosofia, alla giurisprudenza e alla saggezza popolare, dando vita a un libro di altissima leggibilità e capace di ispirare e stimolare le persone al dibattito.”
e i cambi di prospettiva, talvolta, partono anche dalle condotte individuali…
questo è il principio che oggi viene applicato alla lettera per giustificare la distruzione sistematica delle Apuane.
E’ proprio di questi giorni l’applicazione da parte del Comune di Stazzema della nuova tassa per i non residenti che parcheggeranno con i loro mezzi al passo Croce sotto il Monte Corchia e al parcheggio di accesso al monte Procinto.
La giustificazione: i soldi verranno spesi per migliorare la sentieristica. Detto da un sindaco che ha sempre dichiarato che l’unica economia del comune di Stazzema è quella della’escavazione della pietra, sa veramente di incredibile.
Grazie Stefano! Credo che questo tuo commento rappresenti un articolo nell’articolo, un corollario indispensabile e realistico, su cui anche altri lettori potranno riflettere.
No Paolo non è adeguato.Sia le normative ambientali sia quelle per lo sviluppo dei territori montani hanno lacune infinite e sono facilmente interpretabili a scopi ben diversi da quelli che vengono presentati ufficialmente.
Burocraticamente poi è un disastro con leggi quadro nazionali che non solo rimangono nel vago ma tendono ad incasinare la situazione. Ad esempio l’art. 452 c.p. (disastro ambientale) che nelle sue varianti per essere applicato, nemmeno i magistrati sono riusciti ad interpretarle e questo te lo do per certo visto che come perito del tribunale ho avuto a che fare con queste problematiche.
Quindi abbiamo un quadro normativo incomprensibile o anche a volte inapplicabile, un demandamento alle regioni (giustamente competenti per territorio) che però ognuna agisce per conto proprio senza un iter che sia comune e quindi che dia reali possibilità di crescita (e parlo sempre di crescita non in senso finanziario ma di gestione oculata ed accurata del territorio), un’incentivazione ancora legata a fondi previsti per strutture devastanti tipo piste da sci che attualmente sono strutture in caduta fallimentare ovunque ma si continua a sostenere mentre non si parla mai di fondi per progetti di interesse comune sia imprenditoriale che di rispetto dell’ambiente, i quali garantiscono una gestione del territorio in utilizzo e non in sfruttamento.Non parlo neanche di concessioni governative di cave e miniere varie, le quali sappiamo bene, sono in crisi da decenni ma continuano ad ottenere proroghe su proroghe alle concessioni con il ricatto dell’occupazione che però a guardare bene non è una situazione tanto catastrofica come viene dipinta. Sarebbe necessario un piano serio di rivalutazione delle attività (a quanto ne so alcuni progetti sono già stati presentati in diverse realtà ma non sono stati considerati), per contenere il disagio derivato dalla chiusura degli impianti ma questo appare ancora come una mera illusione… fa più testo il soldo di pochi che il benessere di molti…!
Stefano, ritieni adeguato l’attuale quadro normativo e burocratico, da questo punto di vista? Te lo chiedo perché, vivendo lì, hai più strumenti di me per considerare il problema (che potrebbe anche non essere quello pregnante).
Articolo molto interessante, perché scritto da chi la montagna la vive e finalmente non applica quel ragionamento ormai diventato una nenia scontata del “io ci vivo e tu no, quindi ho diritto di sfruttarla per vivere come te”. Concetto evidentemente di comodo che giustifica qualunque oscenità venga perpetrata in nome dei “poveri montanari abbandonati”.
Il sottoscritto la montagna la vive, la ama, la rispetta, la preserva, anche in nome del proprio sostentamento perché è da imbecilli distruggere il proprio ufficio di lavoro, la propria abitazione e poi lamentarsi che non funzionano più.
Ripopolamento alpino? Speriamo di no!
Siamo in un’epoca dove il termine progresso dovrebbe ormai significare cura dell’ambiente ed invece in nome di un progresso che ancora significa guadagno stiamo distruggendo il pianeta e noi stessi.
Soluzioni ci sono, da più parti vengono proposte ma spesso non applicate a caccia dei già noti contributi. Qualcuno le applica ed i risultati si stanno vedendo. Ambiente che ritorna alla normalità. Dopo decenni di sfruttamento selvaggio la natura si sta riprendendo gli spazi.
Il bandolo della matassa sta nell’interpretazione di due termini che spesso vengono scambiati per sinonimi ma non lo spno anzi sono contrari: utilizzo e sfruttamento.
Articolo davvero interessante. Benché poco propositivo. Ma probabilmente l’intento dell’autore era di offrire una fotografia su cui riflettere.
Mi fermo dunque alla considerazione finale: cessare di erogare fondi.
Bene. Il mio desidero sarebbe quello di trasferirmi in montagna, con pochi mezzi e poca tecnologia. L’idea è di intraprendere una attività di auto sussistenza. Ho l’esperienza e le conoscenze per farlo, a bassissimo impatto.
Quello che vorrei, se non ci fossero fondi cui attingere, è che lo Stato me ne chiedesse meno di ritorno, che mi concedesse di costruire una piccola legnaia senza scomodare il catasto, il geometra, la Regione, la Corte dei conti.