Abbiamo pensato di associare questo giorno di festa nazionale francese a un articolo assai datato di Gian Piero Motti. Vi si parla di almeno due weekend da lui trascorsi nei dintorni di Parigi, in un ambiente arrampicatorio parigino che già cinquant’anni fa indicava profumi, modi d’essere, mode, tic e simpatiche manie della futura arrampicata sportiva e del bouldering.
Weekend a Parigi (GPM 038)
di Gian Piero Motti
(pubblicato su Rivista della Montagna del luglio 1974)
Le fotografie, salvo diversamente indicato, sono di Gian Piero Motti e tratte dall’articolo originale.
La posizione geografica di Parigi, situata al centro di una vasta pianura, a qualche centinaio di chilometri di distanza dalle Alpi, sembra a tutta prima non favorire la pratica dell’alpinismo. I parigini si trovano un po’ nelle condizioni di un romano che volesse arrampicare sulle Alpi a ogni fine settimana. Aggiungiamo poi la difficoltà di tenersi in allenamento sfruttando le palestre di roccia, generalmente assenti nelle pianure.
Invece gli alpinisti parigini si possono considerare oggi tra i migliori della Francia e del mondo; forse in nessun’altra scuola alpinistica dell’Europa si è raggiunta una tale perfezione nell’arte dell’arrampicata libera.
Naturalmente vi è una spiegazione logica a questo interessante fenomeno. A circa 50 chilometri da Parigi, verso sud e precisamente nei dintorni del celebre castello di Fontainebleau, si estende una vasta foresta pressoché disabitata, nella quale sono disseminati a gruppi centinaia di massi di gres, dalle forme più strane e bizzarre, ma generalmente aventi un’altezza da cinque a dieci metri; eccezionalmente un masso, detto la Dame Jeanne, raggiunge i quindici metri d’altezza.
Il gres è una roccia piuttosto liscia e compatta, un po’ porosa, caratterizzata da buchi e vaschette adatte come prese per le dita, mentre i piedi procedono in aderenza. Ebbene i parigini hanno saputo sfruttare questi gruppi di massi in modo formidabile, raggiungendo un livello e una tecnica in arrampicata libera veramente incredibili. Il fondo sabbioso della foresta e la non grande altezza permettono di osare qualunque gesto, poiché in caso di caduta il più delle volte non ci si fa male.
Qualcuno obietterà subito che non è sufficiente essere forti sui massi per definirsi alpinisti completi. È vero, ma con una tale preparazione tecnica, quando si apprende l’uso delle corde e dei chiodi e ci si abitua all’esposizione, il gioco è fatto. Vi è poi da aggiungere un particolare interessante: nel caos dei blocchi ammonticchiati e sparsi qua e là, si sono tracciati dei percorsi di scalata, segnati a seconda dei vari gradi di difficoltà con un dato colore. Il gioco consiste nel seguire il tracciato senza mai posare i piedi nella sabbia e in un tempo il più breve possibile: si raggiunge così un allenamento straordinario anche per il fiato e per la resistenza fisica, potendosi compiere anche mille metri d’arrampicata su terreno costantemente difficile o estremamente difficile. Vi garantisco che, senza un buon allenamento, dopo un paio di circuiti ci si sente quasi sfiniti.
Fontainebleau, o solamente Bleau (come dicono gli scalatori parigini), non è solo una palestra di roccia. A 50 chilometri dall’immensa città, è un vero e proprio polmone, un magnifico campo d’attività per gli scalatori, gli escursionisti, gli amanti dell’equitazione o coloro che vogliono semplicemente ritrovare un po’ di pace e di silenzio.
Riferendosi in particolare all’alpinismo, la scalata a Bleau assume un aspetto di vero e proprio sport, di attività sana e tonificante praticata all’aria aperta e nel profumo della foresta: giovani, anziani, vecchi e donne, tutti si cimentano a seconda delle loro possibilità con i cailloux alti pochi metri. Per alcuni è un modo di tenersi allenati in vista di future imprese sulle Alpi, ma per altri il gioco è fine a se stesso: molti bleausards non hanno mai visto le Alpi. Il week-end trascorso a Bleau è un modo simpatico per praticare dello sport, per intrecciare nuove amicizie, una ricerca di distensione. Per altri un severo banco di prova, condito per i giovanissimi da un vivo sapore di competizione inevitabile in queste condizioni. D’altronde senza competizione e spirito di emulazione non vi sarebbe stata evoluzione nel superamento dei limiti d’arrampicata. È difficile tra i circa trenta centri di scalata di Bleau voler indicare quali siano i più meritevoli di visita. La zona, come avrete compreso, è vastissima. È indispensabile, per chi abbia intenzione di visitare il massiccio, la piccola guida in vendita a Parigi alla sede del CAF in rue la Boétie 7.
Robert Paragot e Cécile (arrampicatrice belga) a Bleau
Nella Guide de Bleau si trovano tutte le informazioni che riguardano la posizione geografica, le varie strade d’accesso e le caratteristiche di ogni centro di scalata. Il gruppo dove si trovano i passaggi più difficili è quello del Cuvier, dove la domenica si radunano i migliori rocciatori parigini: personalmente ho potuto vedere all’opera Patrick Cordier e Claude Deck. La loro abilità e il loro virtuosismo tecnico hanno qualcosa di incredibile.
Ma soprattutto non demoralizzatevi: la valutazione delle difficoltà è severissima, dato appunto il carattere particolare della palestra. Si tenga conto di questa proporzione: un arrampicatore che si trovi a suo agio sul quarto grado del Cuvier, non dovrebbe conoscere ostacoli in montagna e nelle altre palestre. In altre parole il quarto grado di Bleau equivale al sesto grado in parete. Si dice che solo eccezionalmente arrampicatori di rara bravura, giunti per la prima volta a Bleau, siano riusciti a superare passaggi di quinto grado. Quindi ritenetevi già più che soddisfatti se ve la caverete sul terzo grado. Gli stessi Cordier e Deck mi hanno spiegato che alcuni passaggi richiedono giorni e giorni di studio per arrivare alla giusta tecnica che permetta di superarli. Dopo infiniti tentativi e riprove ed essendo naturalmente assuefatti alle caratteristiche della roccia, qualcuno dei migliori riesce a vincere un passaggio: naturalmente, conoscendo la tecnica, ne è più facile la ripetizione.
La perfetta impostazione stilistica di Claude Deck a Fontainebleau
Ancora due parole sull’equipaggiamento. A Bleau si arrampica in pedule flessibili a suola liscia, le P.A. (Pierre Allain) costruite da Galibier. Questo per sfruttare al massimo l’aderenza della suola sulla roccia molto liscia e consumata. Gli specialisti hanno anche un piccolo tappeto per pulirsi le suole da ogni minimo granello di sabbia che renderebbe impossibile l’aderenza, e il pof, un sacchettino pieno di resina in polvere per migliorare l’adesione delle mani e dei piedi sugli appoggi. La tecnica d’arrampicata è molto particolare, a volte estremamente sottile, ai limiti dell’equilibrio; altre volte richiede una presa delle dita eccezionale. In ogni caso la progressione è data dalla rapida successione dei movimenti e da una conoscenza perfetta dei buchi dove afferrarsi; se ci si ferma sull’appiglio in cerca del successivo, il muscolo intossicato dall’affaticamento cede e la caduta è inevitabile. Quindi, prima ancora di attaccare un passaggio, è bene studiarlo molto attentamente dal basso.
Ho detto precedentemente che l’arrampicatore uscito da Bleau deve apprendere la tecnica di scalata in esposizione, le manovre di corda e l’artificiale, insomma – come si dice a Parigi – deve giungere alla sicurezza arrampicando dans l’air.
A circa 200 chilometri a sud di Parigi, poco lontano dall’autostrada che scende verso Lione e nei pressi di Auxerre, sulle rive del fiume Yonne, si eleva una piccola parete rocciosa che al visitatore più frettoloso potrebbe anche passare inosservata. È il Saussois, il regno degli scalatori parigini. Su queste brevi pareti, alte al massimo 60 metri, essi hanno tracciato un numero infinito di vie, varianti e sottovarianti, raggiungendo anche in questo caso un livello tecnico più che notevole in arrampicata libera. La roccia è un calcare giallo e grigio veramente eccellente, ricco di buchi grandi e piccoli, ma avaro di appoggi per i piedi. La caratteristica del Saussois è l’arrampicata atletica che richiede avambracci poderosi e grande decisione. Purtroppo il numero infinito di ripetizioni ha un po’ lisciato e consumato la roccia, soprattutto sulle vie più facili, le più ripetute.
Uno chalet dei grimpeurs di Saussois
Consiglio a chi deve arrampicare al Saussois di avvicinarsi a questa palestra con grande rispetto e di non lasciarsi ingannare dalla valutazione delle difficoltà, che anche qui permane severissima. In genere per ottenere una valutazione reale si deve aggiungere un grado e mezzo.
Robert Jacob sulla 1a lunghezza dell’Amitiée (Saussois) e ritratto subito dopo
Mi chiederete perché una valutazione così pericolosamente severa. Si cominciò ad arrampicare al Saussois negli anni Cinquanta e fu soprattutto Maurice Martin a essere un po’ lo scopritore di questa palestra. Ben presto vennero raggiunti in arrampicata libera i limiti di allora. Fu poi la volta dell’artificiale e furono aperte moltissime vie con uso di chiodi e di staffe; in seguito si provò a percorrere le stesse vie senza usare le staffe, poi togliendo i chiodi ritenuti non necessari, finché si cementarono alcuni chiodi ritenuti indispensabili alla progressione. Facendo affidamento sull’assoluta garanzia data da questi chiodi, si riuscì a percorrere in arrampicata totalmente libera queste vie.
È chiaro che i chiodi cementati vengono raggiunti al limite di caduta, con il moschettone pronto nella bocca: se il capocordata dovesse piantare il chiodo, qualora questo fosse mancante, dovrebbe ricorrere anch’egli all’artificiale. È un modo un po’ artificioso di creare la difficoltà, in uso anche in altre palestre come nelle Calanques, al Baou de Saint Jeannet, al Salève o in Sassonia. Ciò non toglie che i tratti in arrampicata libera tra chiodo e chiodo siano decisamente più difficili delle vie di sesto aperte originariamente in libera. Allora per avere una giusta valutazione si sarebbe dovuto ricorrere al settimo grado, ma per non andar contro l’uso corrente, si è preferito svalutare tutte le altre vie di un grado o un grado e mezzo.
Un istante della traversata Blotti al Saussois
Ma Saussois, oltre ad essere una formidabile palestra, è anche un luogo delizioso, un piccolo angolo tranquillo e silenzioso lontano dalle grandi strade piene di traffico. In primavera i parigini accorrono in massa e si ha un po’ l’impressione di mettere piede in una riserva di caccia. L’ambiente alpinistico parigino è molto unito, ma non manca di straordinaria ospitalità e cordialità verso gli stranieri. L’arrampicata qui assume veramente le caratteristiche di gioco inebriante e magnifico: nella tarda primavera, si arrampica in costume da bagno con il sole che brucia la pelle, e dopo un paio di vie non vi è nulla di meglio di una nuotata nel fiume e di un sonnellino sotto gli alberi con i piedi al fresco nell’acqua.
Due momenti sulla via Super-Jardin al Saussois
Poco lontano dalle rocce vi è una buona trattoria dove si mangia ottimamente e dove è anche possibile ottenere ospitalità per la notte. Gli scalatori parigini si sono costruiti nei boschi attorno al fiume alcune capanne di legno, dei veri e propri chalet in miniatura, dove la sera ci si ritrova a gruppi per cucinare le bistecche sulla brace, bere una bottiglia di Bourgogne e in compagnia delle numerose ragazze, alcune delle quali bravissime, che arrampicano al Saussois, discutere delle grandes courses da compiere in estate sul Bianco.
A conclusione vorrei dire che, malgrado la distanza notevole, dato l’interesse e la bellezza di queste due palestre di roccia francesi, una visita vale sicuramente la pena. Come stagioni le più consigliabili sono la primavera avanzata e l’autunno.
Bleau oggi: Bleau’s Art, Cuvier Merveille (7b). Foto: Christophe Duval.
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Iniziai a leggere la Rivista della Montagna proprio in quel lontano 1974. Che tempi! Allora, agli occhi di un giovane alpinista entusiasta, quelle pagine con timide foto in bianco e nero erano un incanto.
In cantina conservo ancora quelle annate. Ogni tanto me ne porto in casa qualche numero, che sfoglio con nostalgia: manca poco che mi scenda una lacrima sul viso.
Fu così anche con ALP, però – non piú esordiente – in misura un po’ inferiore.
Ma comunque era pur sempre un mondo fatato.
Passarono gli anni… Le due riviste decisero di abbandonare l’aspetto poetico e avventuroso dell’andar per monti per abbracciare quello sportivo e edonistico. L’alpinismo classico praticamente scomparve. Solo arrampicata sportiva, arrampicata monotiro, con uno spit ogni tre metri. Là dove prima c’erano l’avventura e la libertà ora trovavo solo sport e competizione sfrenata. Che tristezza! Io avevo incominciato a salire sui monti per la loro poesia, per l’avventura e la libertà che mi offrivano a piene mani, per la possibilità di realizzarmi sulla base delle mie sole capacità, senza raccomandazioni, favoritismi, ipocrisie. Altrimenti avrei continuato a giocare a pallavolo nel chiuso di una palestra.
Quelle due belle riviste si snaturarono nel corso degli anni e ora non esistono piú: effetto dei tempi moderni. Tutto passa…