Spesso leggiamo commenti di condanna verso chi si è trovato in difficoltà in montagna ed ha avuto bisogno di soccorsi. Ma cos’è la sicurezza in montagna? Come si misura? E come si valuta il rischio? Stefano Michelazzi, triestino d’origine e gardesano d’adozione, è un alpinista e Guida alpina. Uno che la montagna la vive, la ama e la conosce. Con Gardapost collabora sui temi legati alla montagna e all’ambiente naturale. Oggi ci parla di sicurezza e valutazione del rischio in ambiente naturale.
Sicurezza in montagna
(considerazioni di una Guida Alpina)
di Stefano Michelazzi
(pubblicato su gardapost.it il 7 ottobre 2025)
La sicurezza in montagna
Spesso negli ultimi anni si legge di incidenti avvenuti in ambiente montano o per generalizzare un po’ di più, in ambiente naturale.
Le motivazioni possono essere di vario tipo e vario genere, per quanto ci è possibile rilevare attraverso i vari articoli che riportano le notizie.

Una causa piuttosto diffusa, appare la scarsa conoscenza dell’ambiente che si intende frequentare e di conseguenza, sia la pratica di comportamenti a rischio sia l’inadeguatezza dell’equipaggiamento necessario.
A gran voce sui social, si leggono commenti di condanna, commenti di “tuttologia” e ciò che appare piuttosto inquietante, soprattutto per chi l’ambiente naturale lo frequenta da moltissimi anni, è la mancanza di empatia che è sempre stata invece promotrice di mutuo soccorso ed alla base di un atteggiamento quasi fraterno tra i frequentatori.
Soprattutto si legge spessissimo, sia negli articoli stessi, sia negli svariati commenti un preciso termine: sicurezza.
Come si misura la “sicurezza” in montagna?
Ma cos’è questa “famigerata” sicurezza in montagna?
L’enciclopedia Treccani, riconosciuta ufficialmente per essere la più completa, così definisce questo termine: «La condizione che rende e fa sentire di essere esente da pericoli, o che dà la possibilità di prevenire, eliminare o rendere meno gravi danni, rischi, difficoltà, evenienze spiacevoli, e simili».
Il vocabolario, sempre Treccani, sviluppa ancora di più questi concetti, inserendo poi dei riferimenti specifici ad una definizione, che si nota, risulta estremamente generica.
Ciò significa che, si deve applicare questo termine a qualcosa di concreto, altrimenti rimane lettera morta, una definizione assolutamente generica.
Questo porta a comprendere che, accostando due situazioni generiche come sicurezza e montagna (montagna è l’ambiente, non le attività che andremo a svolgerci), non si riuscirà mai a stabilire quali siano le regole (scritte o meno conta poco) ed i criteri di frequentazione che diano una garanzia importante di riuscita e soprattutto di riuscita senza incidenti. Escludendo ovviamente quelle che si possono definire fatalità ovvero rischi non calcolabili a priori.
La valutazione dello stato del rischio
Come professionisti dell’ambiente naturale, veniamo istruiti e ci aggiorniamo poi continuamente nella pratica di quello che viene definito: valutazione dello stato del rischio.
Saper valutare l’ambiente e le sue caratteristiche anche e soprattutto sulla base della propria esperienza, è ciò che permette di abbattere i rischi evidenti,limitando al massimo il fattore di rischio residuo ovvero quella parte di rischi incalcolabili a priori.
Facciamo un semplice esempio: cammino sul marciapiedi ed evito di essere investito. Allo stesso tempo sto attento a non investire io, qualche altro pedone o di sbattere contro ad un palo, poiché magari mi ero distratto a leggere un’insegna continuando però a camminare. Ma se il gatto della signora Rossi inavvertitamente rovescia un vaso dalla finestra che mi colpisce alla testa, ecco che malgrado tutte le mie attenzioni l’incidente si verifica comunque.
In ambiente naturale la valutazione dei diversi e possibili fattori di rischio è una pratica piuttosto complessa che aumenta in maniera proporzionale con l’aumentare delle difficoltà del percorso.
Non si può quindi parlare genericamente di sicurezza in montagna, perché esiste, soltanto se applichiamo questa teoria alle attività che intendiamo svolgere.

Esperienza, attrezzatura e altri fattori
La nostra esperienza personale è la base su cui dovremo stabilire quale percorso scegliere per la nostra escursione, quale abbigliamento sia il più consono, l’orario di partenza sulla base delle ore che si prevede dovremo essere in attività, soprattutto dopo aver consultato i bollettini meteorologici per garantirci, almeno parzialmente, una condizione meteo il più possibile stabile, i viveri che eventualmente saranno necessari e gli eventuali punti di appoggio che potremo incontrare lungo il cammino, ove esistano.
Entrando poi in ambiti ancora più specialistici tipo l’alpinismo, ecco che dovremo valutare anche le attrezzature adeguate e svariati altri fattori.
L’esperienza personale, avviene gradatamente, imparando dalle basi dell’attività che intendiamo svolgere, cominciando quindi dai percorsi più semplici che lascino ampio margine di valutazione dei rischi. E questo in ogni tipo di attività.
Una Guida Alpina sa bene che chiedere informazioni sul posto non è una vergogna, anzi è un arricchimento delle conoscenze personali sui possibili pericoli a cui potremmo andare incontro, a causa magari, di variazioni avvenute di recente e delle quali non siamo al corrente. Ne deriva che la mia esperienza personale aumenta anche grazie alle esperienze altrui. Ovviamente fattore assolutamente importante è chiedere a qualcuno che possiamo considerare credibile e non certo fidarci dei post sui social.
Uno dei maggiori problemi attuali sono proprio le trappole euristiche rappresentate dai social, dove nessuno vuole sentirsi meno di qualcun altro, anzi, e spesso sembra tutto molto facile ed alla portata di chiunque.
Allarmismi e condanne, poi, dettati da pseudo testate giornalistiche, e ve ne sono molte, non fanno altro che creare caos, al fine ultimo di guadagnare click e denaro.
Questi soggetti assolutamente esecrabili, possono e lo fanno, determinare due tipologie ben precise di situazione (altre sono molto più complesse per un articolo di giornale):
- non andare
- andare per sfida
La prima condizione crea una falsa percezione dell’ambiente, che risulta assolutamente ostile con conseguenze diversissime (non saranno prese in considerazione in quanto necessitano preventivamente di studi sociologici).
Si evita indubbiamente l’incidente di un certo tipo ma al contempo, si sponsorizza quell’addomesticamento dell’ambiente che poi, le stesse pseudo-testate, condannano per attirare altri lettori sensibili ad un argomento diverso. (ambientalismo, animalismo, ecc.)
La seconda è in grado di creare schiere di falsi eroi, pronti ad immolarsi all’altare della stupidità. Nel Credo del “Superuomo” falsamente nietzschiano (oggi fortunatamente in fase di rivalutazione filosofica), si imbarcano in avventure delle quali non hanno nemmeno le basi per iniziare.
Ecco quindi che ci ritroviamo in un’epoca di estrema confusione dove, chi è preparato subisce spesso vessazioni da parte del solito “leone da tastiera”, informatissimo sulle baggianate della pseudo-testata, che segue tipo Bibbia, creando senza rendersene conto una contro-cultura nei confronti della fruizione dell’ambiente naturale.
Soluzioni?
Al momento non ve ne sono di rapide e sistemiche (forse bannando certi siti ma si andrebbe contro ad un libertà di opinione che non si può bannare in democrazia…).
La o meglio le soluzioni attuali per coloro che si rendano conto del malfunzionamento del sistema culturale, sono:
- procedere per gradi. Anche se l’”amico del cuore” è più bravo.
- chiedere sempre il consiglio o il supporto di un professionista.
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“Le foto senza casco sono state inserite volutamente”
Non una grande idea.
Parere personale, naturalmente.
“Il rischio di trasmettere un senso opposto in un messaggio esiste sempre. Chi lo riceve deve metterci anche del suo”
Sono d’accordo. Ma chi deve metterci “del suo” per ridurre il rischio di fraintendimenti, è soprattutto chi il messaggio lo trasmette.
Nel caso specifico, potremmo, volendo, fare l’esercizio di immaginare come lettori con livelli diversi di esperienza possano interpretare le foto in oggetto.
Anche se il risultato “dovrebbe apparire ovvio” 🙂
Piccolo spazio pubblicità…
Jingle a scelta tra : Talking Heads o Bob Dylan, Psycho killer o i più audaci Like a Rolling Stone ….
testo parlato;
Non usare filtri per la tua sete d Avventura!
Usa la testa!
Cerchi la sicurezza in montagna?rimani a casa!….OPPURE:
Infilati in un casco DASSOLO*…
infinite varianti personalizzate dal sito,alcuni esempi;
Resistenza ad ogni tipo di roccia compreso il porfido perfido.
Sintonizzazione automatica da radio Barbagia a monte Calvo 2…e ad ogni stazione CNSA e interventi in corso.
Possibilità di preventivi sui costi di elisoccorso in diretta.
Interfono con compagno di cordata disinseribile .
Visualizzazione vie su schermo o opzionale su placca standard.
GoPro e luce frontale incorporate con luci led colorati a scelta.
Possibile funzione “Wilson”per solitarie.
USA LA TESTA! METTITI IL CASCO “DASSOLO”
*nessuna testa alpinistica è stata usata e maltrattata per realizzare spot e casco.
CASCA/ops O DASSOLO …UNA GARANZIA di SICUREZZA ma solo in montagna!seguire norme e avvertenze tenere lontano da bambini e non esperti!non è un giocattolo!
…fine spot.
Alessio, lei è forse un soccorritore pataccato?
Diritto di imporre…..che brutte parole
Seguendo questo ragionamento( ha tutto il diritto di imporre) però potrebbe anche dire state a casa…..
Caro Alesio, personalmente credo invece he con quelò che sborsiamo di sanità pubblica lo Stato abbia il dovere di salvagurdare il cittadino fornendo servizi e non obblighi che ingrassano solo i culi già grassi delle assicurazionoi (private eh…).Detto questo: per chi avesse letto solo una parte di interventi e avesse capito castagne mentre si parlava di spiedo bresciano…Le foto senza casco sono state inserite volutamente per dare senso al discorso dello scritto. Sono senza casco? Cavolo che vista aquilina… lo mettto quando ritengo sia il caso. Perché? Perché se ritengo che sia un materiale non indispensabile lo evito, Invece di alleggerire moschettoni e quant’altro che poi si rompono… rientri di materiali venduti dalle aziende e seppur omologati, risultano non conosoni, ormai si sprecano… , preferisco un moschettone pesante e mettere il casco a volte inutile, solo se valuito che serve.L’articolo si incentra sulla nuova moda (Crovella docet) di sentirsi i promotori del giusto verbo.Secondo questo consesso di esperti le valanghe di qualche giorno fa in Nepal e sullì’Ortles che hanno causato la morte di diverse persone, sarebbero state più caritatevoli se avessero avuto il casco?La risposta è ovvia!Quindi conta di più vestirsi con l’armatura o capire esattamente ciò che si va ad affrontare?Anche questa risposta dovrebbe apparire ovvia, visto che dal medio-evo quando combattevano in armatura, si è scelto di ricorrere ad armatura zero…Meditrare a volte risutla meglio che esternare…
Credo che fino a quando lo stato vorrà garantire il soccorso in montagna ha tutto il diritto di imporre, se lo ritiene giusto, anche l’obbligo al escursionista della domenica di portare con sé il kit arva a luglio sul monte marrone, passo e chiudo
Prima metà anni 80 sulla via Frisch-Corradini alla Pala del Rifugio , mentre salivo da primo gli ultimi tiri, mi arriva una bella sassata in testa fatta cadera da una cordata che ci precedeva. Cordata che si è accorta del fatto, ma visto che ero sempre vivo se ne è fregata, questo per dire evviva la solidarietà montanara. La fortuna volle che mi accorsi del sasso che arrivava e in quel momento ero piazzato bene su un terrazzino, quindi non sono volato di sotto nonostante la botta mi abbia fatto inginocchiare. La prudenza volle che avessi il casco che di sicuro mi ha salvato la vita, ma non ha impedito al sasso di lasciarmi il segno della sua visita con una bella ferita nel lato posteriore subito sopra la nuca. Risultato mi sono riempito di sangue come se mi avessero tagliato la gola, un bello spavento, non è stato semplice uscire dalla via e scendere dalla cima della Pala, discesa non banale e non breve per arrivare al Rif. Treviso. Finale: 4 punti di sutura e un bello spavento a mia mamma quando il giorno dopo mi vide tutto fasciato.
Le osservazioni più inquietanti sul soccorso in montagna sono quelle relative ai suoi costi.
Si potrebbero inserire nel capitolo “mancanza di empatia”, io le inserirei in quello più generale di impoverimento dell’umano, capitolo che comprende il feticismo paesaggistico, animalistico, ecologistico.
Le riflessioni sull’attrezzatura, sulla formazione, sono tecnicismi che non annullano la fatalità, la spostano di quel poco che non basta a annullare il rancore per una esistenza vana e senza possibile indennizzo dei mormoratori contrari al soccorso.
Marcello cos’è che dovrei capire?
Balsamo io non ho nessuna esperienza di foto…..in generale non ho nulla da dire a chi mette il casco in falesia…io semplicemente non lo metto …..non pratico più alpinismo da molti anni… quando lo facevo il casco lo usavo…ma non è quel tipo di sicurezza che mi ha fatto tornare a casa sempre vicine illeso….questo è ultima analisi è il tipo di concetto che volevo condividere con voi
l’unica volta che ho pestato male la testa è stata a casa di un mio amico la sera di una torrida estate. Avevamo bevuto un po’ di birre. Mi sono alzato per andare in bagno, ho avuto un abbassamento di pressione e sono crollato a terra battendo la tempia su un mobile. Da allora vivo in una casa senza mobili.
Parisi al #8:
Fortunatamente non credo proprio, almeno finché l’accesso alle falesie non sarà a pagamento (come sulle piste da sci).
Parlarne è pura accademia… Boh…insomma… Se fosse proprio così non ci sarebbe stata evoluzione nelle varie tecniche/manovre di assicurazione e nella costruzione di materiali sempre più affidabili ( non sicuri, ma affidabili). Che poi in certe situazioni sia l’istinto, l’esperienza, il fiuto, un po di paura e di fortuna a salvarci non ci sono dubbi.
Il rischio di trasmettere un senso opposto in un messaggio esiste sempre. Chi lo riceve deve metterci anche del suo. In questo caso si chiama responsabilizzarsi. Arrampicare mica è obbligatorio.
La sicurezza è argomento talmente vasto e influenzabile che parlarne è pura accademia.
Salire le montagne è attività grezza e brutale. Senza ciò si resta giù.
“Si gira…su se stessi.”
…che, guarda il caso, è proprio la situazione in cui il casco serve di più! 🙂
Il punto è proprio quello che dice Balsamo.
È che se capisci…capisci. sennò si commenta all’infinito restando sul posto. Si gira…su se stessi.
Visto che le cadute su questo tipo di vie sono molto pericolose, con alta probabilità di andare a sbattere la capocchia da qualche parte se non a terra.
Il casco non serve solo a riparare la testa da un sasso, ma anche dalla possibilità di sbattere la testa in una caduta. Ad esempo se ti rovesci in un volo, cosa non così remota.
Quindi in falesia io non lo metto, ma non ridicolizzo certo chi lo mette.
“Sinceramente nei luoghi in cui sono scattate le foto il casco non mi sembra fondamentale per la sicurezza”
Davvero?
Accipicchia, devi essere uno con veramente tanta esperienza per giudicare, da foto dove si vede solo una piccola parte dell’ambiente circostante, se il casco fosse davvero “fondamentale per la sicurezza” oppure no.
Ma il punto non è tanto se nelle situazioni fotografate sarebbe stato meglio usare il casco o no, quanto piuttosto l’opportunità di mostrare immagini in parete senza casco in un articolo che vorrebbe parlare di sicurezza in montagna.
Col rischio, magari, di trasmettere proprio il messaggio opposto a quello voluto.
Avrò anche le visioni ma ho visto decine di video e immagini dove il casco in molti non lo mettono.
E mi sono sempre domandato perchè ?
Il rischio si stima combinando probabilita’ dell’evento infausto e impatto dello stesso. Si puo’ visualizzarlo in una formula ma e’ un concetto molto concreto e direi ovvio. Questo per dire che per quanto rare e ( magari piccole ) siano le cadute di sassi in una parete, il loro effetto sulla cabeza e’ potenzialmente devastante. Auer deve aver ragionato: se mi arriva un pietrone sono fregato comunque – ma se arriva qualcosa di piccolo col casco me la posso cavare. Per Tomatis simile discorso. Un tallone che viene via sul bordo del tetto non e’ ovvio dove proietti corpo e quindi testa. Improbabile in se ( forse ), ma devastante.
Detto questo resta la liberta’ di decidere – personalmente mai usato il casco nelle centinaia di giornate in falesia. Ma di qui a ridicolizzare chi lo fa ce ne corre…
P.S gli inglesi nel trad estremo lo usano eccome il casco…
Se un sasso ti colpisce sul cranio, può sfondartelo. Accade la stessa cosa a un melone che cade dal primo piano.
Sinceramente nei luoghi in cui sono scattate le foto il casco non mi sembra fondamentale per la sicurezza….
Non essendo le conseguenze di una caduta – di sassi su un alpinista o dell’alpinista stesso su sassi o altre superfici dure – trasmissibili, ciascuno, giustamente, adotterà il comportamento che ritiene migliore per mitigarne probabilità ed effetti.
Certo però che trovare, in un articolo che parla di sicurezza in montagna, di attrezzature adeguate, esperienza e tutto l’armamentario, immagini di qualcuno in parete senza casco… dai, fa un pò sorridere 🙂
Considerazione personale, eh.
Gli inglesi quando salgono le loro vie, decisamente pericolose, perchè decisamente sprotette, il casco lo usano molto poco. Avranno la testa più dura della nostra?
Quando Auer fece il pesce in Marmolada senza corda, aveva in testa un casco Edelrid, nota ditta da sempre riconosciuta come fabbricante di corde.
Il casco, a parte la sua utilità del salvare la crapa, è ottimo per gli sponsor perché è visibile e offre spazio per esporre loghi vari.
Da qui, a volte, il suo uso esteso.
Scalare in falesia col casco e assolutamente antiestetico, mi pere che quando Huber fece l hassle brandler slegato in tre cime aveva il casco…..in effetti lui la poteva fare in salita e in discesa quindi la corda non serviva….però un sassolino in testa poteva essere peggio che la rottura di un appiglio…..mah?…..la BD fa un imbrago firmato da Alex honnolds…..che notoriamente non ne usa…..mah?
La sicurezza a mio avviso sta nella preparazione e a volte nella fortuna….
Tanto varrebbe essere già morti e sepolti, così almeno non si correrebbe più alcun pericolo.
Sono andato a rileggere la frase incriminata: è vero che è uscita in modo infelice, ero di corsa, ma il contesto aiutava a comprendere. Il concetto è: per quanto uno faccia le cose a puntino e/o sia un esperto, quando parte deve esser conscio che potrebbe incappare in un eventuale incidente fra le cui cause ci può essere la famosa piccola % imprevedibile, convenzionalmente calcolata nel 5%. Non si punta, quindi, ad avere un modello di sicurezza che ex ante garantisca il 100%, neppure facendo tutte le cose a puntino.
Discorso diverso per chi va in montagna ad minkiam. L’intensità di questo “ad minkiam” varia sensibilmente da un soggetto all’altro: c’è chi ha un approccio “ad minkissima” (cioè al 100% dell’ ad minkiam), chi ce la al 75 % o al 50% oppure ancora al 25%, ecc ecc ecc. Quindi le esposizioni al rischio variano tantissimo (a parità di condizioni della montagna e di it9inerario affrontato) da soggetto a doggetto. Certo è che rispetto a chi fa le cose per benino e quindi comprime al massimo l’incidenza della casualità nelle cause scatenanti gli incidenti, gli altri (quelli dell’ad minkiam) aggiungono quote, più o meno ampie, di insicurezza soggettiva.
Tutto questo mio discorso, fin da stamattina, è per concludere che per me si tratta di due insiemi statistici completamente diversi: le considerazioni sulla “sicurezza” in montagna riguardano esclusivamente quelli che fanno le cose per benino, mentre per gli altri si dovrebbe piuttosto parlare di “insicurezza soggettiva”.
Sì la prima affermazione del 5% non era corretta, ma non è il caso di fare tutte ‘ste scene. Anche perché non credo che il “vero” 5% (intendo quello delle cause che scatenano incidenti) sia stato effettivamente calcolato. Mi pare più un’affermazione filosofica. Il concetto è: per quanto uno si possa preparare a puntino, rimane sempre una piccola percentuale che è legata alla casualità. Avrebbero potuto quantificarla nel 2% o nel 7% o al massimo nel 10%, invece hanno scelto un numero rappresentativo (appunto 5%) per esprime una percentuale “piccola”, solo per codificare il concetto. Di fatti è una convenzione e non credo sia il risultato di misurazioni sperimentali.
Per sandali ecc, basta guardarsi in giro. Mi sembra che tu frequenti le Dolomiti, gli articoli in merito hanno riempito l’intera estate… E poi quanti discorsi si fanno sui recuperi del CNSAS per portar giù gente impreparata, stanca, inadeguata. Le montagne sono ormai infestate dai cannibali e questi sono quelli che non si applicano al fine di prevenire il 95% delle possibili cause di incidenti. Spesso è gente che non si pone neppure i problemi. Ovvio che per questa marea di individui l’esposizione al rischio è maggiore rispetto a chi fa tutte le cose a puntino.
Il casco non è esplicitamente citato nell’articolo, ma oggetto di discussione nei commenti. Rammento solo che da ca. 40 anni è obbligatorio per la guida di motoveicoli e da ca. 20 nel ciclismo professionistico in Italia. Rammento anche che Ambrogio Fogar (in questo blog citato recentemente), Michael Schumacher, Alex Zanardi portavano il casco, eppure ….
A conferma che dai rischi (qualsiasi rischio finché siamo in vita!) ci si può proteggere, ma non si può ridurli a zero. Compreso il rischio di uscita dalla doccia domestica. Per quanto ovvio ogni altra attività ‘meno casalinga’ comporta sempre un alea di rischio variabile. Chiudo per non continuare il triste elenco, da quei ragazzi deceduti ( nonostante il casco) durante gli allenamenti dello sci e quegli alpinisti (non turisti in bermuda e infradito) caduti proprio ieri sotto una valanga himalayana.
Dunque, che il 5% degli incidenti sia dovuto a fatalità può essere (non ho alcun dato per dirlo) ma è cosa mooolto differente dal dire “il 5% delle probabilità ogni volta che si parte.”.
Proprio non c’entra nulla, sono probabilità che fanno riferimento a cose differenti.
Così come il cretino in sandali, che pure esiste, non c’entra nulla con il giudizio sulla frequentazione della montagna e sulla tipologia dei frequentatori.
Sopratutto se la mitologica figura dell’incapace, velleitario e sprovveduto e i giudizi sulla sua pervasività e onnipresenza si fondano su articoli dei giornali e sulle dichiarazioni “a caldo” dei vari esperti.
Come ti ho già dimostrato altrove la frequentazione della montagna, sopratutto in certi luoghi e certe stagioni, è sicuramente più che decuplicata, mentre gli incidenti mortali e i feriti assolutamente no. Quindi semmai sarebbe da sostenere che la capacità e la coscienza dei frequentatori è migliorata sensibilmente.
Continuare a ripetere ossessivamente il vuoto mantra dell’incoscienza e dell’incapacità o che si vuole imporre regole, limiti e patenti (società sicuritaria) oppure che non si è capaci di leggere la realtà e si vive nel rimpianto di una (inesistente) età dell’oro (ai miei tempi, caro lei…)
Bhe le notizia della gente in infradito riempiono i quotidiani, l’estate sc orsa di montagna cafona ne abbiamo fatta un’abbuffata… ve lo siete già dimenticato? . Se non sono infradito sono scarpette da città, o abbigliamento0 inadeguato o assenza di attrezzatura adatta… Insomma chi affronta la montagna come se andasse a correre nel parco cittadino.
Tela 5%: non ho tempo di andare a controllare e in più cito a memoria, ma non è rilevante se sia fondata o meno. Ne ho sentito parlare (a iosa) nei famosi aggiornamenti per istruttori, credo proprio che sia un concetto assodato in tale ambito. Inoltre mi par di capire che si sia compreso una cosa differente da ciò che intendevo dire: il 5% NON è la probabilità di farsi male rispetto alle uscite che si compiono, bensì la % della cosiddetta “fatalità” fra le cause degli incidenti in montagna. Sono due concetti diversi.
Sono un po’ stufo dell’allarmismo, della propaganda e delle fake news in genere.
Del tipo “oggigiorno si leggono cronache di incidenti…gente in infradito…” ecc.
Se si hanno dei numeri si parli di quelli, non di quello che scrivono i giornali che stanno alla realtà come l’astinenza a Rocco Siffredi!
O anche “la cosiddetta fatalità…convenzionalmente si quantifica nel 5% delle probabilità ogni volta che si parte”.
Da dove viene questa convenzione? Chi la userebbe?
Significa che ogni venti persone in montagna c’è un incidente…ma nemmeno su un fronte di guerra sarebbe tollerabile una percentuale così, in capo a 4 giorni dovresti avvicendare qualunque reparto!
Arriveremo al punto che ci diranno quante volte potremo andare a pisciare.
Di questo passo arriveranno al punto di rovinare quello che c’è di più bello in questa attività: la libertà di particarla come ognuno vuole.
Comunque in casa mettetevi il casco, perchè gli incidenti domestici sono numerosi. Sarebbe consigliato anche ai pedoni lungo i marciapiedi, non si sa mai cosa può cadere da finestre e balconi.
Sapete tutti che il casco per tantissimi anni non è stato usato da chi andava in montagna. Oggi è sempre più frequente vederlo anche in falesia. La volta che ho rischiato di più la vita è stato negli anni 90 alla poltrona, a cala gonone, stavo chiacchierando con qualcuno quando un sassone, venuto chissà da dove, è caduto sfiorandomi la testa, senza che avessi il casco, naturalmente. Avrete sicuramente saputo della tragedia di sabato a Rocca Morice… Arriveremo al punto che sarà reso obbligatorio in falesia per tutti, come da quest’anno sulle piste da sci…
Casco sì, casco no… Ha già risposto Marcvello nel secondo commento in maniera appropriata e se si comprende il senso intrinseco dell’articolo, è evidente che quelle foto siano state messe apposta.La sicurezza non è un valore imposto e non dev’esserlo in alpinismo. Non è la cointura di sicurezza dell’automobile per fortuna. La libertà di scelta è ancora il valore fondamentale. La scelta ovvio si debba basare sulla propria esperienza. Dove lo metto il casco su un ghiacciaio piatto (dove in realtà vista l’assenza di crepacci in quella zona anche la corda potrebbe essere superflua) o dentro un canyon monolitico oppure sotto a strapiombi che escono per venti trenta metri?Quale sarebbe il senso? Certo potrebbe cadermi in testa un meteorite… ma in quel caso il casco non che serviorebbe a qualcosa…
5) ecco il paladino della sicurezza che vede nel casco l’autorizzazione a darsi all’alpinismo.
Il casco è utile, ci mancherebbe altro, ma deresponsabilizza chi lo vede come facente parte dell’uniforme del bravo montagnino.
Oggi ci sono gruppi di escursionisti (secondo me totalmente rincoglioniti) che fanno il trek Selvaggio Blu in Sardegna camminando col casco in testa. Mi hanno detto che se ti inciampi e cadi, potresti rompertela. Giustissimo.
Chissà perché in casa non lo mettono?
Vi siete mai inciampati e poi caduti in casa vostra? Tra spigoli, stipiti, ringhiere e vasca da bagno.
Casco per tutti, mi raccomando. In ogni occasione della vita. Che è l’attività più rischiosa che l’essere umano possa intraprendere.
O no?
Buondì, articolo che ho trovato molto interessante, però, proprio perché si parla di sicurezza in montagna, avrei messo foto in cui tutte le persone indossano il casco, altrimenti mi sembre un controsenso
Morti in montagna ce ne sono sempre stati e sempre ce ne saranno: l’alpinismo non è a rischio zero. Non è questo che mi disorienta. E’ il modo in cui ci si è trovati nelle condizioni da cui sono poi derivati effetti drammatici (incidenti) o a volte fatali. L’errore di valutazione capita anche all’alpinista mega-top, di fatti si dice che la cosiddetta fatalità (che comprende anche l’errore umano) è incomprimibile e convenzionalmente la si quantifica nel 5% delle probabilità ogni volta che si parte. Bisognerebbe però arrivare a saper gestire e prevedere il restante 95%. Invece oggigiorno si leggono cronache di situazioni o incidenti che lasciano davvero interdetti: gente che parte per una scialpinistica con rischio 4 o 5, appassionati di cascate che attaccano in presenza di annunciati rialzi termici, escursionisti con le infradito o abbigliamento inadeguato, ecc ecc ecc (l’elenco completo sarebbe smisurato). Così te la vai a cercare: quando c’è un approccio del genere, strutturalmente sbagliato, parlare di “rischio” della montagna è improprio. Il rischio sta nel fatto che l’ambiente naturale non è come un palazzetto dello sport e quindi occorre ragionare in modo profondamente diverso: se non lo capisci, il rischio è “dentro” la tua testa. Per la mentalità che ho, chi, nell’approccio alla montagna, prende lucciole per lanterne mi infastidisce assai. Il secondo motivo del mio fastidio personale è nel modo di ragionare della società sicuritaria, la quale, anziché preoccuparsi (e, la limite, render obbligatoria) la formazione, per incidere sulla mentalità ed estirpare il sopracitato modo di ragionare, invece impone obblighi e/o divieti che NON evitano gli incidenti, ma semplicemente stabiliscono delle regole per attribuire la responsabilità giuridica in caso di incidente. E’ una soluzione ipocrita: appunto non si insegna a sapersi muovere “bene” in montagna, ma per esempio si impone l’obbligo del casco, per cui (a prescindere dalla dinamica dell’incidente) se non lo indossi è “colpa” tua. siccome dagli incidenti derivano spese e, purtroppo, risarcimenti, le regole servono solo ad attribuire l’obbligo di pagare a questo o a quell’altro soggetto.
Parole sagge sulla prudenza, in contrasto con l’ipocrisia dei moralisti che per privatizzare il soccorso alpino vogliono trasformare l’incidente nella colpa delle vittime. A tutti può capitare un incidente, sia pure esperti o attrezzati!
Non mi stupirei se iniziassi a vedere gente che gira in città con il casco. D’altronde è il luogo con il più elevato rischio di caduta di oggetti dall’alto.
Stiamo a vedere chi inizierà.
A parte il recente obbligo di indossarlo per gli sciatori in pista, ho visto di recente un video in cui un fortissimo arrampicatore sale il primo 9ª di Finale indossando un casco da alpinista. A parte che la via si svolge praticamente tutta in orizzontale sotto a un tetto, e quindi una caduta avviene nel vuoto più assoluto, si nota chiaramente che l’atleta indossa il casco per questioni di sponsor. Lo indossa pure durante una specie d’intervista in cui di certo non gli conferisce un’aria molto intelligente. Guardatelo, è su youtube.
A me a fatto pensare subito a due cose:
1) al bellissimo articolo di Jean Affanasieff su una salita della via Eckmair sulla nord dell’Eiger in cui non indossava il casco perché lo trovava antiestetico. Motivo (e articolo) che avevo trovato geniale.
2) che siamo intellettualmente alla frutta!
E io il casco, dove ritengo che serve, lo uso eccome.
La sicurezza non sta di certo nell’usarlo di default come stupidi automi.
Bell’articolo sempre utile. Però nella foto pubblicata vedo proprio il Michelazzi (o così è scritto in didascalia) senza casco mentre fa sicura ad una sosta.