A qualcuno piace marcio!
di Irene Borgna
(già pubblicato su Alpidoc n. 93 (http://www.alpidoc.it/rivista/archivio/93), per gentile concessione)
Mesi fa, davanti a una birra di troppo, nacque il progetto megalomane di intervistare alcuni giovani leoni della scena alpinistica ligure-piemontese. Ma, tra il dire e il fare, di acqua ne è passata sotto i ponti… Un paio di loro, nel frattempo, hanno preso l’iniziativa e la penna e si sono dedicati un articolo da sé. Se fossimo riusciti a menare il can per l’aia ancora per un po’, con un briciolo di fortuna gli altri si sarebbero ritirati a vita privata. Invece, a quanto pare, almeno tre di loro scalano ancora: non abbiamo quindi potuto esimerci dall’incontrarli, con tutto quel che ne è seguito. Ne è nata una chiacchierata con un improbabile trio di liguri verticali, con alle spalle i medesimi maestri, ma capaci di realizzazioni e, soprattutto, di sguardi diversi sull’alpinismo.
Simone Reforzo, Gabriele Canu e Pietro Godani dispersi nella nebbia dopo la ripetizione di Psyco al Monte Pennino, in Val d’Aveto. Foto Archivio Simone Reforzo.
Fin dall’inizio è stato subito chiaro chi fosse l’outsider, per quanto perfettamente mimetizzato secondo l’ormai affermato codice internazionale estetico-alpinistico: barba, occhio spiritato e un irresistibile mix di vestiti a casaccio e capi ipertecnici. Simone Reforzo, ventiseienne savonese rosso di pelo, esibisce un eloquio sconsigliato in fascia protetta e vanta un exploit che gli ha meritato nel dicembre 2015 la ribalta in ambito alpinistico: la prima solitaria invernale in giornata della storica, dura, marcia via Armando-Gogna sulla parete nord dello Scarason, nel Massiccio del Marguareis. La sua Bibbia è il film post apocalittico Fury Road, la sua seconda casa è la palestra d’arrampicata Urban Climb. Fresco del free solo a Finale Ligure su Asgard (7a+), l’enfant terrible si è raccontato davanti a un boccale e in mezzo a una variegata claque di amici.
Simone Reforzo trafitto da una scaglia di ghiaccio caduta dall’alto sul Macrocouloir alla Rocca Bianca, in Valle Varaita. Foto: Simone Reforzo.
Come hai iniziato a scalare?
Quattro anni fa è uscito un corso CAI per diventare istruttore sezionale di arrampicata. Era un periodo brutto: mi ero appena mollato con la fidanzata e vomitavo ogni fine settimana. Il corso mi ha dato due cose: degli amici e un’occasione per redimermi.
Nello specifico, sono Lodovico e Fabrizio a raccogliere quel che resta di Simone e a incoraggiarne l’ascesa, in tutti i sensi: «Quando lo abbiamo trovato, la sensazione è stata la stessa di quando apri una scatoletta di Simmenthal – quel che c’è c’è e ti devi accontentare» commenta Fabrizio in merito al fortunato incontro. «Al Ciappo delle Conche si trascinava sui quinti e catechizzava gli amici vestito da californiano» rincara la dose Lodovico, ma aggiunge: «Aspetto a parte, si intuiva che aveva dei numeri e che avrebbe surclassato i colleghi». Pesantemente sovvenzionati dai servizi socio-assistenziali, i due lo accompagnano a scalare, Lodovico in falesia e Fabrizio in montagna.
Fabrizio Vigo e Simone Reforzo su una sosta di calata al Corno Stella, in Valle Gesso. Foto: Simone Reforzo
Da allora ne hai fatta di carriera: istruttore sezionale e presidente di una palestra d’arrampicata. A che cosa ti dedichi adesso?
Già da un po’ mi piace lavorare i tiri, il che mi ha permesso di fare un bel salto di livello in falesia, dove passo molto del mio tempo. In termini di gradi, che in siti storici come Finale rimangono più che altro un riferimento indicativo, sono arrivato a chiudere a vista vie fino al 7a e sul lavorato fino al 7c.
Il problema è che se sono sul massimale sclero, dando vita a temporanee situazioni localmente incresciose a base via: in questi casi l’unica che riesce a calmarmi in tempi ragionevoli è la mia fidanzata, Denise. E poi, non bisogna sottovalutare le gioie del sesso sotto le falesie…
Sesso, falesie e magnesite, dunque, e una fidanzata in odore di santità: ma quando hai iniziato a fare alpinismo?
In montagna ci vado da sempre e in tutte le stagioni, a piedi o con gli sci. Dal 2012 ho iniziato a scalare su roccia e ghiaccio con i soci di sempre e altri occasionali. Una salita di ghiaccio che ricordo con piacere è una linea glaciale nuova aperta grazie alla conoscenza “mistica” di Fulvio Scotto: il Couloir Denise (Gruppo del Monviso, III/3). Con Pietro Godani ho all’attivo un tentativo alla Fessura delle Streghe (Alpi Liguri, ED) letteralmente finito in merda: ero secondo di cordata e lui si è beccato un improvviso attacco di colite in sosta… La prima vera sfida, però, è stata lo Scarason.
Hai paura a farti un tatuaggio (l’intervistatrice ringrazia caramente gli amici dell’intervistato per questa informazione) e non hai avuto remore a lanciarti in un’impresa come la via Armando-Gogna? Ma poi, perché lo Scarason?
In realtà avevo già fatto un tentativo in autunno, sbagliando in pieno orari e logistica: mi ero calato al secondo tiro cagandomi nelle braghe e avevo deciso di tornare quando avessi avuto il livello. Il 21 dicembre dello scorso finto inverno sentivo di potercela fare.
Perché lo Scarason ? Perché è la Fury Road delle Alpi Liguri: una linea storica e continua su una parete verticale, impressionante, esposta a nord e con una roccia che già di per sé garantisce una bella dose di puro trash. Bella e terribile, ti insegna a godere nel percepire che stai salendo su un rumentaio. A ben guardare, questa avventura è merito e colpa di un amico – Scotto – e del suo libro, Scarason. Anche l’aver partecipato alla realizzazione del film di Angelo Siri, Scarason, l’anima del Marguareis ha fatto la sua parte: è così che ho scoperto il passato di questa parete ed è così che ho capito che se sei assetato di vera avventura, all’ombra del Marguareis la puoi trovare.
Simone Reforzo nei panni del boss della palestra Urban Climb. Foto Archivio: Simone Reforzo.
Quattordici ore e mezza di solitaria lotta con l’alpe, rientro in auto in stato di trance più leggero di quattro chili (che per uno scalatore ampiamente fuori dalla categoria “pesi massimi” è davvero un bel po’), tanta adrenalina in corpo da non riuscire a dormire per poi ritrovarti il mattino successivo a recapitare fatture per conto di tuo fratello: raccontaci la tua “Scarason Experience”…
Dopo un brindisi natalizio con la famiglia più etilico che atletico, sono partito alle tre di notte da Savona per Pian delle Gorre e da lì, il più velocemente possibile, ho raggiunto la base della parete.
Posso solo immaginare quel che hanno dovuto affrontare i primi salitori: oggi chi ripete la via trova chiodi, informazioni e foto su web e riviste… e una roccia per lo meno “bonificata “.
Mi sono assicurato su ogni tiro e dalla seconda lunghezza in avanti ho preferito risalire con lo zaino in spalla per non rischiare l’incastro nei diedri. Ho cercato in ogni modo di esser il più leggero possibile così da tenermi un margine per gestire eventuali problemi che fortunatamente non si sono presentati. Al tramonto ero alla base della Canna Fumaria e da lì in avanti ho proceduto con la frontale accesa, anche se persine la luna mi ha dato una mano… Non è romanticismo: faceva una luce pazzesca!
Il momento più critico è stato la lunghezza sopra il pilastrino: seguendo la descrizione di Massimo Rocca pubblicata su Alpidoc, ho iniziato il tiro dalla grotta e ho fatto il diedro erboso con picche e ramponi fino al pilastrino. Lì mi sono appeso per riposare e rimettere le scarpette. Ho provato a posizionare un hook, ma era più precario di me. Allora ho arrampicato in libera stringendo le tacche per circa cinque metri fino alla banchetta buona descrittami da Pietro Godani e mi ci sono ribaltato sopra: cadere era semplicemente un’opzione non pensabile, che solo l’illusione di avere Denìse in sosta ad assicurarmi ha potuto tenere lontana dalla mente.
L’episodio più pittoresco, invece, è capitato sul famoso terrazzino di cui parla Gogna in Un alpinismo di ricerca: borraccia quasi vuota, sete, niente ghiaccio o neve da sciogliere, e un gel energetico da mandare giù. Non sapevo per quante ore ne avrei ancora avuto né se più avanti avrei trovato da bere, allora ho allungato in “maniera naturale ” la poca acqua rimasta e per berla non mi sono fatto tante domande, tirandola giù come uno shot come direbbe lo scalatore spagnolo Jordi Tosas, Punky style!
Simone Reforzo in un autoscatto, date le circostanze rigorosamente “telefonico”, al termine della Scarason Experience. Foto: Simone Reforzo
Punkecosa?
Punky Reggae Party: è una canzone di Bob Marley che Jordi Tosas ha “adottato”, e io dopo di lui.
Oltre a Tosas, che è pure tuo amico su Facebook, quali sono i tuoi miti alpinistici?
Marc Twight e Ueli Steck sono riferimenti ideali: difficile pensare sul serio di emularli. Parlando invece di esseri umani cui riesci a stringere la mano, ci sono Michele Perotti, la “fiamma” dell’alpinismo cuneese, e Massimo Rocca; al di là delle sue realizzazioni, lui mi piace perché è uno che arrampica, non se la tira e nemmeno cade nel cliché dell’alpinista/asceta che proprio non sopporto. Perché alla fine chi scala si diverte e non fa nulla di utile: tutto il resto è filosofia e retorica. L’arrampicata è una cazzo di figata, provare per credere!
Questo è Simone Reforzo, per gli amici un “fottuto falesista” e un “malefico tiratacche”: politicamente scorretto, linguisticamente disinibito, alpinisticamente una cellula totipotente; capace di diventare qualunque cosa, ma con tutto davanti da fare. Ammesso che ne abbia voglia, visto che, a quanto pare, almeno per il momento non ambisce a passare con tutti gli onori alla storia: «Pensa un po’: ho fatto lo Scarason e mi ricorderanno come quello che ha bevuto il suo piscio».
Pietro Godani (a ds), con Michele Vigevani, alle prese con il Diedro del Mistero sul Sergent, in Valle dell’Orco. Foto: Pietro Godani
Dopo l’intervista ravvicinata del terzo tipo a Simone, il di poco successivo scambio di idee e di impressioni con Pietro Godani e Gabriele Canu è parso per contrasto un raffinato discorrere fra compassati gentiluomini delle vette.
Pietro è nato nel 1987 e ha iniziato a scorticarsi i polpastrelli a vanvera sul serpentino selvatico del Monte Beigua: il suo playground di alpinista odontoiatra si estende fra le Alpi Sud-occidentali e il Monte Bianco, con campagne dolomitiche a colpo sicuro perché «è genovese, lui: con tutti i soldi che spendi per andare fin là, puoi mica tornare a casa a mani vuote», chiosa Gabriele, che di anni ne compie 35 a luglio. Alpinista, esploratore, sognatore, ha girato le Alpi in lungo e in largo e su tutti i versanti scandagliandole alla minuziosa ricerca di quel genere di esperienze che la maggior parte delle persone delega oggi a una qualche forma di intrattenimento mediatico, avendo per sempre rinunciato a viverle: l’avventura, l’amicizia, la condivisione, la bellezza che nasce da quell’equilibrio precario di gesto, rischio e fatica che si prova sulla roccia talvolta poco salda e sempre da proteggere delle vie classiche o delle vie ancora da inventare. I due si conoscono da qualche anno e vantano «poche realizzazioni insieme, ma tutte agghiaccianti», perché, come sostiene Pietro, «ognuno fa le cose che si merita con i soci che si merita».
Gabriele si annoia sulla via Harlin-Robbins alla Tour d’Ai, nelle Alpi svizzere, mentre il socio rantola sul tiro. FotoArchivio: Gabriele Canu
Quando e come avete iniziato a fare alpinismo?
Pietro. Per sbaglio: colpa di un amico toscano che, col malcelato obiettivo di pasturare le femmine, fa un po’ di tutto e tutto male, persino l’arrampicata. Un giorno mi ha invitato e mi è piaciuto tantissimo. Allora ho iniziato a frequentare la palestra di Cogoleto, dove ho conosciuto Serafino, macellaio ed ex obeso, che è diventato il mio socio storico. Poi ho incontrato Andrea Parodi e lì è cominciata la montagna.
Già dal primo anno ho iniziato a fare vie più o meno balorde, trovando sempre lunghissimo: salivo sul sesto in falesia e sul sesto in montagna trovavo eterno. La prima via è stata la Campia al Corno Stella, la seconda la Aste alla Tino Prato. Annovero con orgoglio fra le imprese iniziali e iniziatiche quella di essere sopravvissuto alla “bellissima” Oreste Gastone, una via di quinto sul Marguareis mai ripetuta – e c’era un perché. Ci abbiamo messo ventitré ore dal Rifugio Garelli, sbagliando camino e scampando a stento a una sassaiola omicida: sulla via del ritorno Andrea Parodi, al volante, vedeva camion inesistenti e per andare da Pian delle Gorre a Chiusa Pesio ci abbiamo messo un’ora e mezza. È stato allora che mi sono detto: «Però, l’alpinismo è una cosa che mi piace». Fin dagli esordi qualche puntata sul Bianco l’abbiamo sempre fatta, ma andavo un po’ alla belìn di cane perché non avevo amici forti. Poi ho cominciato a leggere il sito di Canu (www.gapclimb.it), che per me era un mito. Fra me e me pensavo: «Ma questo gruppo GAP (Go Aid a Pitch, ovvero Va’ e tira i chiodi) fa solo vie di merda… le stesse vie di merda che voglio fare anche io!». E un bel giorno ho conosciuto Gabriele a una serata di Hervé Barmasse…
Gabriele. …e ha eliminato GAP dai Preferiti! La prima volta che ho scalato è stato a dodici anni in palestra con Fulvio Scotto, che era il mio insegnante di educazione fisica: sui muri dritti non ne azzeccavo una, in compenso sul diedro ero fortissimo: si capiva già come sarebbe andata a finire. Quando le ho detto che volevo scalare, mia madre ha strabuzzato gli occhi con apprensione, poi mi ha regalato condiscendente il sacchetto della magnesite, dopo di che… ha accuratamente evitato l’argomento per una dozzina d’anni. Quando di anni ne avevo ventitré, c’è stato il vero inizio, anch’esso molto promettente: dopo aver rischiato il bivacco sulla Via del Gufo al Monte Cucco, abbiamo sbagliato sentiero di discesa e persino valle di arrivo: è dovuto venire a recuperarci mio padre in macchina… Dopo un tragicomico corso CAI, durante un fine settimana in falesia a Finale ho finalmente incontrato “il pollo” giusto, Lorenzo Fanni. Ho intuito subito che insieme avremmo potuto fare grandi cose perché c’era feeling, ci capivamo al volo. Infatti, quando gli ho detto che avrei voluto fare lo spigolo nord del Pizzo Badile, mi ha prontamente risposto: «Bello: con chi vai? Poi mi racconti». Abbiamo scalato insieme per anni, nonostante le centinaia di chilometri dì distanza (lui vive a Lugano), condiviso sogni (tanti), sconfitte (poche), bivacchi in parete (un sacco), cioccolate e minestre scadute da mesi (una a weekend), ma soprattutto emozioni che faranno sempre parte di noi.
Informatico, videomaker, grafomane e un po’ poeta, Gabriele ha tenuto fino al 2015 un meticoloso diario on line delle scalate corredato di foto, relazioni e racconti, alcuni di questi forieri di grasse risate e degni davvero di maggior gloria. C’è di tutto: ripetizioni di grandi vie classiche, prime ripetizioni, aperture di linee (s)perdute, qualche itinerario su neve, ghiaccio e in stile moderno. Pietro ha un palmarés meno nutrito ma con più itinerari in alta quota; in compenso entrambi custodiscono nel loro bagaglio alpinistico imprese che hanno impresso il segno.
Pietro Godani impegnato nella prima invernale del Canale dei Monregalesi, gruppo del Marguareis. Foto Archivio: Pietro Godani
Quali sono?
Pietro. Senz’altro la Nord dell’Eiger: una salita anacronistica, lenta, con due bivacchi in parete e uno in discesa, beccando anche un po’ di neve la seconda notte. Senza incontrare anima viva, con la sola eccezione di Ueli Steck in discesa. Rimane l’esperienza più forte che abbia mai vissuto in montagna, quella che mi ha chiesto di attingere a energie che non sapevo nemmeno di avere. L’alpinismo veloce è più sicuro e, a patto di aver un gran livello tecnico, paradossalmente è più facile: se sei lento, infatti, la tua resistenza fisica e mentale viene decisamente messa di più alla prova. Indimenticabile per altri motivi è Tempi Moderni, sulla parete sud della Marmolada, dove ho vissuto appieno la dimensione della cordata a tiri alterni, dove ce la fai solo perché sei in due e l’esperienza ti avvicina al tuo compagno, in questo caso Alice Arata. Come solitaria, quella che mi ha più segnato è stata la Sentinella Rossa sulla Brenva: non è difficile, ma l’isolamento e l’ambiente – una parete enorme con crolli di seracchi che ti fanno sentire piccolo piccolo nella notte – la rendono indimenticabile. Uscito dal bivacco dove dormivo come sardina fra le sardine, ho sentito sulla pelle il freddo perfetto e sono partito alla luce della luna piena: ero nel posto giusto al momento giusto. Quella famosa sensazione che quando non ce l’hai è meglio che porti via il belino alla veloce.
Gabriele. Il Pesce, il “sogno dei sogni”, un altro pianeta dal punto di vista dell’arrampicata e la condivisione dell’avventura con un amico, il solito Lorenzo Fanni, nonostante mille difficoltà logistiche, lui in Svizzera io a Vado Ligure: c’è stato un periodo in cui ho dormito più volte nell’area di servizio Tagliolo Sud che non a casa mia. Supermatita è un altro di quei sogni che non puoi comperare: con il fascino della via dimenticata, della via d’esplorazione, famosa e sconosciuta, che cerchi su Google e non salta fuori niente. Pochissimi chiodi, “gradi Manolo”, un magnifico bivacco in parete, grandi emozioni. Potrei parlarne per settimane. Poi c’è la via nuova aperta con Ettore Alborghetti alle Pale di San Lucano. Stavo sfogliando la “bibbia ” delle Pale quando ho visto la foto di una parete, sulla Quarta Pala: c’erano la Via dei Finanzieri e la Casarotto ai due lati e niente in mezzo. O meglio, una linea ancora da aprire che arrivava fino in cima, 800 metri di parete. Possibile? Ettore consulta anche lui la bibbia (siamo della stessa religione) e mi dà ragione: partiamo per un sopralluogo sulla via di fianco e decidiamo di provare l’apertura durante il ponte di Pasqua. Anticipando il brutto tempo, prendiamo un giorno di ferie e ci vediamo il giovedì sera a Brescia; siamo al parcheggio alle due di notte e tre ore più tardi ci mettiamo in cammino. Mentre saliamo lo zoccolo iniziale (forti dell’odissea della ricognizione, questa volta imbrocchiamo l’attacco giusto), accade l’imponderabile: due bellunesi in quel posto sperduto, a quell’ora assurda, partiti con la nostra stessa malsana idea di apertura – con solo mezz’ora di ritardo per aver dimenticato la corda a casa! Ci siamo messi a correre, divorando i primi due tiri in conserva e bivaccando in parete su un gradino di roccia: ne siamo usciti dopo una maratona d’arrampicata in apertura alle tre di pomeriggio, felici come bambini. Così è nata Attimo Fuggente (ED/ ED+, VII- e A2, R4, 850 metri, venti tiri per sedici ore in apertura). Poi c’è La Vedova Nera in Val di Mello, bellezza e follia: un racconto fra i meglio riusciti del sito GAP. Oppure Feri Ultra – la Via dei Cecoslovacchi – al Picco Luigi Amedeo: una battaglia che manco i Persiani contro i Greci: VIII- in libera, undici tiri, tredici ore e una quantità imprecisata di anatemi.
Pietro Godani sulla Diretta allo Scarason, tentativo solitario invernale (sotto). Foto Archivio Pietro Godani.
Va bene, va bene: si potrebbe andare avanti per ore e rischierebbe di essere pure divertente. Ma adesso limitiamo il campo ai coup de foudre nelle Alpi Sud-occidentali…
Pietro. Sono affezionato al Marguareis, non so come sia potuto accadere. All’inizio mi faceva schifo, poi deve avermi sedotto la trasformazione di quella parete con la neve. Fra tutte le salite, di quelle su roccia non posso non citare la famigerata Fessura delle Streghe all’Anticima nord di Cima Pian Ballaur: erano più di vent’anni che Angelo Siri e Andrea Parodi aspettavano due cret… due audaci che andassero a ripeterla: ci siamo andati Gabriele e io. Personalmente, ai tempi della ripetizione mi ero da poco cimentato sulla Armando-Gogna allo Scarason e, nonostante la Fessura delle Streghe sia lunga la metà, l’ho trovata persino più impestata e impegnativa: la roccia spesso friabile, l’arrampicata sostenuta, l’esposizione incredibile per una parete così piccola e la scomodità di alcune soste la rendono un vero viaggio. Rimanendo sul calcare delle Liguri, mi hanno dato soddisfazione le prime invernali del Canale Nero al Marguareis, della Diretta al Castello delle Aquile, ma soprattutto la prima invernale del Canale dei Monregalesi. Più in generale, dalle Marittime al Monviso, ho fatto delle gran ripetizioni rigorosamente (o quasi) al freddo, perché – è risaputo – le vie belle non sono mai a sud.
Gabriele. Sicuramente la Via Lattea al Corno Stella, perché è un capolavoro di estetica. Dal punto di vista più esplorativo, un segno indelebile lo ha lasciato la via aperta al Pic de Sagneres con Fulvio Scotto e Michele Fanni, R4… all’Avventura, probabilmente la cosa più folle che ho mai fatto in vita mia: sulla seconda lunghezza se cadi non la racconti, le protezioni che puoi mettere nella prima dozzina di metri non reggerebbero un fringuello. Ma per linea, estetica ed etica è un tiro stupendo, dove se metti uno spit diventa un altro sport. Nel 2015 sono salito sull’Asta Sottana con Michele Perotti e Alberto Berloffa a fare una via dimenticata – e se le vie le dimenticano un motivo di solito c’è: l’Eco del Drago, 1100 metri. Berloffa è un grande, Perotti è incredibile: mentre sei lì che gli dai corda veloce pensi: «E che cos’è? Sul terzo?», poi guardi la relazione ed è sesto. Quando siamo arrivati nei pressi della cima, io ho raggiunto la vetta, i miei due soci sono rimasti poco sotto a intonare Se chanto: è stato un bel momento di Marittime!
Pietro rincara la dose su Michele Perotti. Con quella faccia da uno che fa dell’altro, a ventun anni sul Pilier d’Angle dimostrava la maturità di un alpinista cinquantenne: preciso su tutto – manovre, valutazioni oggettive, intuizioni. La sua abilità alpinistica è inversamente proporzionale a quella fotografica: Perotti è con ogni probabilità il peggior fotografo dell’emisfero boreale e di quella avventura in quota mi restano solo scatti a quattro megapixel, storti, in cui ti riconosci solo perché sai che sei tu.
Gabriele Canu sul mitico tiro del diedro svaso lungo la via Attraverso il Pesce in Marmolada. Foto Archivio: Gabriele Canu
Ma a parte la stima, condivisa anche da Simone, per Michele Perotti, se si parla di veri e propri miti, quali sono i vostri punti di riferimento alpinistici, e perché?
Pietro. Marco Anghileri: fortissimo e capace di solitarie in ambienti estremi, ma allo stesso tempo modesto e genuino come pochi. In questo mondo sempre più commerciale e omologato, è stato un esempio di quello che dovrebbe essere un grande alpinista. Tante realizzazioni, poco ego e una volontà e una passione smisurate.
Gabriele. Anche per me il Butch – quell’uomo fantastico che se n’è andato via troppo presto, due anni fa, inseguendo un sogno, e quando ormai lo aveva in pugno. Perché Marco Anghileri era essenziale: scalare e vivere erano semplicemente i due estremi di un’equazione che non lasciava spazio all’autocelebrazione. Un alpinista del suo livello, capace di entusiasmarsi come un bambino a parlare del III+ della Normale al Magnaghi, non so se nascerà mai più. Era l’unico che qualsiasi cosa gli raccontassi, con la sincerità e la naturalezza più grande del mondo, ti diceva: «Eh, ma che bravo, ma che bello!», sorrideva sempre, di continuo, e si metteva a parlare di montagna con chiunque perché la montagna era vita, era libertà. Terzo grado? Quarto grado? Non c’entra! Tu gli facevi i complimenti per la prima libera, in solitaria per giunta, di un tiro duro alle Pale di San Lucano chiedendogli un parere sul grado e lui cosa rispondeva? «Cosa ti posso dire del grado? Non lo so, il tiro si fa: non è facile, non è difficile, è quel che è, ma quel che importa è che è troppo bello scalarlo!». Uno su diecimila, un esempio raro che non dimenticherò mai.
Che peccato: nessuno crederà che non vi siate messi d’accordo sulla risposta, anche se di tempo per farlo ne avete avuto… Come ultimo sforzo, vi chiedo di parlare dei progetti futuri.
Pietro. Sogni ce ne sono sempre: ci sono pareti che sono serbatoi inesauribili di idee balorde. Di sicuro non sarebbe male nemmeno fare una scappata in Patagonia e mi piacerebbe completare la collezione delle tre pareti nord con quella del Cervino e delle Grandes Jorasses, anche se non credo che scalerò sempre con questa intensità. Rimanendo nei paraggi, ho un conto in sospeso con la Diretta allo Scarason: ho fatto un tentativo, ma mi sono ritirato – adesso adotterò la tecnica dell’assedio.
Gabriele. Trovare un equilibrio! E non parlo (solo) di alpinismo. Di fatto da qualche mese ho quasi smesso di scalare: alcuni eventi recenti e uno sguardo più distaccato sul mondo dell’alpinismo, dopo tanti anni vissuti intensamente in prima persona, mi hanno fatto perdere un po’ della voglia di cercare qualcosa in più… almeno in questo ambito. Probabilmente ho realizzato le cose che più sognavo, forse ho raggiunto il mio limite, decisamente ora ho bisogno di altro. Non penso che smetterò mai di sognare e di esplorare, ma ho bisogno di farlo altrove… in avventure di altro genere, in sfide di tipo diverso, in cose che ancora non conosco. Ho allargato un po’ i miei orizzonti montani che erano bellissimi e vastissimi, eppure a lungo andare hanno cominciato a starmi stretti. Se ho qualche salita in programma nei prossimi mesi? Qualche piccola idea per altrettante piccole belle giornate in montagna con gli amici, qualche sogno nel cassetto ad aspettare che tornino la voglia e la grinta, un’amica da sostenere nel suo sogno di salire sul Monte Rosa… e poi ci sarebbe un progetto folle, in un posto folle e con amici folli, per il quale urgerebbe dare una ripassata a come si mettono i friend su terreni disastrosi e frane verticali…
Gabriele Canu sorridente, ma non troppo divertito, sullo Spigolo Strobel alla Rocchetta Alta di Bosconero, nelle Dolomiti zoldane. Foto Archivio: Gabriele Canu.
Simone, il “fottuto falesista” prestato alla montagna, Pietro, con lo sguardo sornione gettato oltre la siepe del gulliverismo, con quella faccia un po’ così che abbiamo noi che abbiamo visto Genova e il Monte Bianco,
Gabriele, il cavaliere errante amico dei draghi, che fa rotta dove c’è ancora terreno fertile per l’avventura perché – per citare Edward Thomas (Wales, 1905) – è solo da lì «che ci rendiamo conto, con una consapevolezza che ci è impossibile quando siamo in città, che il mondo è antico e inquieto, e che la luce, il tepore e l’amicizia sono cose buone». Tre sguardi sulla montagna e sull’alpinismo: disincantato quello del primo, a tutto tondo quello di Pietro «perché lassù l’ambiente, la compagnia e l’ingaggio ti coinvolgono come persona», sognatore e visionario quello di Gabriele. Qualunque sia il profilo che più ci somiglia e ci identifica, finché ci sono simili figuri in circolazione, una cosa è certa: punk and alpinism are not dead.
La copertina di Alpidoc n. 93 da cui è tratto il presente articolo
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Yeah! Se non fossi alle soglie dei 50, la storia dei ragazzi mi avrebbe fatto tornare la voglia di fare alpinismus… 😀