A un amico, Paolo Armando (GPM 024)
di Gian Piero Motti
(pubblicato su Rivista mensile del CAI, settembre 1971)
Io non ho mai visto la parete nord del Mont Gruetta: la immagino una parete tetra, forse un po’ opprimente, indubbiamente bella. Simile forse alla Nord delle Grandes Jorasses: ecco sì, mi hanno detto che ricorda molto la parete nord delle Grandes Jorasses.
So che molti hanno tentato di salire questa parete, nomi famosi, uomini di grande valore. Ma tutti hanno fallito: forse la cattiva qualità della roccia, forse le cadute di pietre, chissà, un bel giorno vedrò anch’io quella parete.
Ora so soltanto che quella parete ha ucciso Paolo Armando. Lo ha ucciso, perché penso che Paolo non sarebbe mai volato in arrampicata, difficilmente avrebbe commesso un errore: era bravo, molto bravo, sicuro e soprattutto molto intelligente.
Una parete lo ha ucciso, come ha ucciso Gervasutti, Comici, Couzy e tanti altri, bravi, fortissimi, che mai sarebbero volati.
Perché sai che un giorno questo gioco così bello potrebbe anche finire.
Premiazione a Paolo Armando, Terrazza Martini, Genova, 18 gennaio 1968
Me ne parlò un giorno, mi disse che sicuramente era un grosso problema; ci soffrì parecchio quando seppe che Gogna e Cerruti avevano attaccato la parete, la scorsa estate: quella è gente che non scherza, il “suo” problema sicuramente era in pericolo. Ma non fu così.
È strano come dopo la salita invernale della Nord-est del Badile, Paolo avesse raggiunto una forma di alpinismo più matura, più pacata, più serena. Sempre ad altissimo livello, ma senza quell’accanimento, senza quella sorta di rabbia che caratterizza un buon numero di alpinisti, tesi disperatamente a far collezione di salite.
Aveva fatto molte salite, il più delle volte in compagnia di Silvana Bellini, brillante compagna di cordata, all’altezza di ogni situazione. Arrampicava per divertirsi, per godere la montagna. «I motivi che mi spingono verso l’alpinismo sono l’amicizia, l’avventura e la contemplazione»: con questa frase soleva concludere una conferenza che aveva preparato negli ultimi mesi della sua vita.
E chi si aspettava da Paolo una conferenza ricca di polemiche, di sarcasmi, chi attendeva una serie di diapositive allucinanti scattate su per gli strapiombi e placche immani, si era sbagliato. Vedemmo sì gli strapiombi, i passaggi estremi, ma soprattutto vedemmo l’anima vera di Armando, scoprimmo finalmente tutta la sua sensibilità: i paesaggi invernali, i fiori, i volti degli amici, gli alberi, il limpido sorriso di Silvana e quel suo viso un po’ incomprensibile, quel suo aspetto da intellettuale un po’ in bolletta.
Strana, brutta estate è stata quella. Estrema variabilità del tempo: bello in genere al mattino, temporali violenti e intensi verso sera. Ogni giorno così. Si aspettano uno, due, tre giorni, poi si pensa che sicuramente il tempo migliorerà: sperare è umano. Una notte bellissima, una meravigliosa stellata, ecco finalmente il tempo è bello.
Veloci salgono la parete, la parte più difficile, più rischiosa, è vinta. Ma improvvisamente mutano le condizioni del tempo, sono su un grande pendio di neve e devono bivaccare, lui e Andrea Cenerini, ancora una volta insieme, come in tante altre salite.
Nella notte il maltempo si scatena, ormai per domani non vi è nulla da fare, bisogna scendere, ritornare con tante corde doppie, bagnati, fradici. Ma non è la prima volta che succede, certo ora al disgusto si unisce anche la delusione.
Paolo è sceso e aspetta Andrea su un piccolo terrazzo. Scende Andrea. Cosa sia successo non lo sapremo mai, sicuramente cede l’ancoraggio della doppia: è un attimo. Andrea precipita, forse Paolo tenta di trattenerlo e viene travolto, forse era autoassicurato alla doppia, forse lo stesso Andrea lo ha travolto… forse… Li hanno trovati alla terminale, quattrocento metri più in basso. Una tragedia rivissuta in un attimo.
Lunga e bella è la valle che scende dal Badile fino alle case di Bagni di Màsino: non l’avevo mai vista e ora mi entusiasma, alterna paesaggi severi e grandiosi ad angoli di intima e delicata bellezza. Forse saranno le luci del crepuscolo, anche il tempo è bellissimo, ma tutto mi sembra più bello: oggi è stata una giornata felice, abbiamo salito la Nord-est del Badile, Vincenzo Pasquali e io, rincorrendoci a ogni lunghezza di corda; eravamo in forma, siamo giunti in vetta quasi senza accorgercene. Bellissima è stata l’arrampicata, mai estrema, sempre molto elegante: sovente il nostro pensiero è tornato ai giorni dell’invernale, abbiamo capito quale doveva essere il loro procedere, le difficoltà enormi incontrate, abbiamo avuto una prova del valore degli amici.
Bagni di Màsino, una sera come tante, poca gente, pace, silenzio. Un albergo con molte persone eleganti che ci guardano un po’ di traverso: siamo sporchi, stanchi, forse puzziamo di sudore.
Un foglio di giornale, una fotografia, una notizia su tre colonne. Questo basta a dire che un uomo ha concluso la sua vita, questo è bastato a farci capire che l’architetto Paolo Armando era morto sul ghiacciaio del Triolet, dopo un volo di quattrocento metri.
Innumerevoli volte ci trovammo in montagna insieme e insieme compimmo anche alcune salite. Come sempre succede, la macchina dei ricordi si mette in movimento solo quando una persona non c’è più ed è difficile fermarla: i ricordi vengono isolati, ingigantiti, poche frasi divengono un aneddoto, un romanzo, di una vita si fa un mito. Ma io non voglio questo, non voglio deformare la personalità di Paolo, dicendo di lui tutto il bene possibile ed esaltando tutte le sue doti. Io voglio ricordare Paolo così come era, come siamo noi, con dei difetti e delle qualità.
… Ti ricordi quella sera d’inverno davanti alla “piola” di Pinerolo? C’eravamo proprio tutti quella sera, avevamo trascorso una bella giornata insieme alla Sbarua, ad arrampicare. Cantavamo, ci sfottevamo a vicenda, eravamo un po’ su di giri, forse anche per qualche bicchiere di troppo. Poi tu prendesti il maglione a mo’ di muleta e cominciasti a fare il matador con le macchine che scendevano dalla statale del Sestrière…
… E quella sera alla sede del CAI in via Barbaroux? Eravamo i soliti, le solite discussioni sul chiodo, sulla staffa, sul grado in più o in meno; il solito Carlaccio che balzava da un lato all’altro della sala, afferrando chiunque con mosse da lottatore e scaricando una valanga di insulti e di improperi. Poi all’improvviso entraste tu e Silvana, sembravate piuttosto felici e, certo, lo eravate: vi eravate sposati da una settimana.
I vostri abiti erano un po’ anticonformisti: un paio di logori e sdrusciti pantaloni di tela, dei sandali aperti, una camicia che ben si accordava ai pantaloni… Non c’era da stupirsi, d’altronde ti ho sempre visto con la stessa giacca per tanti anni, detestavi gli atteggiamenti cosiddetti “borghesi” e anche le tue idee politiche erano tese al marxismo, con una punta di anarchismo.
Regnava l’allegria quella sera. Poi tutti assieme scendemmo in piazza Castello, come sempre, e, fra una battuta e l’altra, cominciammo ad arrampicarci su per i pilastri dei portici, fra gli sguardi attoniti dei passanti. Su, Gian Carlo Grassi, tu, io, Mike Kosterlitz, al primo, al secondo piano, finché temendo un intervento delle forze dell’ordine, preferimmo… fare la bandiera sulle paline dei segnali stradali…
… Ti ricordi quella volta che stavi tentando di aprire una via nuova sulle placche gialle alla Sbarua? Da più di un’ora stavi cercando di chiodare un’enorme lama staccata strapiombante, ma da un po’ eri fermo e non riuscivi a salire. Ammettilo, via, stavi “trovando un po’ lungo”. E noi tutti radunati a guardare il “papa” prossimo al momento della sconfitta.
La parete nord del Mont Gruetta. A destra, la parete nord dell’Aiguille de Leschaux
E allora, certo ti ricorderai, Silvio ti gridò: «In Dülfer, Paolo, attaccati in Dülfer!». La tua risposta non la posso trascrivere…
… Un giorno decidesti di andare a ripetere la via di Appiano allo Sperone Rivero in Sbarua e ti fidasti della relazione tecnica riportata sulla mia guida. Non sapevi però che l’ultima lunghezza di corda ti avrebbe riservato delle sorprese: quando la guida fu pubblicata la via non era ancora stata terminata, ma spiaceva lasciare una lacuna. Allora Appiano mi promise di concludere al più presto la via e giudicò così, “ad estimo”, il tratto mancante: A1 e IV.
Si sa che non tutte le promesse vengono mantenute… arrivasti all’ultimo chiodo a pressione e poi, diamine!, la relazione diceva A1 e IV! Mi disse poi Fredino Marengo che fu una delle poche volte che ti vide bandare senza remissione, solo tu sai come riuscisti a uscire da quella fessura orizzontale.
Ma la tua vendetta fu terribile, a lungo ci tormentasti con polemiche e insinuazioni maligne…
Memorabile fu la polemica della “Fissure Brown”. Scusa, ma ne devo proprio parlare. Un giorno tu e Gianluigi Lanfranchi, il Puméla, andaste per ripetere la via Brown sulla parete ovest dell’Aiguille de la Blaitière: avevi già superato la celebre “Fissure Brown”, pare utilizzando i numerosi cunei infissi, e poi, non si sa bene perché, ritornasti indietro. Destino volle che alcuni giorni dopo tre amici torinesi andassero per ripetere la stessa via alla Blaitière: gente forte, allenata, eppure, prova e riprova, nessuno di loro riuscì a superare la fessura. In tutta la spaccatura non si vedeva un solo cuneo, eppure avevano detto che c’erano! I tre tornarono piuttosto avviliti al campeggio e tu, qui, desti inizio al tuo show, insinuando con arti assai sottili che i tre non erano passati perché, è chiaro… non erano in grado di passare!
Dio mio, come si trascinò e come degenerò la cosa! Un po’ di colpa va anche attribuita a tutto l’ambiente torinese che sobillava assai le due fazioni, riuscendo così a divertirsi alle spalle degli interessati. Furono persino scritte poesie, furono composte canzoncine, sempre sul tema della “Fissure Brown”! Qualcuno insinuò persino che i cunei li avevi tolti tu, scendendo, e forse non si poteva dargli torto, data la tua fama di inesorabile schiodatore in palestra e in montagna…
Potrei continuare a lungo, ma non farei che rivivere fatti e sensazioni che forse solo per me hanno un significato. Devo però parlare di Paolo Armando come alpinista, poiché la sua attività merita un discorso a parte.
Ho sempre ammirato in lui il perfetto arrampicatore in salita artificiale: ultimamente, però, Paolo mi disse che si era stancato dell’artificiale, che questo tipo di progressione portava a un controsenso, a un annullamento dei veri valori etici dell’alpinismo, a un ammorbidimento del coraggio e della grinta dell’alpinista. Condividevo in pieno le sue idee: solo nell’arrampicata libera resta l’avventura, quindi cerchiamo di spingere ai massimi livelli il modo più normale di arrampicare.
Fedele ai suoi criteri, Paolo cercò di perfezionarsi al massimo nell’arrampicata libera: progrediva con estrema sicurezza, chiodava pochissimo e mai dava l’impressione di essere impegnato. D’altronde i tempi eccezionali in cui ha salito alcune fra le vie più difficili delle Alpi (non per niente lo si identificava con il “Gruppo Sorpassa e Travolgi”), dimostrano le sue capacità veramente fuori del comune.
L’elenco delle salite compiute da Armando è impressionante: si può dire che annoveri tutte le vie più belle e difficili delle Dolomiti, un gran numero di salite di estrema difficoltà nel gruppo del Bianco, prime ascensioni, prime invernali. Basterà citare la Nord-est del Badile in prima salita invernale, la Nord del Cervino, la parete ovest dell’Aiguille Noire, la Nord delle Grandes Jorasses, il diedro Philipp alla Civetta… Un’attività alpinistica completa e imponente, che lo aveva fatto membro prima del Gruppo Alta Montagna di Torino e poi socio del Club Alpino Accademico Italiano. Scherzosamente, come sempre, diceva di essere membro del Gruppo Basse Colline e… dell’Epidemico Italiano…
Gian Piero Motti sullo Strapiombo Rosso di Traversella. Foto: Vincenzo Pasquali
I suoi compagni di cordata?
Alessandro Gogna, con cui aveva formato una delle cordate più forti d’Europa, Ettore Pagani, Fredino Marengo, Silvio Sandri, Ilio Pivano, Silvana Bellini e Andrea Cenerini.
La parete nord delle Grandes Jorasses lo aveva profondamente deluso: si attendeva da essa un’avventura intensa, completa, un impegno totale. Perché per tutti la Nord delle Jorasses ha un fascino particolare, a tutti ha qualcosa da dire.
Invece vide sulla parete cordate e cordate di gente assolutamente impreparata, non all’altezza delle difficoltà della salita. Così lo sperone ne risultava violentato, superchiodato, imbrigliato da corde e cordini. No, non era quella la Walker che aveva sognato.
Hai lasciato un vuoto, lo stesso vuoto che scopro il giovedì sera aprendo la porta del CAI, lo stesso vuoto che ho letto sul volto di Ilio, di Fredino, di tutti. Perché, anche se ogni tanto ci “beccavi”, anche se ogni tanto ti divertivi a creare la polemica, ebbene, eri una spinta, uno stimolo, una presenza.
Dicono che noi alpinisti siamo strani di carattere, che sovente cambiamo di umore con la facilità con cui il vento muta di direzione durante la giornata.
È proprio così.
Tutti si divertono, regna l’allegria e la spensieratezza e tu, all’improvviso non ridi più, non appartieni più a quell’ambiente.
«Che cos’hai?» ti chiedono. «Nulla» rispondi, d’altronde non si potrebbe spiegare.
Ma certo, è la consapevolezza della bellezza e dell’inutilità di questo gioco, certo è il chiedersi se veramente ne valga la pena, dove porterà questo gioco, che sempre di più ti prende la mano.
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Ero compagno di scuola di Paolo. Ci siamo laureati insieme. Dopo tutti questi anni lo ricordo ancora con grande affetto, per la sua personalità un po’ scontrosa e per la grande allegria con gli amici. Ricordo ancora le sciate spensierate in neve fresca!
Anche da noi la Sezione del CAI era il ritrovo degli alpinisti. Ci si trovava volentieri a fare due chiacchiere e bere un bicchiere alla sera del giovedì in piazzetta Cavour dalla Catina. Poi il CAI è cambiato anche perché è cambiato il mondo attorno.
Oggi si parla meno di attività verticale ma molto di tutto il resto (ambiente, ragazzi etc etc). Probabilmente è giusto così o forse no. Non voglio con questo sminuire l’importanza di tutti questi argomenti, ma ormai l’attività verticale è diventata una parte solo marginale del CAI. E’ sufficiente leggere la Rivista per capirlo.
Dino Marini
Vorrei avere più notizie su Fredino Marengo, se possibile. Grazie.
Paolo
Scrittori di montagna sono in genere grandi alpinisti ma che con la scrittura in qualche modo si barcamenano, più spesso ne sono vittima. Da lui sempre e solo prosa impeccabile; si sarebbe guadagnato un posto anche nella letteratura.
Conservo una copia della Rivista che pubblicò questo articolo di Motti. Ho arrampicato con Paolo ai tempi del rif. Porta di Ezio Scetti: con Paolo – e Giammaria- feci anche lo Spigolo Vinci al Cengalo (anzi, tutta la cresta sud, perché Paolo si era sbagliato, e avevamo “attaccato” 7 tiri più in basso dell’inizio dello Spigolo..). Certo, erano anni in cui il CAI in Galleria era luogo di incontro..; ma forse è solo la nostalgia dei 20 anni ( sono del ’42 come Paolo); o il rimpianto di tanti amici che non ci sono più: Ettore Pagani, Carlo Ciceri, Leo Cerruti..Comunque, grazie Alessandro.
Renato Bresciani
Che bello e vero lo scritto di Gian Piero. In molti degli episodi accennati c’ero anch’io. Quante discussioni al giovedì sera, in via Pietro Micca, in strada perché dalla sede CAI ci avevano buttati fuori per chiusura. A volte si facevano le 2 di notte tra chiacchiere, progetti, polemiche. Sulla Nord del Greuvetta ci sono stato con Isidoro Meneghin per tentare una nuova via che però non ci stava ed uscimmo per la via Boccalatte. Una parete tetra che non è piaciuta, forse per quell’alone di tragedia che mi ricordava.
Quanta nostalgia di questi tre amici, tutti più giovani di me, che non ci sono più.
Si capisce che il CAI di quegli anni era un ritrovo di Alpinisti.