Ventotto anni fa si è spenta Loulou Boulaz (6 febbraio 1908-13 giugno 1991), una delle più grandi alpiniste di tutti i tempi. Partecipò da protagonista alla “corsa” per la Nord delle Grandes Jorasses, ma firmò anche moltissime altre prime ascensioni. Silvia Metzeltin tracciò un ritratto della grande alpinista ginevrina in occasione della sua scomparsa. Lo riproponiamo oggi, festa della Donna.
Adieu Loulou
di Silvia Metzeltin
(pubblicato su Rivista della Montagna, aprile 1992)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(3)
Queste righe non nascono solo dal rimpianto per la scomparsa di una delle maggiori protagoniste in assoluto dell’alpinismo, che ho ammirato fin dalla giovinezza. Per oltre vent’anni, grazie ai lunghi periodi trascorsi insieme da Jeanne Franco a Chamonix, ho potuto godere del privilegio di un’amicizia e di una complicità confidenziale in età matura con lei. Ora provo la spinta interiore per trasmettere agli altri – non per agiografia ma in appoggio alla storia – almeno qualche frammento di una biografia che Loulou stessa non ha mai voluto scrivere.
Loulou Boulaz e Raymond Lambert alla Cabane de Leschaux (1935)
Genève
Loulou Boulaz non venne segnata tanto dai rigori della città di Calvino, quanto dall’apertura internazionale che in più campi Ginevra ha sviluppato in questo secolo. Ancor prima che dalla città di Ginevra, tuttavia, venne influenzata dalla
situazione familiare. Il padre era un carrozziere, spesso disoccupato; la madre, maestra, aveva perso il posto di insegnante con il matrimonio (1) e per contribuire al mantenimento della famiglia gestiva un caffè. La consapevolezza delle difficoltà derivanti da ristrettezze economiche e il senso dell’ingiustizia sociale furono indubbiamente fattori scatenanti per una passione di impegno politico che è stata il vero filo conduttore della sua vita.
Dopo gli studi commerciali, grazie alla sua intelligenza viva e penetrante e alla conoscenza delle lingue, Loulou ottenne un lavoro giornalistico al Palazzo Federale di Berna; ma perse l’impiego durante la seconda guerra mondiale per la sua militanza politica nella sinistra, maturata dopo le simpatie anarchiche dell’adolescenza. L’appartenenza all’area di sinistra la portò in seguito al BIT (il Bureau International du Travail) di Ginevra, di cui divenne funzionario e dove lavorò convinta e con dedizione fino al pensionamento. Loulou Boulaz si sentì sempre profondamente svizzera, eppure il fatto di essere stata una cittadina senza diritti politici fino al 1971 le ha impedito di seguire la sua vocazione, cioè di abbracciare una carriera politica.
Un’eccezionale foto inedita: da sinistra, Giusto Gervasutti, Loulou Boulaz, Raymond Lambert e Renato Chabod dopo la “corsa”alla parete nord delle Grandes Jorasses (luglio 1935)
Alpinismo come sport
Loulou Boulaz raggiunse ancor giovane la notorietà nello sport. Fece parte dal 1936 al 1941 della squadra nazionale svizzera di sci e vinse i campionati di Francia nel 1936 e 1937. Nei suoi successi nello sci e nell’alpinismo si può scorgere un parallelo con quelli della sua grande contemporanea Paula Wiesinger, che pure toccò negli stessi anni il vertice nelle due attività: ambedue furono discesiste coraggiose, varie volte anche concorrenti fra loro in gare internazionali, ambedue partecipi da protagoniste di quel periodo d’oro dell’alpinismo che furono gli anni ’30 senza quasi lasciarne testimonianze scritte. Ma penso che i paralleli, a parte la fermezza di carattere, si fermino qui. Contrariamente alla maggior parte degli alpinisti suoi contemporanei, Loulou nutriva poco interesse per la dimensione romantica dell’alpinismo. Non avrebbe mai voluto vivere in montagna, e non perse mai una giornata di lavoro per un’ascensione. Per lei l’alpinismo era fondamentalmente uno sport, uno sport di avventura e di competizione, che ha determinato la sua vita in profondità, ma senza travalicare il confine del tempo libero. Del resto le piacevano tutti gli sport e l’estetica di qualunque disciplina l’affascinò per tutta la vita.
Dal Salève al Monte Bianco
La Ginevra alpinistica ha costituito per più generazioni una punta avanzata nel panorama dell’alpinismo in Svizzera. Basta ricordare qualche nome: Roch, Dittert, Aubert, Gréloz, Bonnant, Dreyer, Lambert, De Rham, Tissières, Wyss-Dunant, Erica Stagni, poi Michel e Yvette Vaucher, Bron, Gamboni, accanto a
numerosi altri. A Ginevra, Egmond d’Arcis ideò l’UIAA, che vi ebbe la sede dalla fondazione nel 1932 fino al 1985, fornendo quattro dei cinque presidenti, ultimi dei quali Jean Juge e Pierre Bossus. Il quotidiano La Tribune de Genève aveva una rubrica di alpinismo e vi lasciò la sua impronta per lunghi anni Guido Tonella, il propugnatore della “cordata europea”, al quale l’opzione per l’Italia aveva procurato non pochi grattacapi e qualche antipatia, ma che seppe collegare molti fili internazionali nell’alpinismo e in particolare nell’UIAA. Per tutti, il punto di incontro e di allenamento era il piccolo gruppo calcareo del
Salève, alle porte dell’abitato, con oltre cento itinerari di cui alcuni fino a 180 metri, mentre il gruppo del Monte Bianco – visibile dal lungolago della città – costituiva il terreno d’azione privilegiato.
Festival dei Diablerets 1986: Riccardo Cassin, Loulou Boulaz, Anderl Heckmair
Loulou Boulaz crebbe in questo ambiente e ne fu partecipe, pur restando – soprattutto agli inizi – in certo qual modo un po’ al margine. Perché donna, perché di estrazione sociale diversa da quella della maggior parte degli altri e deliberatamente più vicina a un gruppo di alpinisti operai. Del resto il Club Alpino Svizzero allora non ammetteva donne e ci furono problemi (alla cui soluzione contribuì la scrittrice ginevrina Ella Maillart) anche per formare la squadra femminile di sci.
Dal Salève, Loulou si diresse ben presto al Monte Bianco e spesso in cordata femminile con Lucie Durand le due donne salirono il Dente del Gigante, la Dent du Requin e l’Aiguille du Peigne, traversarono i Grands Charmoz… e pare che ciò a certi alpinisti maschi desse così fastidio da indurli a negare alle due donne il riconoscimento di queste ascensioni anche quando le avevano seguite di persona. Campionessa nello sci, Loulou raccolse in pieno anche le sfide alpinistiche degli anni ’30. Si interessava dei grandi problemi, voleva passare all’azione senza mezzi termini. La sua difficoltà consisteva nel trovare un compagno che fosse alla sua altezza e che avesse l’apertura mentale per scalare con una donna. Lo trovò in Raymond Lambert, di cinque anni più giovane di lei, che già pensava di lasciare il lavoro di giardiniere per quello di guida alpina. Ma siccome voleva poi vivere di quest’ultimo, anteponeva – con grande dispetto di Loulou – le ascensioni con i clienti a quelle en amateur con lei.
Loulou Boulaz ( a sinistra), Silvia Metzeltin e Nicole Niquille (la prima donna svizzera diventata guida alpina), al Festival dei Diablerets del 1986
Nel 1935 fecero insieme la terza salita della parete nord dell’Aiguille du Pian e arrivarono terzi nella famosa “corsa” alla parete nord delle Grandes Jorasses, dietro Gervasutti e Chabod. Loulou si ritenne in seguito offesa per alcuni commenti scritti al riguardo di questa terza ascensione sulla stampa alpinistica francese e, oltre alla sua avversione per varie forme di élitarismo (2), dev’essere stata questa un’ulteriore ragione per rifiutare un’ammissione al GHM (Groupe Haute Montagne francese). Tuttavia negli anni ‘70, grazie alla mediazione di Jeanne Franco, ci fu una cordiale spiegazione e rappacificazione fra Loulou e Lucien Devies (che l’amicizia per Gervasutti aveva probabilmente distolto allora dall’abituale equità nei giudizi). Nel 1935 sfuggì alla cordata Boulaz-Lambert un’altra “prima” di prestigio alla parete nord del Petit Dru, e i due si dovettero accontentare della “seconda” nel 1936.
Con la seconda guerra mondiale e la chiusura delle frontiere, i ginevrini non poterono più recarsi nel massiccio del Monte Bianco e si dedicarono soprattutto alle grandi montagne del Vallese. Loulou si unì in quegli anni a Pierre Bonnant e il legame andò oltre l’alpinismo. Loulou e Pierre avevano già compiuto insieme nel 1938 la quattordicesima salita della via della Sentinella al Monte Bianco e tracciato nel 1939 un itinerario sulla Nord del Mont Vélan. Aprirono nel 1940 una via nuova diretta sulla parete nord dello Zinalrothorn, nel 1941 una sulla parete settentrionale del Grand Cornier, un’altra sulla Nord del Mont Durand nel 1942. Compirono nel 1944 l’ottava salita alla Cresta di Furggen sul Cervino: capanna Hörnli, ore 4; vetta, ore 12.15; capanna Hörnli, ore 14.30… Naturalmente in week-end breve da Ginevra.
Dopo la guerra, Loulou e Pierre ritornarono nel gruppo del Monte Bianco, che prediligevano: 1949, un’altra volta la Nord del Petit Dru e la terza ascensione della Poire. Non è possibile citare, né le conosco tutte, le decine e decine di altre salite: ricordo l’Aiguille Verte per la parete nord e la cresta Sans Nom, la cresta sud del Fou, la parete sud della Meije, le invernali al Grépon e all’Aiguille de Bionnassay. Nel 1952 Loulou Boulaz e Pierre Bonnant intrapresero un’ascensione che doveva incidere profondamente sui loro destini. Si trovarono in due cordate a compiere la quindicesima salita della via Cassin alle Grandes Jorasses: un maltempo eccezionale li costrinse a un primo bivacco a tre quarti d’altezza, a un secondo ancora sotto la vetta, a un terzo in discesa. Tutti ne riportarono congelamenti più o meno gravi. Loulou perse due falangi delle dita dei piedi, ma a Pierre Bonnant (come a Raymond Dreyer) i piedi vennero amputati quasi per intero. Bonnant si dedicò poi alla vela, ma l’alpinismo per lui si era chiuso. La vela invece a Loulou non interessava, mentre l’alpinismo e lo sci rimasero un’esigenza inderogabile della sua vita. La conseguente incrinatura del rapporto affettivo divenne forse inevitabile, ma in ogni caso il modo in cui si spezzò bruscamente dopo tanti anni fu un duro colpo per lei. Come per cancellare la delusione, Loulou distrusse perfino i suoi diari (3). Penso che proprio per questa ragione nessuno sia mai riuscito a convincerla a scrivere un’autobiografia e di lei ci rimangono solo pochi récit de course sparsi.
Loulou Boulaz a La Floriaz, sopra Chamonix
Cho Oyu amaro
Claude Kogan era arrivata sul Cho Oyu fino a 7700 metri nel 1954. Dopo una decennale esperienza extraeuropea sempre autofinanziata, vista l’impossibilità di essere ammessa a partecipare a spedizioni maschili, nel 1959 mise in piedi una spedizione femminile internazionale (4) per raggiungere la vetta del Cho Oyu. La spedizione finì in tragedia quando il campo più alto, a 7000 metri, venne sepolto da una valanga e vi morirono due sherpa, Claudine Van der Stratten e la stessa Claude Kogan. A posteriori si può forse dire che l’eccellente forma fisica della cordata di punta abbia portato involontariamente ad accelerare i tempi, trascurando l’acclimatamento del gruppo, considerata anche
la quota già elevata del campo base a 5600 metri. Loulou Boulaz fu la vittima illustre del mancato acclimatamento e dovette scendere, per riprendersi, dal campo II fino a Namche Bazar.
A parte la vetta mancata e la morte delle due compagne, Loulou ebbe anche l’amarezza di un infelice sfruttamento giornalistico della sua sfortunata vicenda personale, e il Cho Oyu restò un’esperienza di cui non parlava volentieri. Si può comunque considerare come eccessiva, sproporzionata alla reale entità dei fatti, la sensazione di sconfitta personale che ne trasse. Nel 1965 partecipò a una spedizione del gruppo ginevrino “Androsace” nel Caucaso, ma più delle montagne le interessò in quel viaggio poter vedere di persona la situazione dell’Unione Sovietica, e del resto i risultati alpinistici dell’intera spedizione furono modesti.
Loulou Boulaz (a destra) e Silvia Metzeltin sulle montagne dell’Air (1977)
La longevità sportiva
Loulou Boulaz tornò ad arrampicare sul difficile: nel 1960 al Pertuis in Savoia e alla parete nord della Cima Grande di Lavaredo (via Comici; con lei salì anche Raymond Dreyer nonostante le amputazioni ai piedi). Loulou si era sentita da
sempre vicina ai giovani e patteggiò anche per loro fino ai suoi ultimi giorni: quando le mancarono i compagni della sua generazione, li trovò in quella successiva, e in particolare compì parecchie ascensioni con Yvette e Michel Vaucher. Insieme tentarono nel 1962 la parete nord dell’Eiger, dovendo ridiscenderne nel maltempo quando già avevano raggiunto la “rampa” a tre quarti di altezza. Tornare vivi da quell’inferno non fu cosa da poco e in fondo sarebbe da valutare più di un’ascensione compiuta. Ma a Loulou dispiacque molto non averla portata a termine – era stata nei suoi programmi nel 1937, l’aveva tentata nel 1960…
In cordata con Yvette salì nel 1969 per la via Cassin al Pizzo Badile. Ricercava ancora le grandi classiche e arrivò anche alla via di Comici allo Jalovec nelle Alpi Giulie. Nel 1977 partecipò con noi a un viaggio di due mesi nel Sahara, dove compì diverse scalate e portò anche a termine vie nuove nel massiccio dell’Air (fra cui la prima ascensione di una bella torre che battezzammo con il suo nome: “Tour Loulou”) e, nell’Hoggar, sulla Garet El Djenoun.
In pensione dopo l’età regolamentare svizzera di 62 anni, Loulou divise poi a lungo le sue giornate fra corsi universitari di storia e sociologia, lo sci in ogni
stagione, le arrampicate al Salève. Nella storica palestra ginevrina si incontravano di nuovo i “grandi” pensionati della sua generazione. La vita aveva smussato diversità e forse anche incomprensioni, ma non si trovavano solo a parlare di ricordi. Continuavano a scalare quanto rimaneva alla loro portata.
Loulou “la Rouge”
Così Loulou “la rouge” – non tanto per il colore quasi immancabile del maglione quanto per le idee politiche – si mise in cordata con Georges De Rham, il grande matematico vodese scomparso anche lui l’anno scorso (c’è perfino un teorema che porta il suo nome, ma fra gli alpinisti è noto soprattutto per la sua dedizione al Miroir d’Argentine, di cui scrisse un’ottima guida). Non che Loulou avesse cedimenti ideologici: quando veniva invitata a cena nella grande casa borghese di De Rham, pretendeva che la cuoca mangiasse a tavola con loro e non da sola in cucina. A parte questi lati aneddotici, Loulou aveva una cultura politica molto vasta, di taglio mondiale, e non si era limitata alle situazioni di campanile come succede di frequente nella democrazia svizzera. Ma aveva radicata la convinzione della militanza: ancora sulla settantina, faceva volantinaggi e partecipava alle manifestazioni. Durante uno degli ultimi festival di Trento al quale prese parte, si unì spontaneamente a un corteo di manifestanti per le strade di Trento, spiegando poi agli alpinisti stupiti che l’accompagnavano tutte le sue ragioni. Tuttavia, nonostante la sua propensione per i giovani e tutte le cose moderne, Loulou era molto riservata. Sensibile, amante di letture impegnative e di musica colta, aveva il piacere di stare in compagnia ma sapeva mantenere le distanze. Spesso erano solo i suoi occhi – quei vivaci occhi verdi dai riflessi azzurri – a tradire le sue emozioni. Gli ultimi anni non furono interamente sereni. Un grave incidente con gli sci mise fine alla sua attività sportiva. Poi dovette rinunciare all’automobile, lei che aveva avuto il gusto della velocità e la passione per le Alfa Romeo. Rimase sempre più sola nella grande città, benché gli amici alpinisti non si scordassero di lei. Con la fierezza di carattere che contraddistinse tutta la sua vita, cercò di nascondere fino all’ultimo le sue difficoltà e i suoi acciacchi. La morte l’ha colta, oso dire liberata, quasi un anno dopo il suo ricovero in extremis in una casa di riposo.
Da sopra a sotto, Jeanne Franco, Loulou Boulaz e Silvia Metzeltin sul calcare della Provenza (1974)
Nella storia delle donne
Non credo che si possa considerare Loulou Boulaz come esponente di un alpinismo femminile dalle caratteristiche proprie: è stata protagonista del grande alpinismo tout court, ai massimi livelli sportivi di un’epoca, in autonomia di iniziative e di realizzazioni. Con ciò si distaccava certamente dalla maggioranza delle sue contemporanee pur brave, sia che praticassero l’alpinismo nel rapporto guida-cliente (per esempio Sylvia d’Albertas), sia che ricercassero le cordate femminili (come Alice Damesme, Micheline e Nea Morin). Anche negli scritti di altre donne – non solo di uomini – le viene generalmente fatto torto in questo senso: raramente le donne stesse hanno saputo riconoscere e accettare questa differenza. Penso che la “marcia in più” di Loulou Boulaz avesse le sue radici nella concezione sportiva dichiarata e nella consapevolezza politica. Il suo femminismo era battagliero e Loulou non ha mai pianto – pur riconoscendoli e combattendoli – sugli inevitabili handicap di partenza delle donne: si era inserita di slancio con tutte le sue forze e la sua intelligenza nella competizione sportiva come nella vita professionale. Penso inoltre che, contrariamente ad altre donne alpiniste eccezionali ma per nulla femministe come ad esempio Claude Kogan, Loulou sperasse nel suo intimo anche di essere di esempio e di sprone a numerose donne delle generazioni successive. Ma personalità di questo livello vengono difficilmente capite e seguite dalle masse. Così, presumibilmente, il destino storico di Loulou “la Rouge” resterà quello di costituire una personalità di riferimento, un motivo di riflessione soltanto per una piccola avanguardia di donne. E se personalmente ciò mi pare purtroppo quasi scontato, per lei, per la sua memoria, vorrei che questa sottile beffa del destino avesse un giorno ad esaurirsi o a ribaltarsi; vorrei che molte donne, alpiniste o arrampicatrici o sciatrici che siano, sapessero riconoscere in Loulou Boulaz la figura d’eccezione che ha agito non solo per se stessa ma anche per tutte le altre.
Note
(1) Disposizione di legge in vari cantoni svizzeri.
(2) Accettò solo di divenire socia onoraria del Ladie’s Alpine Club inglese.
(3) Volle tuttavia salvare la storica fotografia pubblicata in questo articolo, che regalò molti anni più tardi a Gino Buscaini.
(4) Partecipanti: Claude Kogan (1919-1959), Jeanne Franco, Colette Le Bret (medico), Micheline Rimbaud (cineasta, francese); Claudine Van der Stratten (belga); Loulou Boulaz (svizzera); Dorothy Gravina, Eileen Healey, Margareth Darval (inglesi). La spedizione venne autofinanziata, ma al ritorno i servizi giornalistici pareggiarono i conti.
bellissimo articolo,che mette in evidenza le grandi doti alpinistiche e umane di questa donna.
Complimenti all’autrice e a chi ha riproposto questo articolo che ho trovato bellissimo.
Non avevo mai visto la fotografia dei quattro al ritorno dalla nord delle Grandes Jorasses. È un documento storico.
Ora, dopo avere letto non so piú quante volte i racconti che ne fecero Chabod e Gervasutti, posso anche associare nella mia mente quelle parole al volto di quegli alpinisti nel fiore della loro giovinezza, appena reduci dalla grande avventura.
Questi contributi alla storia dell’alpinismo sono STUPENDI!
Continuare cosí! È un ordine!
Un come lei abituata alla nord del Dru, alla Poire, alle Jorasses , come poteva vivere in una casa di riposo.
Un vero esempio di “letteratura di montagna”. Un testo scritto molto bene, per contenuto e intensità, da una grande alpinista nel ricordo di un’altra grande alpinista.