Alle origini del piolet-traction
(versante nord dell’Aiguille du Plan)
di Dino Rabbi
Salita compiuta il 22-23 luglio 1978 insieme a Roberto Bianco, tempo impiegato 30 ore.
(pubblicato su Scandere 1978)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(3)
Il versante settentrionale dell’Aiguille du Plan, per chi lo osservi dal bacino glaciale della Blaitière, appare come una enorme muraglia di una ripidezza eccessiva, coronata da pinnacoli, e fiancheggiata sui lati da due picchi che, come gigantesche ali, avvolgono e ne racchiudono il corpo centrale. Così è apparso a me e a Roby, come nel 1892 era apparso a Ellis Carr dal quale ho tratto l’impressione iniziale, traducendola al meglio dal racconto pubblicato sotto il titolo Due giorni su un pendio di ghiaccio su Alpine Journal vol. XVI. Ellis Carr, Albert Frederick Mummery e William Cecil Slingbsy poterono fare le considerazioni riportate quando, recatisi alla base di questo maestoso versante, tentarono di salirlo direttamente. Erano stati preceduti però nel 1800 da un’altra cordata, quella di John Baumann, che aveva raggiunto la Brèche du Caïman aggirando sulla sinistra la grande placca triangolare visibile da Chamonix e dopo un bivacco era poi ripiegata per la stessa via di salita senza aver raggiunto la vetta dell’Aig. du Plan, ma compiendo però una impresa straordinaria. La cordata di Baumann — bisogna dire — era formata da uomini come Émile Rey e Andreas Maurer. Ciononostante Mummery e i suoi compagni ritenevano che si potesse far meglio; inoltre erano dell’opinione che la stessa via fosse troppo pericolosa per la massa di neve che incombeva sul solo colatoio che porta al ghiacciaio sospeso della Blaitière. L’altra obiezione sollevata dagli inglesi era che la via aveva origine molto distante dalla verticale calata dalla vetta e il percorso, come si poteva apprendere dalla relazione del Baumann, poteva suggerire tutto tranne una progressione rapida in direzione della stessa. Tutte queste nozioni storiche erano però a me (e credo anche al mio compagno) solo parzialmente note quando il 22 luglio 1978, giunti alla fine del ghiacciaio della Blaitière ci interrogavamo su quale delle due vie fosse preferibile far cadere la scelta per accedere al ghiacciaio superiore e di lì seguitare poi per il couloir Lagarde. Si trattava cioè di scegliere tra il percorso compiuto dalla cordata di Mummery, ripreso in tempi recenti da Jean-Marc Boivin, e quello di Baumann. lo propendevo per il secondo in quanto vedevo, dalla posizione dove eravamo giunti, che, salvo il tratto sicuramente impegnativo costituito dalla barriera di ghiaccio, e però abbastanza corto, non dovevano esserci grandi difficoltà; mentre invece per la via Mummery sembrava alquanto problematico raggiungere i pendii di ghiaccio superiori. Impressione rivelatasi esatta, alcune settimane più tardi, a seguito di una esperienza fatta dal mio compagno di cordata in compagnia di Michele Ghirardi quando, nel tentativo di ripetere la via Gaston Rébuffat e Lionel Terray al Col du Caïman, furono costretti al bivacco in questa prima sezione della parete. Questa mia preferenza veniva da quel poco che sapevo della parete: poco, però abbastanza per capire che se due alpinisti del calibro di Walter Cecchinel e Claude Jager, che nel 1972 compirono la prima ascensione invernale e prima ripetizione del couloir Lagarde, avevano preferito questa soluzione a costo di attrezzare il salto con 250 metri di corde fisse — pur considerando che si trattava di una salita invernale — bisognava concludere che sicuramente l’altra via non era uno scherzo. D’altro canto la ripidezza dei pendii di ghiaccio sovrastanti il colatoio percorso da Mummery nel tentativo del 1892 aveva indotto il medesimo e i suoi compagni ad affilare le «armi» prima di avventurarsi sulla parete: come risulta dalla descrizione fatta dal già menzionato Carr, essi trascorsero il giorno precedente il tentativo ad affilare le loro piccozze, operazione che, con tipico umorismo inglese, definirono fastidiosa e difficile a causa della deformità della mola «ostinata a tracciare nel vuoto strani e complicati cerchi privi di ogni regola tanto da costringerli ad abbandonarla per ricorrere alla lima del lustrascarpe dell’Hotel»!

Il Caïman: a sinistra il couloir Rébuffat-Terray al Col du Caïman; a destra la parte centrale e inferiore del couloir Lagarde-Ségogne. Foto: Roberto Bianco.
Naturalmente sul posto tutte queste considerazioni non furono espresse: sostanzialmente credo che le minori difficoltà e la prospettiva di rimanere per un po’ al sole ci indussero a scegliere come via di accesso quella che si svolge inizialmente sui fianchi rocciosi della Blaitière. Ora, poiché si pensava di attaccare i pendii superiori della parete verso le due di notte, occorreva regolare la marcia per trovarsi al momento propizio all’inizio della seraccata, passarla, e con i primi chiarori affrontare la fascia rocciosa sottostante il couloir vero e proprio. Il salto iniziale e le successive placche tagliate da un sistema di cenge ascendenti che portano all’inizio del canale fiancheggiante la seraccata risultarono abbastanza facili tanto che giungemmo velocemente alla fine di questo primo tratto. Con a disposizione un buon chiodo di assicurazione, sdraiato su di una cengia comoda, spaziosa e ben soleggiata, tenevo sotto costante osservazione la seraccata per capire quali erano i possibili pericoli, ma per tutta la durata della sosta (che fu lunga) non vidi che una continua colata di neve fradicia precipitare attraverso una breccia e scomparire nel vuoto. Sul fianco della seraccata che dovevamo percorrere non si mosse assolutamente nulla, cosicché posso dire di aver impiegato queste ore in una distensiva contemplazione.

Nel tratto mediano del couloir. Foto: Dino Rabbi.
Di questo stesso luogo Terray, nel racconto della prima salita al Col du Caïman, rende un quadro selvaggio dove «tutto appare immenso e terribile. Perduti nell’ombra di queste grigie e fredde muraglie siamo assaliti dall’angoscia, ci sentiamo piccoli e soli ritrovando d’un colpo la modestia che avevamo dimenticata». Senza voler mostrare alcuna superiorità, il che sarebbe anche fuori luogo, ho cercato fin qui di rendere percepibile quale influenza abbia il trascorso storico di una salita su chi ne tenta la ripetizione, e come occorra saper discernere le informazioni spogliandole di quella parte sensazionale della quale alle volte sono rivestite. Bisogna considerare che i mezzi, e soprattutto il trascorrere del tempo con le realizzazioni che si susseguono, possono cambiare la forma mentale dell’alpinista e conseguentemente i suoi stati d’animo, mentre le pendenze e l’ambiente non mutano.

L’elegante tracciato del couloir Lagarde-Ségogne alla Brèche du Caïman. Foto: Roberto Bianco.
Al primo imbrunire attacchiamo il canale; uno spostamento iniziale verso il centro della seraccata, poi un rientro che porta sotto un muro pressoché verticale ma a balze, superato il quale, è con la luce della pila frontale che affrontiamo l’ultimo salto a ridosso delle rocce. Poi la pendenza si abbatte. Corda alla mano camminiamo tranquillamente nella notte verso la crepaccia terminale che solca grandissima tutto il pendio. Dopo una lunga sosta, verso le due dopo la mezzanotte ripartiamo: il pendio in neve dura e ben ramponabile ci permette di salire questo primo scivolo abbastanza velocemente. Al suo termine iniziamo la zona di misto. Questa è costituita da una serie di diedri paralleli separati da dei liscioni tondeggianti e impercorribili così che è tassativo imboccare quello giusto, l’unico che permette di raggiungere l’inizio del canale. È ormai nostra consuetudine commettere qualche errore all’inizio di ogni salita. In questa occasione riusciamo a infilarci nel diedro sottostante quello buono. Dopo alcuni tiri di corda su terreno misto sempre più impegnativo, il nostro diedro tappezzato di ghiaccio va a morire contro un salto. Si interrompe così la linea naturale di salita. Pensiamo per un momento di tentare una dülfer disperata di alcuni metri per raggiungere una zona di placche, ma anche queste ci appaiono problematiche. Dubitando di riuscire ad entrare nel couloir, esaminiamo le possibili alternative. Il couloir Reynier proprio di fronte a noi al sole, è senza dubbio la soluzione più allettante. Ma non siamo convinti a rinunciare: troppo affascinante è l’incognita di questa salita che dal 24 luglio del 1926 è stata percorsa solo da cinque o sei cordate e soprattutto vogliamo vedere quel famoso tratto di ottanta metri che richiese quattro ore di incredibile lavoro a Lagarde.

Nella parte superiore del couloir. Foto: Dino Rabbi.
Come afferma Lucien Devies in una corrispondenza con Roby, Lagarde era considerato uno dei migliori ghiacciatori della sua epoca e senza dubbio quello più evoluto nell’uso dei ramponi. Anticipatore della tecnica del piolet-traction aveva messo a punto una piccozza con il becco inclinato, leggermente curvo alla sua estremità, diverso cioè come profilo dalle piccozze dell’epoca, come le Grivel in particolare. La tecnica d’uso era quella, grosso modo, dei nostri giorni, con la differenza che Lagarde lavorava con entrambe le mani su un solo attrezzo. Questo straordinario ghiacciatore in compagnia di Jacques de Lépiney ed Henry de Ségogne nell’agosto del 1924 aveva forzato per la prima volta il versante nord della Plan. Partito sulle tracce di Baumann raggiunge la Brèche du Caïman e prosegue poi attraverso i pendii sottostanti la cresta nord-est del Crocodile e perviene alla vetta della Plan. Vi ritorna nel 1926 questa volta con il solo de Ségogne e nel tentativo di raggiungere il colle della Blaitière realizza, suo malgrado, un exploit che ha tutte le caratteristiche delle moderne salite di ghiaccio estreme. Il couloir percorso sarà chiamato «des efforts perdus» dallo stesso Lagarde e sulla Guida Vallot si può leggere come l’apertura di questo itinerario è il risultato di un errore: i primi salitori si proponevano di raggiungere il colle della Blaitière ma sui pendii soprastanti il ghiacciaio pensile, impediti a dirigersi a sinistra, si videro costretti a salire il couloir. Non potendo ridiscendere essi lo salirono, senza chiodi e con ramponi a dieci punte ben inteso. Lagarde negli ottanta metri più ripidi taglierà nel ghiaccio, oltre agli appoggi per i piedi e alle nicchie come appigli per le mani, delle cavità per evitare lo sbilanciamento causato dall’alzata delle ginocchia. È il limite massimo raggiunto dalle possibilità dell’epoca per l’impegno totale richiesto in assenza di ogni assicurazione.

Nonostante l’autorevolezza della fonte informativa a me piace immaginare che Lagarde e il suo compagno in quel lontano 1926 abbiano volutamente tentato di salire, riuscendovi, questo affascinante solco glaciale.

Nel couloir Lagarde ai Droites
Tornando più modestamente a noi, avevamo intravisto una possibile soluzione: scendendo di una trentina di metri, attraversando poi verso destra, si poteva raggiungere un altro diedro, forse quello buono, quello che la relazione definisce di terreno misto con un passaggio di V superiore. Infatti così è. Il passaggio in questione è costituito da uno sbarramento della via di salita che ripete la situazione nella quale eravamo precedentemente incappati, con la differenza questa volta di poterlo superare abbassandosi prima a sinistra su una placca per poi uscirne in piolet-traction su di una esile lingua di ghiaccio sino a raggiungere e seguire una rampa che raccorda finalmente con il couloir. Stretto tra due granitiche pareti a liscioni, repulsive, stupefacente a vedersi nella sua vetrosa lucentezza, senza alcuna rigola che lo solchi, più che un canale assomiglia ad una colata di ghiaccio, particolarmente nel tratto centrale dove, appena sotto la cresta sommitale dello sperone di destra, un rigonfiamento tondeggiante ne accentua considerevolmente la pendenza. Sono i 160 metri più impegnativi della parete. Su di essi passiamo con tutto l’armamentario tecnologico moderno: un chiodo di assicurazione ogni dieci-quindici metri, due alle soste, piccozza e marteau-piolet, ramponi a quattordici punte, due corde! Il pensiero di Lagarde su questo pendio, affidato al solo senso dell’equilibrio, privo di ogni assicurazione è, se mi si concede l’aggettivo, agghiacciante. Superato questo tratto crediamo di essere fuori. Non immaginiamo neanche quanto sia impegnativo quello di misto. Si tratta di 130 metri costituiti per lo più da diedri separati da zone di rocce rotte bloccate dal ghiaccio, ma mentre nelle zone rotte il ghiaccio ci favorisce, nei diedri la sua presenza è causa di situazioni delicate. In uno di questi mi è capitato di vivere un momento di panico quando la sottile crosta di ghiaccio sulla quale stavo arrampicando è crollata sotto i miei piedi. Naturalmente, come in qualsiasi racconto drammatico dove la suspense è enfatizzata da un particolare che esaspera la situazione, così nel mio caso l’unica fettuccia che ero riuscito a sistemare attorno ad uno spuntone alla base del diedro, con lo scorrere delle corde era venuta via. La manovra che ne seguì per uscirne non sarà stata delle più ortodosse sicuramente, però raggiunse lo scopo: per superare i due metri che mi separavano dalla colata di ghiaccio che riprendeva ininterrotta più in alto, usai il marteau-piolet come punto di trazione conficcandone il becco nella fessura del diedro.

Andavamo ormai verso la Brèche du Caïman. Ad un cambio Roby osservò molto realisticamente che al Col du Plan saremmo arrivati a notte. Poco dopo lo vidi illuminato dal sole scomparire dietro la cresta.
Alla Brèche un po’ di sosta, primi commenti, una lattina di birra scompare senza lasciare apprezzabili sensazioni di ristoro. Sbirciando sul versante d’Envers de Blaitière vediamo la possibilità di disimpegnarci velocemente con alcune allucinanti corde doppie. Preferiamo il lungo diagonale sui ripidi pendii sottostanti la cresta nord-est del Crocodile per i quali si raggiunge il Col du Plan. Sono ancora altre quattro o cinque ore di intenso impegno, su un terreno per nulla banale che percorriamo nella quasi totale oscurità essendo la luce delle pile frontali ormai esaurita. Le nocche delle dita doloranti per il continuo pestaggio contro il pendio ad ogni colpo di piccozza, la stanchezza, ma soprattutto il sonno contribuiscono a rendere interminabile questo finale. In piena notte sbuchiamo sul sciistico Col du Plan. Si interrompe così, dopo circa trenta ore, quello stato di continua tensione e anche quel sottile rapporto metafisico stabilitosi con l’artefice della salita al couloir «des efforts perdus»: Jacques Lagarde.
Pur distanti nel tempo le parole scritte da Carr nel 1892 di ritorno dal tentativo alla parete mi appaiono come conclusive: «Malgré le risque qu’il y a à prédire que quelque temps s’écoulera avant qu’on découvre une voie facile sur la face nord de l’Aiguille du Plan, j’ose faire cependant cette prophétie».

Versante nord dell’Aig. du Plan: 1a) couloir Lagarde-Ségogne 1926 – 1b) variante Cecchinel-]ager 1972 (più logica) – 2) via Baumann alla Brèche du Caïman 1880 – 3) tentativo Mummery 1891 completato da Maurice Davaille 1951 – 4) via Lagarde-Lépiney-Ségogne 1924 – 5) variante d’attacco Boivin 1976. Foto Tairraz.
Le tre più belle vie di Jacques Lagarde
di Roberto Bianco
1) Aig. du Plan 3673 m – couloir Lagarde-Ségogne
1a ascensione: Jacques Lagarde ed Henry de Ségogne, 24-25 luglio 1926.
1a invernale: Walter Cecchinel e Claude Jager, 27-28-29 dicembre 1972 (2a salita).
1a solitaria: Jean-Marc Boivin, 11 giugno 1976 (4a salita).
Dislivello: in totale 1000 m circa (tra 2670-3673 m), canale vero e proprio 300 m.
Difficoltà: magnifico e complesso itinerario di grande «envergure». TD+ (Vallot ed. 1978, pag. 14). La seraccata inferiore può essere più o meno pericolosa secondo le annate e i crolli. Un passaggio di V+ sbarra l’accesso al canale, i cui 80-100 m più ripidi sono paragonabili per inclinazione al tratto più duro del couloir Chaud al Pelvoux o della via degli Svizzeri ai Courtes. La lunga traversata sui pendii glaciali della Aig. du Plan non è da sottovalutare.
Materiale: il meglio da ghiaccio. Molto utili i chiodi conici per il ghiaccio «blu» (colato).
Itinerario: (dalla Vallot ed. 1977, tomo II, itinerario 77 e 77a): dalla stazione di Plan de l’Aiguille 2310 m raggiungere il ghiacciaio di Blaitìère: percorrerlo tenendosi dapprima al centro, poi a sinistra. Risalire di 30 m un canale nevoso che scende dal versante ovest della Blaitière e pervenire a delle cenge ascendenti a destra; seguendole si giunge ai piedi della barriera di seracchi. Superare al meglio questa seraccata e raggiungere il ghiacciaio sospeso di Blaitière; traversarlo fino alla crepaccia terminale superiore (ottimo bivacco, 4-5 ore) sotto la verticale del Col du Caïman. Alzarsi di 120 m in terreno misto (un passo di V +, itinerario dei secondi salitori) per infilarsi nello stretto couloir che scende dalla Brèche du Caïman, molto ripido (64° di pendenza media): il couloir Lagarde-Ségogne. Risalirlo (160 m in ghiaccio, 130 m in misto) fino alla Brèche du Caïman (8 ore). Di qui attraversare al meglio pendii di ghiaccio e neve molto impegnativi, interrotti da sporgenze rocciose, fino alla cresta spartiacque tra il Crocodile e l’Aig. du Plan, di cui si raggiunge la vetta per la via normale (4-6 ore; in totale 16-20 ore). Miglior tempo: 4,30 ore, Robert Chèré.
Osservazione: Variante d’attacco (Jean-Marc Boivin, 1976): superare per più della metà della sua altezza la «goulotte» del canale ad est del grande sperone roccioso sotto il ghiacciaio nord del Plan, poi salire in obliquo a sinistra per terreno misto fino al ghiacciaio sospeso di Blaitière.
Osservazione: questo couloir è ripetuto soltanto nel 1972 (46 anni dopo la prima) da Walter Cecchinel e Claude Jager, che con questa salita iniziano l’era del «piolet-traction» (l’idea era già nata al Pilier d’Angle, ma qui viene realizzata per la prima volta). Si è sempre detto che questo itinerario fu il risultato di un errore, e forse ciò non ha giovato alla sua fama. Ma se in un’ottica un po’ più moderna lo consideriamo diretto alla Brèche du Caïman e non alla vetta dell’Aig. du Plan, allora la via ci appare logica ed elegante (che cosa bisognerebbe dire del Linceul!!). Infatti raggiunta la Brèche, la traversata verso l’Aig. du Plan rappresenta solo una via d’uscita, senz’altro più allettante delle aeree calate in corda doppia sul versante d’Envers de Blaitière.
Alla fine del dicembre 1978, 8 sono le salite conosciute. Oltre a quelle segnalate dalla Vallot, sono da citare la 5a salita di Robert Chèré, in solitaria nel luglio 1976, e la 6a di Richard Baumont e Jean-François Cazes nell’estate 1977. L’8a salita è stata effettuata il 20 settembre 1978 dalle guide Michel Thivierge e Jacques Cuenot.

2) Les Droites 4000 m – grand couloir nord-est (couloir Lagarde)
1a ascensione: Jacques Lagarde e Bobi Arsandaux, 31 luglio 1930.
1a invernale: Walter Cecchinel, Michel Marchal, G. Crémion, Michel Flouret, 6-7 gennaio 1973.
1a solitaria: Dominique Mollaret, la notte tra il 9 e il 10 luglio 1972.
Dislivello: 1000 m (tra 3000-4000 m), con un’inclinazione media di 54°. La parte iniziale è costituita da circa 400 m di misto interessante.
Difficoltà: grande via di misto e ghiaccio. Ambiente severo e grandioso. TD (Vallot ed. 1978, pag. 14). Il couloir dev’essere percorso velocemente e con basse temperature. Scariche di pietre e ghiaccioli frequenti dopo il primo sole, che riscalda la conca superiore. Difficoltà su ghiaccio di ordine classico. La parte di misto inferiore, che in genere viene percorsa di notte, richiede buon intuito della via.
Materiale: attrezzatura da ghiaccio classica. Utile un «corpo morto» per le soste nel couloir e sulla cresta finale.
Itinerario: (dalla Vallot ed. 1975, tomo III, itinerario 188): dal rifugio di Argentière 2771 m attraversare il ghiacciaio in direzione del caratteristico nevaio sospeso (assomigliante ad un ragno). Attaccare la parete per un camino di 80 m che sale parallelo alla «goulotte» del nevaio, 40 m a sinistra. Risalire il nevaio per due terzi, poi lasciarlo per un’evidente rampa obliqua a sinistra, che conduce ad una prima costa rocciosa. Si attraversa uno stretto canale, per poi raggiungere una seconda costa rocciosa, di cui si segue la cresta per due tiri. Attraversare, sempre obliquando a sinistra, un’ampia conca delimitata a sinistra da una terza costa rocciosa, al di là della quale si tocca finalmente il gran couloir. A questo punto, salire più veloci possibile cercando la linea più sicura. Nell’ultima parte superare una fascia di misto, uscendone leggermente a destra verso la bella ed elegante cresta nevosa terminale nord-est, che si percorre fino alla vetta. Attenzione alle cornici! (5,30-12 ore).
Osservazioni: Lagarde doveva tenerci molto a questa via, la prima ad essere aperta sul versante Argentière dei Droites, infatti raggiunse i bordi del canale e poi la vetta dopo ben 16 tentativi. Prima ripetizione ad opera di Maurice Coutin e Pierre Julien, settembre 1951. Durante l’invernale il couloir venne attaccato per la pericolosissima «goulotte» iniziale e percorso integralmente. Alla fine del 1977, otto sono le salite conosciute, ma nella favorevole estate 1978 pare sia stato percorso più volte (polacchi, francesi, italiani).

3) Punta Gnifetti 4556 m – via dei Francesi
1a ascensione: Jacques Lagarde e Lucien Devies, 17 luglio 1931.
1a invernale: Armando Chiò e Dino Vanini, 26-27 febbraio 1965.
1a solitaria: Alessandro Gogna, 17 giugno 1969.
Dislivello: dal rifugio Zamboni-Zappa 2491 m! La parete vera e propria misura circa 1400 m (tra 3150-4556 m).
Difficoltà: itinerario grandioso, splendido e superbo. Uno dei più belli delle Alpi. Qualche pericolo di crollo di seracchi nella parte inferiore e di pietre alla base della parete. Dai 3400 m in su, l’itinerario è bello e sicuro. TD (guida Kurz ed. 1970). In un giudizio più attuale andrebbe classificata D+.
Materiale: attrezzatura da ghiaccio classica.
Itinerario: (dalla guida Kurz ed. 1970, volume III, itinerario 347): dal rifugio Zamboni-Zappa 2065 m risalire il ghiacciaio del Signal fino ai piedi della parete nord-est. Alzarsi a destra (ovest) per i pendii inferiori del ghiacciaio del Monte Rosa, attraversare due terminali e raggiungere le rocce dello sperone inferiore del grande promontorio nord-est (ottima nicchia per il bivacco). Proseguire con una traversata ascendente a destra, attraversare un canale nevoso e continuare obliquando a destra per terreno misto, poi alzarsi direttamente e sbucare sul pendio superiore dominato dal grande seracco. Riportarsi a sinistra e salire diritti passando di fianco al seracco. Raggiungere la schiena d’asino nevosa che prolunga la nervatura rocciosa che limita il pendio a sinistra. Alzarsi leggermente a destra e abbordare le rocce dell’edificio sommitale; salire dapprima per terreno misto, poi per un bellissimo pendio di neve (o ghiaccio) raggiungere la cresta spartiacque a nord della vetta. Di là con una breve salita si giunge alla capanna Margherita (6-15 ore).
Osservazioni: si consiglia di partire dal rifugio Zamboni-Zappa nel tardo pomeriggio per andare a bivaccare sulle rocce inferiori del grande promontorio.
Le tre vie descritte, tre capolavori di logica ed estetica, vennero tutte aperte in puro stile classico, senza l’uso di chiodi, con piccozza e ramponi a dieci punte. I lunghi intervalli di tempo tra le prime ascensioni e le prime ripetizioni indicano chiaramente come Jacques Lagarde fosse in anticipo rispetto ai nostri tempi.
Punta Gnifetti 4556 m, versante nord-est: Via Lagarde-Devies 1931. La freccia indica il possibile bivacco.
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Bellissima rievocazione di una straordinaria impresa. Bravissimi Dino Rbbi e Roberto Bianco sia come alpinisti che come scrittori. Complimenti!
possiamo solo ammirare uomini del calibro Jaques Lagarde per quello che sono stati capaci di fare con le tecniche e le attrezzature di allora. Forse bisognerebbe anche prenderne esempio per un ritorno meno tecnologico alla montagna.
Articolo bellissimo sia per la cronaca a ripetizione della salita e sia per i cenni storici così preziosi e troppo spesso rari. Il gruppo del Plan è davvero complicato e difficile. Grazie