Nell’ambito dei Sustainable Outdoor Days della Milano Montagna Week, si è tenuta l’importante conferenza Beni Comuni e Alpe Devero. Sede dell’evento è stata la sala B di BASE, via Bergognone, 34, Milano, domenica 20 ottobre 2019.
Introdotti da Elena Gogna, sono intervenuti Carlo Alberto Graziani, del Consiglio direttivo del Club Giuristi dell’Ambiente, promotore della proposta di legge di iniziativa popolare sui Beni Comuni, e Luca Mozzati, guida culturale e profondo conoscitore della legislazione ambientale dell’Alpe Devero e delle sue debolezze.

Il Bene Comune
di Carlo Alberto Graziani
E’ un concetto antico denso di significati filosofici, etici, religiosi.
Dal bene comune ai
beni comuni
In
origine cose senza valore economico (extra
commercium) perché illimitate e perciò non “beni”: aria, acqua profluens, mare, lidi.
Oggi, con la comparsa del senso del limite e del valore dei beni non esclusivamente patrimoniale, dilagano i beni comuni:
dai beni naturali (acqua, aria, energie naturali, fiumi, boschi, crinali, ghiacciai, fauna, flora)
ai beni prodotti dalla creatività e dalla ricerca dell’uomo (beni artistici, archeologici, culturali, prodotti biologici, nuove sementi, farmaci salvavita, software, know-how, rete internet),
ai beni “verdi” (aree protette, giardini, altre aree verdi urbane, orti urbani ed extra urbani),
ai beni sociali (scuole, università, ospedali, case popolari),
ai beni occupati dai movimenti popolari (dal Teatro Valle a Roma, il “progenitore”, all’Asilo Filangieri a Napoli, alla Casa internazionale delle donne a Roma, all’Azienda agricola di Mondeggi vicino Firenze, a tanti centri sociali),
ai beni globali, come l’Amazzonia o le terre sottratte alle popolazioni africane (land grabbing).

Il significato di bene comune
Qual è il significato di bene comune?
E’ un significato che deve andare oltre alla suggestione provocata dal termine “comune” che pure stimola ad agire per la difesa di quei beni e che dà linfa ai movimenti.
Forte è l’esigenza di capire, penetrare all’interno del concetto, individuare se ci sia e quale sia il legame tra beni così diversi.
Ci può aiutare l’esperienza personale. Quando andiamo in montagna non ci chiediamo di chi sono i pendii, i crinali, i boschi che percorriamo, i torrenti che attraversiamo, i luoghi dove ci soffermiamo e a volte bivacchiamo; né ci chiediamo a chi appartengono. Eppure sono beni che, dal punto di vista della legislazione vigente, non sono nostri, ma di un qualche proprietario (pubblico o privato che sia). Noi però andiamo egualmente, senza porci il problema della legittimità del nostro comportamento. Andiamo per soddisfare le nostre esigenze più profonde: penetrare nella natura, immergerci nel silenzio, perderci nel paesaggio, giungere in vetta, sentirci bene; in solitudine o in compagnia.
Esigenze queste che corrispondono, anche se non ce ne rendiamo conto, a diritti fondamentali previsti dalla Costituzione: primo fra tutti il diritto allo svolgimento della propria personalità (art. 2) e poi anche il diritto al paesaggio (art. 9) e il diritto alla salute (art. 32). Sia chiaro: non si tratta di esigenze avvertite solo da qualcuno, ma di esigenze diffuse nel tessuto sociale e che anzi, almeno tendenzialmente, coinvolgono tutti.
Proprio questo è il punto: è la corrispondenza con i diritti fondamentali che rende comuni determinati beni; è il fatto che alcuni beni esprimono – come prevede il disegno di legge Rodotà (lo vedremo subito) – “utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona” che li rende comuni e di conseguenza aperti all’accesso di tutti (sia pure, ove necessario, un accesso regolamentato). E’ perciò questa corrispondenza che legittima il nostro spontaneo andare sui monti e nei boschi.
Di conseguenza, allorché vengono realizzate, sia pure sulla base di procedure formalmente legittime, opere che incidono sulla possibilità che tutti dovrebbero avere di godere di quei beni, appare evidente la violazione di diritti fondamentali. Questa violazione si produrrà se verrà attuato il piano di sviluppo turistico Avvicinare le montagne che riguarda l’Alpe Devero.
Non è – ripeto – la violazione dei diritti di un singolo individuo, ma di una collettività, cioè di tante persone che amano la montagna: sia di quelle che vi abitano sia di quelli che non vi abitano, ma condividono il bisogno che essa non venga aggredita. Si apre qui il delicato problema del rapporto tra residenti e non residenti che esige di essere affrontato senza cedere, da un lato, alla demagogia e senza disconoscere, dall’altro, il ruolo dei residenti.

Comunque il successo della petizione del Comitato per la tutela dell’Alpe Devero è la chiara dimostrazione della dimensione collettiva di quelle esigenze e perciò della natura di bene comune di quel territorio.
Si possono fare altri esempi oltre a questo (della montagna e del bosco).
Un’area verde urbana soddisfa bisogni fondamentali di tutti coloro che la frequentano (bambini, anziani, famiglie, sportivi): di conseguenza un suo cambio di destinazione (parcheggio, zona residenziale, commerciale, industriale, aeroportuale, ecc.), pur formalmente legittimo, inciderebbe su quei bisogni e sulle norme costituzionali che li tutelano (anche qui artt. 2, 9, 32 Cost.).
Ancora. Un edificio o un terreno possono essere occupati per soddisfare bisogni fondamentali di una collettività tutelati dalla Costituzione: diritti delle donne e parità uomo-donna (Casa internazionale delle donne), diritto al lavoro e alla conservazione del tessuto agricolo tradizionale (Mondeggi), diritto all’abitazione, alla cura, all’istruzione (vari centri sociali). Quando, come spesso avviene soprattutto se si tratta di un ente pubblico, l’iniziale illegittimità dell’atto (occupazione) viene “sanata” dall’accondiscendenza tacita o espressa del proprietario, un eventuale successivo cambio di destinazione potrebbe incide su quei diritti e riguardare – occorre sottolinearlo ancora una volta – sia le persone che frequentano quell’edificio o quel terreno (solitamente aperti a tutti) sia coloro che, pur non frequentandoli, avvertono la necessità dell’attuazione di quei diritti.

E ancora. I farmaci salvavita soddisfano bisogni fondamentali delle persone e perciò sono beni comuni: il reddito proveniente da eventuali brevetti serve ad affrontare i costi della produzione e della ricerca, ma non può essere destinato anche al mero profitto delle industrie farmaceutiche a discapito della soddisfazione di quei bisogni. In altri termini la finalità di lucro, quando incide sulla natura di beni comuni dei farmaci salvavita, viola i diritti fondamentali di coloro che non possono accedere a quei farmaci a causa del loro alto costo.
Emerge così da questi casi l’elemento che unifica beni tanto diversi: la loro utilizzazione soddisfa bisogni fondamentali della collettività (tendenzialmente di tutte le persone) che sono riconosciuti dalla legge e in particolare dalla Costituzione.
Alla base di questi beni vi è dunque un’esperienza che vorrei qualificare “vitale”.
I beni comuni non esistono nelle leggi italiane
I beni comuni, però, non sono previsti nel codice civile italiano, che contiene la disciplina generale dei beni, e neppure nelle leggi speciali.
E’ vero che esistono numerosi regolamenti comunali che disciplinano la concessione di alcuni beni “comuni”: ma si tratta di beni pubblici e le concessioni sono rimesse alla volontà discrezionale (e quindi politica) del Comune proprietario.
E’ vero anche che la giurisprudenza, dando rilevanza centrale ai diritti fondamentali, potrebbe riconoscere che già oggi i beni comuni esistono nel nostro ordinamento: ma ciò è avvenuto solo una volta, sia pure da parte di un tribunale particolarmente autorevole, quale è la Cassazione a Sezioni Unite, che ha recepito proprio i principi contenuti nel disegno di legge Rodotà. Si tratta di due sentenze gemelle che, seppure non hanno avuto alcun seguito, restano comunque fondamentali (Cass. Civ. Sez. Unite, 14 febbraio 2011, n.3665 e 16 febbraio 2011, n.3813).

Comunque l’assenza di un riferimento specifico ai beni comuni e alla loro tutela nella legislazione italiana e in particolare nel codice civile ha portato alla crescita progressiva di uno dei fenomeni più deleteri degli ultimi anni e cioè l’abnorme privatizzazione dei beni pubblici.
Contro l’ondata delle privatizzazioni si è posto il disegno di legge Rodotà.
Il disegno di legge Rodotà
Il 21 giugno 2007 veniva istituita presso il Ministero della Giustizia una commissione, presieduta da Stefano Rodotà, con lo scopo di elaborare uno schema di legge delega per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici.
Lo schema, che nell’intenzione dei giuristi membri della commissione doveva servire anche ad arrestare appunto l’ondata delle privatizzazioni dei beni pubblici, veniva interamente recepito da due disegni di legge presentati in Commissione ambiente del Senato l’uno nel 2010 e l’altro nel 2013. In entrambi primo firmatario era il Sen. Felice Casson. I disegni però non venivano discussi.

All’inizio di quest’anno lo stesso schema è stato presentato come proposta di legge di iniziativa popolare dal Comitato popolare intitolato a Stefano Rodotà (scomparso il 23 giugno 2017).
Lo schema distingue i beni in tre categorie – beni comuni, beni pubblici e beni privati – e, come ho già detto, definisce i beni comuni come quelle “cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona” e aggiunge che tali beni “devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico anche a beneficio delle generazioni future”.
Due aspetti dunque: collegamento ai diritti fondamentali e funzione intergenerazionale.
A titolo esemplificativo lo schema fa espresso riferimento ad alcuni beni comuni: “i fiumi, i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate”. E introduce un aspetto che interessa particolarmente i territori montani: “La disciplina dei beni comuni deve essere coordinata con quella degli usi civici”.
Ne deriva che beni comuni possono essere sia pubblici che privati e perciò non costituiscono una categoria che si giustappone alle altre due: così, ad esempio, un bosco, che può essere pubblico o privato, è comunque bene comune.
Il punto fondamentale della legge, che indica la portata straordinaria della nuova categoria, è il seguente: “Alla tutela giurisdizionale dei diritti connessi alla salvaguardia e alla fruizione dei beni comuni ha accesso chiunque”.
Ciò significa che ogni persona la quale si senta lesa nei suoi diritti fondamentali da un comportamento che incida sulla salvaguardia o sulla fruizione di un bene comune può ricorrere in giudizio con l’azione inibitoria per far cessare quel comportamento lesivo da chiunque provenga, anche dal proprietario, pubblico o privato che sia.
Con riferimento alle privatizzazioni selvagge si scopre così come l’accoglimento del bene comune nel nostro ordinamento possa rappresentare un vero e proprio argine. Chiunque infatti potrebbe intervenire in giudizio per inibire la privatizzazione qualora questa incidesse sui diritti fondamentali della collettività.
Beni comuni e diritto di proprietà
Bene comune non significa bene di cui tutti sono proprietari: il concetto di proprietà è esclusivo, esclude cioè dal godimento del bene i non proprietari; comune invece è concetto inclusivo, include tutti nel godimento del bene, include la comunità. Bene comune significa che tutti ne possono godere: bene comune è oggetto del diritto di godimento di ciascun componente della collettività (comunità).
Bene comune dunque è l’opposto della proprietà, come amava sottolineare Rodotà sulle orme di un autore statunitense.
Ma come è possibile che uno stesso bene – il pendio montano che percorro, il bosco che attraverso, l’area verde dove passeggio – sia comune, cioè oggetto di un diritto di godimento di cui tutti sono titolari e nello stesso tempo sia oggetto di proprietà, cioè di un diritto di un solo titolare (pubblico o privato), appunto il proprietario che, come tale, ha il potere di escludere tutti gli altri? Come è possibile che un farmaco sia bene comune e nello stesso tempo “appartenga” a chi lo ha brevettato?
La risposta all’interrogativo ci mostra la portata “rivoluzionaria” del concetto di bene comune.
Il proprietario resta proprietario del bene, ma non può porre in essere comportamenti che incidano sui diritti fondamentali degli altri. Se quell’area verde in mezzo alla città, privata o pubblica che sia, garantisce la salute della comunità e perciò l’attuazione di un diritto costituzionale dei cittadini appartenenti a quella comunità, il proprietario non può mutarne la destinazione. In altri termini il diritto del proprietario incontra un limite massimo: non può superare quel confine oltre il quale vi sono i diritti fondamentali dei cittadini da rispettare. Così il titolare del brevetto sul farmaco salvavita resta tale, ma non può, per garantirsi il lucro che proviene dall’alto costo del farmaco, impedire di fatto alle persone (a volte a intere popolazioni) di acquistarlo e così di salvare la propria vita e comunque curarsi.

Significa questo, nel primo caso, che il territorio e in generale i beni sono destinati all’immobilismo? No, perché i mutamenti sono possibili e necessari se rispondono anch’essi all’esigenza di soddisfare bisogni fondamentali costituzionalmente tutelati. Il confronto anche dialettico tra diversi bisogni costituzionalmente tutelati, di cui ultimo arbitro sarà di volta in volta il giudice, richiede un accentuato livello di partecipazione dei cittadini e quindi una maggiore consapevolezza del significato e della portata di bene comune: una vera e propria crescita culturale della comunità.
Significa questo, nel secondo caso, che non si possono fare più brevetti? No, perché il brevetto resta pur sempre valido ed efficace, ma il ricavato, come ho già detto, serve a compensare i costi della produzione e della ricerca, ma non può, quando si incide su diritti fondamentali, accrescere il profitto delle imprese farmaceutiche.
Il messaggio dell’Alpe Devero e della montagna in generale
Il referendum contro la privatizzazione dell’acqua era stato un grande messaggio per l’acqua bene comune e in prospettiva per i tanti beni comuni di cui è costellato il nostro paese. Purtroppo
le vicende successive hanno tradito il risultato referendario.
La petizione del Comitato tutela Devero, con così tante adesioni, dimostra come dalla montagna si può diffondere un nuovo straordinario messaggio perché i beni comuni entrino a pieno titolo nell’ordinamento giuridico e nella cultura generale.
Questo messaggio rappresenterebbe una forte spinta per il disegno di legge lanciato dal Comitato Rodotà.
Voglio in proposito sottolineare – e così concludo – che questo disegno di legge, se verrà accolto dal Parlamento, porterà il nostro paese a essere un punto di riferimento in Europa e nel mondo su una questione di importanza strategica e di portata globale.
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Sono desolato, ma sono moderatamente ottimista. Per prima cosa temo che la tutela si trasformi, in eccesso, in una possibile sequela di divieti (è già accaduto altrove), rendendo il bene collettivo ben poco godibile. Purtroppo il FAI non è alieno da tali strategie.
In secondo luogo, 25 anni in un museo pubblico mi hanno reso prudente, circa queste iniziative legislative, non tanto sul risultato generale, ma sui decreti attuativi e relative deroghe.
Ma voglio provare ad essere ottimista e incoraggiare con speranza l’iter previsto.
Credo che l’approvazione di questo disegno di legge sia un passaggio fondamentale per il futuro, per per una volta che siamo in in testa al gruppo cerchiamo di arrivare al traguardo, non per vincere ma per far vincere tutti.
Sono usciti il 12 novembre 2019 i nomi di 27 Luoghi del cuore in tutta Italia che la Commissione del Fai, insieme al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e in collaborazione con Intesa San Paolo, hanno scelto di sostenere. Tra questi l’Alpe Devero. Ecco le motivazioni che hanno fatto eleggere l’Alpe Devero come uno dei vincitori tra le migliaia di Luoghi del cuore votati l’anno scorso.
“L’Alpe Devero rappresenta un “unicum” di ambiente e cultura alpina in un sistema di aree protette, con vegetazione e fauna di particolare pregio. Meta di “turismo dolce”, per il suo valore naturalistico e paesaggistico richiama in ogni stagione un gran numero di visitatori, escursionisti e scialpinisti.
Attualmente è oggetto del progetto di “sviluppo” turistico proposto dalla Provincia del Verbano Cusio Ossola e dai Comuni di Baceno, Crodo, Varzo e Trasquera come Piano strategico “Avvicinare le Montagne”, che prevede la costruzione di impianti di risalita di notevoli dimensioni, infrastrutture e relativi servizi con importante impatto antropico e ambientale e la perdita dei preziosissimi valori del luogo pressoché incontaminato.
Questo Piano Strategico è ora in fase di Valutazione Ambientale Strategica (VAS) e il Comitato “Tutela Devero”, che nel 2018 ha promosso la raccolta firme in occasione del censimento, ha presentato al Bando per la selezione degli interventi lanciato dal FAI una richiesta di istruttoria, che è stata accettata e che vedrà la Fondazione contribuire, con le proprie osservazioni, al procedimento partecipativo di valutazione del rapporto ambientale, una delle fasi della VAS. La stesura delle osservazioni sarà condivisa con LIPU – Lega Italiana Protezione Uccelli, impegnata anch’essa nella tutela del sito”.
Il Fondo Ambiente Italiano si impegna dunque a valutare, quando sarà reso pubblico, l’impatto del Piano strategico “Avvicinare le Montagne” sui valori paesaggistici ed ambientali del suo “Luogo del Cuore” e proteggerlo da infrastutture e alterazioni che lo potrebbero danneggiare.
La scelta dell’Alpe Devero tra i vincitori e l’impegno del FAI, con il suo prestigio e le sue competenze, sono una ulteriore prova del valore inestimabile di quel territorio e del pregio delle voci che si levano a sua tutela.