Metadiario – 217 – Anche per oggi non si vola (AG 1998-003)
Il 1997 era stato un anno di sosta nella realizzazione della collana I Grandi Spazi delle Alpi. Avevamo lavorato ininterrottamente dal 1994 al 1996, pubblicando perciò tre degli otto volumi previsti (il II, il IV e il VII). L’impegno editoriale era davvero importante, soprattutto l’investimento da parte di Priuli&Verlucca. Prima di affrontare la quarta uscita ci fu necessario attendere ulteriori incassi relativi alle prime tre. Le vendite non erano male, ma non così esaltanti, il volano stentava ad avviarsi. Anche per parte nostra (K3) i problemi con la Banca Popolare di Sondrio ci avevano stremati, dunque entrambi gli editori vedevano bene una sospensione.
Ma nel 1998 riprendemmo a pieno ritmo concentrandoci, per il volume I, sull’arco alpino che dalle Alpi Liguri ci portò alle Alpi Graie, Vanoise compresa e Gran Paradiso escluso.
Il tempo che dedicavo alla famiglia tornava dunque ad essere davvero poco: oltre alle costose uscite pratiche di tre autori (a Milani e a me si era aggiunto l’amico Federico Raiser, altro bravissimo fotografo) e delle loro “comparse”, occorreva provvedere alle altre spese d’ufficio e magari un po’ anche ai nostri compensi. Ci riuscivamo, ma a prezzo di un’enorme fatica, con lavori che saltavano allegramente dal redazionale al pubblicitario, dall’essere umili scribacchini per aziende varie ai servizi fotografici. Avevo messo nel calderone Melograno/K3 anche i miei compensi come guida alpina…
In famiglia non era solo questione di esserci o non esserci, la mia maggiore irresponsabilità era l’aver delegato Bibi a quasi tutti i problemi che un capofamiglia deve affrontare, quindi casa, burocrazie varie, scuola delle figlie e quant’altro. Questo ci allontanava quel tanto per esserne consapevoli ma anche per non fare nulla per arrestarne il processo. Lunghi silenzi, interrotti solo da questioni tecniche riguardanti le bambine, caratterizzavano ormai la nostra solitudine travestita da unione.
Eppure, quando andavamo tutti assieme, chiunque dall’esterno ci avrebbe detti felici. Ricordo, ad esempio, un’uscita che facemmo alla Piana di Vigezzo allo scopo di noleggiare i primi scietti per Elena e andare su e giù per il campetto. La volta dopo andammo all’Alpe Ciamporcino con gli impianti di San Domenico di Varzo. Al momento di scendere dalla seggiovia Elena si ricordava bene quanto si era divertita sulla neve, perciò con i moon boots ai piedi e appena atterrata si precipitò a salire un montarozzo di neve lì vicino pestando con evidente piacere la neve… E arrivata in cima si voltò soddisfatta verso di noi come avesse raggiunto chissà quale vetta.
La prima uscita che feci con Federico fu quella del 5 febbraio quando, dopo aver dormito qualche ora in furgone a Pian del Re, salimmo di notte alle Rocce Losere per il costone sud-ovest allo scopo di catturare l’alba sul Monviso. Non ce l’aspettavamo così fulgida e fu un grande piacere stare lì al gelo: ne valeva la pena.
Nella mia ansia di salvare capra e cavoli cercavo ogni occasione per unire i doveri e i piaceri familiari con la possibilità di qualche scatto fotografico che ci portasse avanti nei lavori: andavano bene anche le location previste per gli anni dopo…
E così decisi di accettare l’invito di Giovanni Alfieri, che aveva un piccolo appartamento a Pejo, per vedere se ci potevo tornare con bambine. Il 1° di marzo salimmo assieme al Colle Vioz sfruttando anche gli impianti, da me particolarmente vituperati perché per me Pejo avrebbe dovuto rimanere ciò che avevo in memoria dal 1962. Invece salimmo comodamente fino a Pejo 3000 e da lì, dopo una discesa su pista, deviammo nel vallone che senza grande fatica ci fece salire proprio sotto al Colle Vioz 3302 m. Solo all’ultimo la pendenza si fa più elevata fino a portarsi in alcuni punti a 35/40 gradi.
Discesa lungo l’itinerario di salita, poi al Dos dei Gembri e poi ancora lungo le piste fino al paese di Pejo, con un dislivello in discesa di circa 2000 metri. Mi sentivo abbastanza verme, sia per non aver concluso quasi niente dal punto di vista fotografico, sia per il calpestamento dell’etica da me perpetrato.
Non ricordo più per quale ragione ci fosse stato l’incontro, ma il 7 marzo mi trovai ad arrampicare con un compagno nuovo, il chiavennasco e fortissimo Guido Lisignoli. Questi mi portò al Castello, una specie di suo regno, doveva aveva aperto la via Polifemo. Guido, anche se condivideva la corona de Il Castello con un altro supremo, Pio Guanella, aveva fatto tutte le vie su questa parete alta, dalle 4 alle 6 lunghezze di corda. In particolare aveva aperto Polifemo con Franco Giacomelli (il marito di Renata Rossi) nel 1992. Questa mia uscita era anche funzionale alla famosa guida Mesolcina-Spluga che stavo ancora ultimando con Angelo Recalcati: occorreva il maggior numero di informazioni anche sulle arrampicate di bassa valle. Andando verso la parete che c’incombeva sopra, gli chiedevo dei gradi ma le risposte erano abbastanza vaghe. E questo mi rendeva un po’ inquieto, anche perché l’allenamento era quello che era. In più la via era parzialmente da proteggere. Ci pensò il primo tiro a farmi capire dove mi trovavo. Nelle relazioni che apparvero anni dopo era dato di 6b, ma io da primo ne uscii molto provato, così da cedere senza indugio il comando delle successive lunghezze al mio compagno che invece sembrava del tutto a suo agio. La seconda lunghezza, 6b+, e la terza, 6c, non mi dettero respiro neppure da secondo… Trovai un po’ di serenità sulla quarta, 5c, ma alla quinta mi arresi a un 7a che non dava scampo. L’arrampicata era bellissima, ma troppo difficile per me. Mi ripresi solo sulla sesta lunghezza, 6a, ben felice però che fosse l’ultima.
Comunque arrampicare con Guido fu un piacere, sia per la sua discreta e silenziosa simpatia sia per la sua bravura, bella da vedere. Tanto che la nostra cordata si riunì ancora il giorno dopo sulle Placche di Bette, sulla via Ancora più tosto, 5 lunghezze dal 5b al 6b (aderenza su placca e qualche concrezione) sulle quali recuperai un po’ di fiducia rispetto al giorno prima…
Dall’aprile al settembre 1998 mi occupai dell’operazione di recupero ambientale dei bivacchi del versante italiano del Monte Bianco. Grazie a Mario Pinoli, il geologo che lavorava a Montana e che si occupava dei possibili lavori in montagna, feci conoscenza con Luca Grigolli, appassionato di arrampicata e amministratore della Pro.Ad. Questo portò al mio coinvolgimento in un’iniziativa sponsorizzata dalla Mentadent (Unilever) che battezzammo “Proteggi il Bianco”, giocando sul doppio significato di Monte Bianco e i denti (bianchi). Ottenuto il patrocinio del Comune di Courmayeur, del Club Alpino Italiano, del Collegio Nazionale Guide Alpine Italiane e del Club Alpin Français, avevo il compito di coordinare la programmazione e le attività operative in loco con le guide di Courmayeur.
Le attività erano volte a eseguire un’operazione generalizzata di bonifica dai residui di varia natura abbandonati dagli alpinisti che frequentano i bivacchi, con ciò ottenendo il recupero ambientale degli stessi e delle aree circostanti.
Collaudammo già alla prima uscita uno schema operativo. Per il bivacco Ghiglione, il nido d’aquila che dava accesso al versante della Brenva, da noi bonificato il 22 aprile, avevamo fatto un esame dell’area di intervento e l’inquadramento del sito da bonificare, che in questo caso era coperto di neve; avevamo definito che tra le diverse possibili attività operative e modalità di accesso, in questo caso era da scegliere quello a mezzo elicottero, sia per le difficoltà alpinistiche del percorso sia per ottimizzare l’asportazione definitiva dei carichi; la bonifica doveva avvenire tramite pulizia, eventuali scavi e rimozione, con riempimento di appositi contenitori per il trasporto a valle. Questi erano di tipo “big bags”, idonei all’elitrasporto.
Nel frattempo, in base alle tipologie prevedibili dei residui da bonificare, era stato scelto di operare sul contenitore finalmente conferito a valle una selezione con separazione manuale delle varie frazioni. A questo scopo era stata predisposta, con l’ausilio del Comune di Courmayeur, una specifica area per raccolta differenziata e stoccaggio temporaneo. Le tipologie dei rifiuti prevedevano vetro, carta, plastiche, lattine di alluminio, batterie, rifiuti ingombranti e rifiuti solidi non recuperabili. Le frazioni così selezionate, e alla fine sistemate in appositi contenitori differenziati, sarebbero state poi prese in carico dal comune per lo smaltimento finale o il recupero presso impianti autorizzati.
Ma c’era anche un’altra parte importante del lavoro: era stato conferito apposito incarico alla società Montana di eseguire mediante i propri auditor specializzati un audit ambientale ad hoc per ognuno dei siti di bonifica. Con appositi sopralluoghi, eseguiti al termine delle attività, gli auditor avrebbero verificato i parametri ambientali ritenuti necessari per l’esecuzione degli audit, redigendo una specifica scheda tecnica di “certificazione ambientale” dei siti.
La prima uscita al bivacco Ghiglione fu un successo: oltre alle due guide, Oscar Tajola e Ivan Negro, assieme a me ne fecero parte Luca Grigolli, Marco Lombardi, Andrea Bavestrelli e la collaudata équipe per le videoriprese costituita da Marco Preti e Luca Venchiarutti.
Per tutto l’inverno e poi anche in primavera continuò la stesura della guida Mesolcina-Spluga. Con Angelo eravamo ormai alle battute finali, io lottavo con i disegni, assieme rivedevamo le foto e i tracciati. Non c’erano più motivi per grandi discussioni, ma in autunno accadde che fummo informati dell’uscita di una monografia (ottobre 1998), Sport alpini in Valle Spluga, di Simone Gorelli. Me la procurai e la esaminammo assieme. Purtroppo, assieme ad alcune vie nuove di cui non sapevamo nulla, il testo riportava molte inesattezze, rivelando una stesura del tutto priva di una base storico-geografica. Questo fece incupire Angelo che si spinse a dire che noi quella guida dovevamo ignorarla, anzi non dovevamo neppure citarla… Io ero di avviso opposto, in fin dei conti era in commercio. Ci furono momenti di vera tensione, però quella volta la spuntai io: quando a gennaio 1999 consegnammo il testo definitivo, questo comprendeva anche le informazioni del “povero” Gorelli.
Marco Milani ed io non ci potevamo certo dire che eravamo ben allenati… eppure decidemmo comunque di affrontare una salita ben impegnativa al Precipizio degli Asteroidi in Val di Mello, anche se il nome, Anche per oggi non si vola, non poteva che essere di buon augurio (sia pur con significato ben diverso da quello originario dell’album di Giorgio Gaber). Quella splendida via di 11 lunghezze era stata aperta nel 1997 dagli amici Roberto Davò, Laura De Vecchi e Francesco Frisco d’Alessio. Con i primi due tiri chiodati dall’alto e il resto dal basso, l’itinerario sale su un caratteristico pilastro squadrato a sinistra di Oceano Irrazionale, la via più iconica della Valle.
Era il 25 aprile 1998, e dopo una bella sfacchinata ci trovammo sulle corde fisse che Frisco dodici anni prima aveva messo sul vecchio sentiero dei Melat nei punti più esposti. Meglio non attaccarsi troppo…
Finalmente arrivammo all’attacco, sotto una placca situata una quindicina di metri a sinistra della lama che costituisce l’inizio di Oceano irrazionale. Fummo bastonati già al primo tiro, praticamente un 7a che noi salimmo attaccandoci a tutto ciò che era possibile. Molto più divertente ed estetica fu la seconda lunghezza di 6b+ che mi riuscì perfino in libera (c’è un breve tratto in comune con Oceano irrazionale). Il terzo tiro (7b) è più difficile del primo, dunque azzerammo alla grande. Il quarto tirò toccò a me: finalmente difficoltà accettabili (6a+) su una bella fessura. Stesso andazzo (6a) e stesse caratteristiche di faticosa fessura a incastro sul quinto. Al sesto tiro riprese l’artificiale (visto che non eravamo certo capaci di fare il 7c) e sul settimo continuò, visto che anche l’8a del tettino era fuori dalla nostra portata. Qui terminarono, sulla sommità del caratteristico pilastro squadrato, le grandi difficoltà. C’erano però ancora 4 lunghezze (5b e 5c) su placche abbattute per arrivare al bosco sommitale. Ma, contrariamente ai tiri precedenti, lì la chiodatura scarseggiava e costringeva ai soliti lunghi viaggi tipici della Val di Mello, col terrore di sbagliare qualcosa e quindi di incrodarsi in mezzo a quella fuga di placconate. Ogni volta che si lasciava la sosta sembrava di abbandonare un porto sicuro per affrontare un oceano ostile…
Con l’amico Ettore Pagani e con Simona non avevamo mai smesso di frequentarci, anche se era un po’ che non ci legavamo assieme per una qualche arrampicata. Il 2 maggio lo portai in Apuane, al Monte Rovaio, per cercare di ripetere la via Claudio Ratti completa. Ci avevo già provato con Paolo Cerruti, ma anche questa volta fallimmo, riuscendo a salire cinque tiri e mezzo prima che un temporale ci respingesse.
Ho un particolare bel ricordo delle giornate passate con Giovanni Alfieri per fotografare le Gole del Verdon e la Croix de Provence nella stagione della fioritura. Dal Col d’Encastel ci fu la grande panoramica sull’intera Falaise d’Escales, mentre più complicato fu trovare belle immagini relative alla Croix de Provence e alla Montagne de Sainte-Victoire.
in falesia non metto mai il casco e di solito anche dove non ci sono evidenti pericoli di rompersi la testa. Questo attiva le critiche di chi mi rimprovera il fatto di non dare il buon esempio visto che sono un istruttore Cai. Vero, ma del resto il cattivo esempio qualcuno lo deve pur dare.
Non avete capito un cazzo.
Ma fa lo stesso.
Un tempo, in bici o in montagna nessuno usava il casco, come in automobile nessuno usava la cintura di sicurezza.
Poi le cose evolvono e oggi in bici il casco lo uso sempre.
Ne ho rotto uno in un capitonbolo, senza di lui avrei probabilmente rotto la mia zucca. Dopo ho comprato un casco nuovo, una zucca nuova invece non si può comprare.
E quando ti abitui ad usarlo, il casco, non è neanche così fastidioso.
In montagna se non serviva non lo usavo, sarei stato ridicolo a farlo, ma quando serve meglio metterlo, basta un solo sasso per “rovinare” una bella giornata.
E dover raccogliere il cervello di un amico sparpagliato sulla roccia penso sia un brutto modo di concludere una giornata in parete.
Anche io arrampico da moltissimi anni e allora si usava poco o nulla il casco ed io seguivo la moda. Ora penso con la mia testa ed uso il casco anche in falesia. Francamente questa discussione sul casco mi sembra una discussione da boomers che guardano con nostalgia ai vecchi tempi.
In 40 anni molte norme di sicurezza e di prevenzione sono cambiate.
Oggi non usare il casco, mi sembra sia un’azione sconsiderata.
Usare il casco in falesia mi sembra un segno distintivo!
Ciao a tutti
Marcello, la pensiamo nello stesso modo. Certuni usano il casco a scopo di esibizione, come il pavone in parata nuziale: “Io sono quello che fa le cose difficili’.
E non si accorgono di scadere nel ridicolo.
P.S. Hai già fatto il quarto bagno? Beato te!
Qui in Pianura Padana o si fa il bagno in Panaro (acqua fredda e pericolo di gorghi) o in piscina (migliaia di persone) o a Riccione (milioni di persone).
Bertoncelli, sia chiaro, io il casco lo metto sempre dove posso rompermi la testa in qualche modo. E lo faccio mettere a chi accompagno. Ma se quel rischio non c’è, non lo uso. Punto.
Il casco per molti è diventato uno status. Quelli del soccorso alpino lo indossano anche su prati e sentieri (visto ieri con i miei occhi), ma sembrano ubriachi. Quello è il risultato.
Acc… Gogna ha censurato perfino il novello Cicerone!
O tempora, o mores! 😀 😀 😀
Dopo l’intervento del novello Cicerone, è meglio che qui io smetta di commentare. Non ne sono degno.
Per quanto riguarda il casco, osservo (umilmente): “In alpinismo il casco può evitarvi di tornare a casa con il cranio sfondato e lasciare, a ricordo della giornata, brandelli di cervello sparsi sul monte”.
Poi ognuno si comporti come crede. Per esempio, la guida alpina Cominetti – se cambiasse totalmente idea – potrebbe perfino bagnarsi nei mari della Sardegna col casco in testa, modello Sturmtruppen. Però, se mi avverte prima, io vengo a fare le foto.
😀 😀 😀
Io vado in bici e , anche se non mi sento “antisicuritario” il casco mi dà noia.Per 40 anni di bici l’ho usato poco e solo off road e in discesa , ma adesso mi sento un po’forzato ad usarlo , perchè viene proposto come un talismano.
Sono parcheggiato su una meravigliosa spiaggia sarda in attesa che la falesia dove andremo a scalare vada in ombra. Pochi turisti, prezzi altissimi, noia mortale. Dopo il terzo bagno mi sono rifugiato sotto un albero. Il bagnino è un ragazzotto tarchiato che si intratteneva volentieri in conversazioni “filosofiche” con mio padre, finché era ancora al mondo. Per questo continuo a frequentare quest’angolo di paradiso così bello e noioso. Anni fa mi capitò di smettere di arrampicare per quasi un mese perché avevo salito troppe vie una più bella dell’altra. Perfette e tutte meravigliose, tanto da non farmi più percepire la bellezza come ovvio contrasto con certi inestetismi che erano scomparsi. Il troppo è sempre negativo. Faccio il quarto bagno. Gogna potrà capire.
Ciao Luca, ti ringrazio per i complimenti ma io sono davvero preoccupato.
Ormai indossare il casco (anche dove non serve) è diventato un segno distintivo come dire: “sto facendo qualcosa che non è semplicemente passeggiare” anche quando si passeggia.
Come guida il casco lo indosso e faccio mettere a chi accompagno, eccome, ma dove c’è un pericolo tangibile. Mi capita di incontrare altre persone che camminano col casco in testa e i miei clienti meno esperti si sentono come sminuiti e nelle mani di una guida incosciente, perché non lo indossiamo.
Infatti non vengono più. Per la mia felicità e per il trionfo del buonsenso.
sempre divertente e condivisibile l’inossidabile Cominetti. Da buon antisecuritario di altra generazione, anch’io apprezzo di vedere teste perigliosamente libere da tecnologiche protezioni. E da tutine e sponsor vari. Rotti e stracciati, per dirla con Sciamplicotti, e “Stonati e fuori dal coro”, come da nome underground e anni Settanta di una delle piccole vie che ho aperto. In attesa di estinzione
Sempre piacevoli questi noiosi racconti. Ma in questo non succede proprio niente di niente.
Mi domando ogni volta come mai oggi nelle stesse foto/situazioni, avrebbero tutti il casco?
Tanto che ieri una mia giovane amica, mamma di due bambine di 4 e 3 anni, quando mi ha mandato una foto con loro 3 su una strana bicicletta senza caschi, le ho fatto i complimenti!