Via dalla folla – Metadiario – 204 (AG 1996-004)
Quando da Aosta s’imbocca la superstrada per il Gran San Bernardo e si va incontro a colossi come il Grand Combin e il Mont Vélan, nessuno può immaginare l’esistenza di una valle, quasi parallela alla Valle d’Aosta, che si allunga a dismisura verso nord est fino a raggiungere la Dent d’Hérens: la Valpelline. Questo solco profondo corre alla base della catena spartiacque alpina nel tratto tra il Grand Combin e la Dent d’Hérens; a sud est la delimita una lunga catena costituita dalle Grandes Murailles e dal cospicuo crinale della Becca de Luseney, divisorio con la Valle di St-Barthélemy. È una valle molto selvaggia dai ripidi versanti che mai si sono prestati allo sfruttamento sciistico. I paesi sono pochi e ben conservati dal punto di vista architettonico. Il lungo lago artificiale di Place Moulin non la ingentilisce affatto, anzi contribuisce ancor più al tono di ruvidezza che accompagna il visitatore. Dal punto di vista scialpinistico la Valpelline si presta ad alcuni itinerari di gran pregio, basta ricordare la Tête de By, il Mont Gelé, il Dôme de Tza o la stessa Dent d’Hérens. Ma forse l’aspetto più convincente è la possibilità che la valle offre di giungere allo splendido territorio della classica Haute Route Zermatt-Chamonix lungo percorsi meno frequentati. Come se si parlasse di Haute Route degli anni ’30, con l’esplorazione sciistica delle Alpi al massimo del suo fulgore. Da quando Marcel Kurz raccontò entusiasta le sue peregrinazioni sui ghiacciai tra Zermatt e Chamonix, tante cose sono cambiate. Sono centinaia le persone che ogni giorno salgono e scendono per i ghiacciai dell’Haute Route: e potrebbero essere anche di più senza il naturale contenimento della limitata capacità dei rifugi. Ci sono giorni, anche non di tempo bellissimo, che in vetta al Pigne d’Arolla, una delle più belle cime della traversata, si possono contare nello stesso momento (e non prima o dopo) anche fino a quaranta persone! Occorre prenotare con meticolosità svizzera il proprio pernottamento nei rifugi anche mesi prima, quindi bisogna che ci adeguiamo alla sveglia comune, all’uso delle toilette alla stessa ora, al fare colazione nello stesso momento, al mettere le pelli assieme, al partire assieme, eccetera. Per poi comunque trovare chi ti precede e ti traccia la pista sia in salita che in discesa (e in genere le tracce durano fino alla nevicata dopo). Quando arrivi su una cima si trova regolarmente occupato da più persone l’unico luogo a ridosso dal vento e i corvi non fanno a tempo a beccare le bucce d’arancia lasciate in giro. Questi fastidi e ancor più certi metodi «militari» non piacciono tantissimo alla mentalità italiana, però bisogna ammettere che rappresentano l’unico valido sistema per limitare la confusione generale su percorsi così preferiti.
Una cosa è certa: anche se le ordinatissime file indiane di comitive svizzere, tedesche e perfino francesi sono senz’altro più belle da vedere che i nostri scompaginati gruppetti italici, comunque il numero totale è quello che conta. Il fatto che siamo in netta minoranza e che mal ci adeguiamo a tanta organizzazione mi lascia sperare che proprio da noi italiani venga qualche tentata alternativa.
Nel nostro piccolo abbiamo cercato di raggiungere gli stessi luoghi dell’Haute Route, o altri nelle vicinanze, per itinerari diversi dalla classica traversata. Si tratta di percorsi ovviamente conosciuti da tempo, ma di certo non molto frequentati, perché faticosi, quasi mai serviti da rifugi custoditi e quindi in generale più impegnativi, nella vera dimensione della montagna invernale. Sarebbe raccomandabile una maggiore fantasia nella scelta delle gite e nella definizione degli itinerari. Meno attenzione alle supposte comodità e più rilievo al proprio muoversi in luoghi non trasformati. È fuori di dubbio che alcune montagne fossero più salite in passato che oggi: lo testimoniano libri dei rifugi e resoconti vari sulle diverse riviste. Poi alcune mete, vuoi per bellezza, vuoi per alcune comodità, vuoi per moda hanno preso il sopravvento sulle altre e catturato ogni attenzione, sia a livello individuale sia a livello di gite sociali. Questo però nulla dovrebbe togliere alla gioia di scegliere, dopo studio e applicazione, una meta magari dimenticata, ma bellissima e solitaria.
Ecco quindi nascere il desiderio di salire, per le prime ore con gli sci legati allo zaino, da Ollomont-Glacier ad un trascurato punto panoramico come la Tête de By, oppure dal rifugio Col Collon guadagnare il Col de l’Évêque e da lì spingersi verso il bivacco dei Bouquetins e la Tête Blanche per poi scendere nella selvaggia e arcigna alta Valpelline, oppure ancora dal rifugio Col Collon raggiungere le Pointes d’Oren, al culmine della maestosa fiumana ghiacciata del Glacier d’Otemma. E queste tre sono solo alcune delle molte possibilità che la Valpelline offre per raggiungere lo spartiacque alpino e quindi accedere al cuore dell’Haute Route. Lo spunto che volevamo dare, prima di tutto a noi stessi, era proprio quello di vedere le medesime cose che stavano vedendo numerosi altri con l’occhio di alpinisti più “anarchici” e meno disponibili ad essere intruppati da usi e costumi ormai obbligatori.
Ci siamo perciò spinti fino alla vetta della Peigne d’Arolla, raggiungendo quindi le profonde e larghe tracce dell’Haute Route classica. E’ stato curioso osservar nascere dentro di noi la strana sensazione di essere dei “diversi”, sembrava quasi di essere dei rivoltosi carbonari perché avevamo “osato” tracciare una pista che confluiva, sì, in quella canonica, ma proveniva da tutt’altra direzione. Sembrava cioè che fossimo stati noi a turbare un ambiente, molto più di quanto l’avessero fatto le comitive nelle nostre vicinanze! Ma davvero la colpa di avere più fantasia di altri è così fastidiosa? Per caso sminuisce o snatura la nostra gioia? Noi non ci giureremmo affatto.
Quando Roberto Corsi ed io il 28 maggio 1996 arrivammo nel tardo pomeriggio al rifugio Amianthe eravamo proprio contenti che la giornata fosse finita. Luce ancora per pochi minuti, una violenta bufera di vento e nevischio che ci aveva colpiti durante l’ultima ora di salita e soprattutto la sfacchinata fatta da Glacier, con gli sci sullo zaino per più di mille metri di dislivello, ci avevano piegati per i rimanenti cinquecento. Nel rifugio non c’era nessuno, anche se era sabato sera: la mancanza di qualunque traccia nella neve ci aveva avvertiti di questa solitudine, però avvertimmo comunque la strana sensazione dell’abbandono. Non un abbandono reale, si vedeva che il rifugio godeva ancora di un minimo di attenzione della sezione del CAI proprietaria: bensì qualcosa di trascurato, di vecchio, uno sconforto, come se il rifugio ci avesse accolto piangendo e ci volesse dire che, sì, era felice della nostra visita, ma che in altri tempi avrebbe potuto darci una ben diversa ospitalità… Pentole e stoviglie erano in ordine, ma era come si lamentassero di non essere usate quasi mai; coperte e materassi dignitosi ci rivolgevano lo stesso discorso. Noi, nel freddo di fine maggio, con il vento che soffiava attraverso ogni piccolo spiraglio, ci sentivamo soli e neppure tanto protetti, come bambini che vagano per un bosco che prima era amico e ora si fa minaccioso con il buio e con i rumori della notte. Povero rifugio, gli alpinisti ti hanno dimenticato!
Dopo la buriana notturna, per fortuna al mattino capimmo subito che la giornata sarebbe stata bellissima. Dai 2979 m del rifugio c’incamminammo sci ai piedi verso il Col Amianthe 3308 m, prima comodamente poi per pendio abbastanza ripido. Leggera discesa in territorio svizzero, traversata a mezza costa in direzione nord per aggirare una barriera, terminata la quale potemmo salire direttamente alla cresta nord-ovest della Grande Tête de By 3587 m, poi alla vetta. Al grandioso cospetto del Grand Combin.
Nel programma della realizzazione della collana dei Grandi Spazi delle Alpi, il 1996 era dedicato al volume VII, vale a dire la iù cospicua parte delle Dolomiti. Il 7 giugno ruppi gli indugi e mi ritrovai al Gardeccia con Angelo Recalcati sotto alla parete est del Catinaccio. Salimmo assieme al Passo delle Cigolade: era strano essere con Angelo in un luogo diverso dalla zone della Mesolcina e dello Spluga… Anche perché in quel periodo ci eravamo messi di buona lena a scrivere la guida. Ci trovavamo una volta alla settimana nel suo ufficio-magazzino di piazza Bajamonti circa alle 21 e ci davamo dentro fino a oltre la mezzanotte. Un lavoro da formichine, fatto di continue e meticolose verifiche, fino allo sfinimento. Alla ricerca di una perfezione che a tutti i costi volevamo fosse di questo mondo.
La mia iperattività, sul lavoro e nel dopolavoro, doveva avere però un prezzo. Oggettivamente ero abbastanza assente nelle questioni familiari e cominciavo a percepire il malcontento che serpeggiava nell’atteggiamento di Bibi nei miei confronti. Ricordo con particolare disagio una discussione che aveva come oggetto la possibilità di poter mettere la mia Passat Syncro G60 all’interno del giardino. Nei garage non c’era posto, l’auto avrebbe dovuto stare sotto gli alberi e a me sarebbe andato benissimo, pur di non tenerla in strada di notte. Purtroppo le regole della proprietà Ferrari erano abbastanza rigide e non concedevano questa intrusione nell’estetica del bel giardino. E, secondo me, Bibi non fece molto per cercare di ottenere una deroga.
La tensione andò al culmine quando in una mattina di quella primavera scoprii che la mia auto era stata rubata. Sapete bene come vanno queste cose: è vero, c’è l’assicurazione, ma è altrettanto vero che alla fine il danno c’è ugualmente. L’auto fu ritrovata più di un anno dopo: mi chiamarono i carabinieri di un paese vicino a Brescia intimandomi di andare a riconoscere la targa e la carrozzeria della mia auto, privata completamente del motore.
Di questo periodo fu anche l’operazione di circoncisione cui fui convinto a sottopormi da un medico chirurgo che mi aveva visitato per altri motivi (un puntino nero sul glande rivelatosi del tutto innocuo dopo un esame istologico). Mi ritrovai da solo a prendere questa decisione, come se ormai fossi davvero solo.
A coronare le mie sfighe c’era anche una questione con la Banca Popolare di Sondrio, non da poco. A settembre 1994, più o meno a metà dei 251 giorni del primo governo Berlusconi, la K3PhotoAgency aveva chiesto e ottenuto da quella banca un prestito di venti milioni di lire. Ci servivano per affrontare le notevoli spese di viaggio delle previste uscite fotografiche per i Grandi Spazi delle Alpi. Non chiedetemi adesso i particolari tecnici e neppure il nome di questo tipo di operazione: ciò che posso dire è che questa si basava sul valore del marco tedesco nei confronti della lira. Tanto più la lira recuperava valore nello scambio, tanto più si riduceva il nostro debito con la banca… In effetti l’insediamento di Berlusconi, opinioni politiche a parte, lasciava ben sperare che la nostra operazione fosse azzeccata. Ma quando il governo cadde (17 gennaio 1995) la gioia politica ben presto si trasformò in preoccupazione perché il fottuto marco recuperava rapidamente il terreno perso. La situazione precipitò nei mesi dopo e allo scadere del primo anno i conti con la banca ci mostrarono il disastro nel quale ci trovavamo. La fine del 1995 e tutto il 1996 furono segnati dall’incubo di dovere alla banca una quantità di milioni che nei fatti rasentava lo strozzinaggio. Ce la facemmo, ma fu veramente dura. Giurai che mai più in vita mia avrei chiesto un prestito.
Il 14 giugno, dopo una salita notturna alla Bocchetta Bortolon 2250 m c. dal rifugio Zamboni-Zappa, Roberto Corsi ed io terminammo all’alba la cresta nord-nord-ovest della Punta Cesare Battisti 2754 m. Ci trovavamo in vetta a questa cima abbastanza anonima che aveva però il pregio di essere il più balcone panoramico sull’intera parete est del Monte Rosa.
Non so se sono d’accordo con la descrizione … E’ sicuramente vero che il Rifugio Amianthe è poco frequentato, ma questo secondo me è il suo grande pregio.
L’ambiente che si respira è familiare, i gestori sempre vigili per i nuovi arrivi fanno trovare la tazza di te caldo all’arrivo senza bisogno di ordinarla. Una volta sono arrivato al rifugio con un ragazzino e le cuoche gli hanno subito preparato un piatto di frixeau … Ditemi in quale altro rifugio succede cosi …
E poi i gestori sono volontari del CAI di Chiavari e sono animati solo dalla passione per la montagna e per il loro rifugio: un anno aggiustano i bagni, l’anno dopo spostano la presa dell’acqua, …
Io non posso dire di avere frequentato tantissimi rifugi nella mia via, ma non ho mai trovato un’atmosfera cosi familiare e intima come al Rifugio Amianthe.
Per non parlare dei ricordi di tutte quelle persone che facevano del rifugio la loro seconda casa e ora non ci sono più e penso a Ferdinando Rollando e Alberto Cheraz.
Lunga vita al CAI di Chiavari e al Rifugio Amianthe!
Saluti a tutti,
Roberto Vercelli (roberto.vercelli@tin.it)
Via G.M.Crespi 4/16 Genova 010 365203
Voueces Dessous, Ollomont Aosta 0165 713822
Bellissima narrazione e stupende foto!!