Antelao 1941 – La via Bettella-Scalco
di Marcello Mason
(pubblicato su Le Alpi Venete, primavera-estate 2021)
Il primo giugno del 1936 Severino Casara, che ormai da tempo aveva deposta la toga di avvocato per dedicarsi anima e corpo alla montagna, spediva a Emilio Comici una lettera nel tentativo di coinvolgerlo in una scalata. Alla base di tutto c’era lo zampino del comune amico Antonio Berti, che di recente aveva sottolineato come il versante sud-ovest dell’Antelao, risultasse ancora pressoché inesplorato. Nello scrivere, Severino si era espresso con l’entusiasmo che gli era tipico, pur con qualche riserva su un altro ventilato componente della cordata: «Mi preoccupa un po’ Paolo Fanton per la sua età e perché non conosce la nuova tecnica e non è allenato… È però tanto ansioso di venire con noi». Sul ruolo di Emilio, invece, non c’erano dubbi, tanto che aveva concluso perentoriamente: «Naturalmente questa salita tu dovrai farla con me… il tuo nome dovrà essere legato anche al re delle Dolomiti». Dove poi esattamente si sarebbe sviluppata la scalata non lo spiegava, limitandosi a suggerire all’amico: «Ti dovresti interessare se vi è neve alla base del canalone dove dovremmo bivaccare». Luogo che verosimilmente egli aveva individuato nell’alta Val Rudan, ai piedi del Vallon dell’Antelao, il pronunciato solco del versante meridionale che si assottiglia ripido in direzione dell’incombente cima principale e delle cime Menini e Chiggiato.
Frattanto il tempo però passava e benché Emilio non avesse in realtà respinta l’iniziativa, Severino si stava spazientendo, nel malcelato timore che altri si facessero vivi. Perciò all’inizio dell’agosto 1938 aveva rotto ogni indugio e assieme a un non meglio identificato partecipante, nonché al confermato Paolo Fanton che chiudeva la cordata, già aveva superata parte della parete dell’Antelao. Alla fine dell’inevitabile bivacco si accorgeva tuttavia che mentre il cadorino nonostante i sessantaquattr’anni aveva dato conferma delle sue sorprendenti capacità arrampicando sul sesto grado addirittura a piedi nudi (anche per via degli scarponi che gli stavano stretti…) a collassare aimè era stato proprio il componente più giovane, chiamato a sostituire un secondo di cordata impossibilitato all’ultimo momento a partecipare. Rassegnato e profondamente deluso, a Severino non era rimasto che scendere. Confidandosi così, con Emilio, nella successiva lettera: «Parlarti del delicato ritorno, delle fatiche per calare i compagni stanchi, del mio avvilimento per la rinuncia, della grandezza della montagna, mi riesce impossibile. Tu lo comprenderai ugualmente. Ho pensato a te, ti ho mandato più volte a quel paese. Di tutta questa avventura mi è rimasta fissa la volontà di ritornare». Tale era l’intenzione, ma di fatto la questione era destinata a finire lì perché ulteriori opportunità di confrontarsi con l’Antelao non ne cercò più. Né, a dispetto delle insistenti voci che circolavano, apparvero in seguito all’orizzonte altri aspiranti, così il monte tornò a essere beatamente avvolto dai silenzi dei primordi. Fino a inizio agosto del 1941, quando nei pressi del Bus del Diàul, ai piedi dell’incombente muraglia, arrivarono due padovani fortemente motivati: Toni Bettella e Gastone Scalco.
Se si sfoglia la guida delle Dolomiti Orientali di Antonio Berti, si apprende che le ore impiegate per la scalata che di lì a poco sarebbe iniziata, furono 108, con un bivacco alla base e quattro in parete, in presenza di tempo sempre pessimo: 1000 metri di dislivello e difficoltà di sesto grado. Da parte sua Alessandro Gogna sottolinea che i 90 chiodi utilizzati nell’occasione, numero di per sé indubbiamente ragguardevole, non fossero del tutto indicativi, in quanto bisognava tenere conto anche di aggravanti, quali le bufere scatenatesi e le varie traversie che avevano accompagnato i salitori. Così concludendo: «Poco a che vedere quindi con lo sviluppo dell’arrampicata, molto con il coraggio umano». Né sembra aver dubbi Gino Buscaini definendo quella dei padovani – nel suo volume che riporta le relazioni delle cento più belle ascensioni delle Dolomiti Orientali – «un’ascensione grandiosa». Da allora la via, aperta esattamente ottant’anni fa, ha conservato un fascino al quale il tempo nulla ha tolto, aggiungendo semmai un sapore speciale determinato da una indiscutibile serie di elementi, a iniziare dal grado alpinistico, che all’epoca costituiva pressoché il massimo superabile.
Ma ad amplificare le difficoltà tecniche dell’ascensione avevano contribuito ulteriori fattori come le succitate bufere che accompagnarono senza requie i salitori, causando loro principi di congelamento in quei cinque giorni segnati anche da più cadute, fortunatamente conclusesi senza troppo preoccupanti conseguenze. Non va poi scordato che le corde utilizzate allora erano di canapa, dai noti gravi limiti, specie se fradice, come puntualmente accadde. Quanto all’abbigliamento, si scoprì ben presto quanto poco esso fosse in grado di opporsi alla furia degli elementi: del resto quelle erano le risorse e le possibilità economiche con le quali fare i conti. Inoltre il breve periodo di ferie di cui i due disponevano non consentiva slittamenti, specie ora che l’Italia era scesa in guerra, nell’illusoria convinzione che essa sarebbe stata di breve durata. Dei due scalatori, con i suoi quarant’anni, Toni era decisamente il più anziano: primogenito di una famiglia numerosa, si era cimentato in diverse discipline sportive, grazie anche alla ragguardevole struttura fisica, esaltata dall’altezza. Aveva praticato il pugilato, divenendo campione delle Tre Venezie nella categoria dei pesi medio-massimi e pure il rugby – addirittura nella serie A – riuscendo ad affermarsi anche nel ruolo di allenatore e arbitro internazionale. Alla montagna aveva cominciato perciò a interessarsi abbastanza tardi, verso i trent’anni, ma era stato svelto nell’apprendimento delle tecniche dell’arrampicata, portandosi nel volger di poco a un altissimo livello. Né le qualità umane gli facevano difetto, essendo considerato da tutti «persona dal cuore grande così, buono e generoso, d’impulsi spontanei, forte e atletico quanto animatore semplice e cordiale, trascinatore senza pari». Ma anche nel giovanissimo Gastone – vent’anni appena – era sbocciata già un’ammirevole personalità, così ricordata dal figlio Carlo: «Di carattere papà era estremamente riservato e qualche volta persino schivo. Aveva pochi amici ma assolutamente fidati. Detestava apparire, preferiva l’azione alle chiacchiere: queste lo facevano uscire dai gangheri, mentre le sue grandi passioni erano la montagna e quel Corpo degli Alpini al quale si sarebbe aggregato di lì a pochi giorni, dopo la scalata con Toni. Valori profondi, destinati a sedimentarsi nel suo animo e ad accompagnarlo per tutta la vita, con costanza e coerenza».
Già da un anno la vicina palestra degli Euganei aveva visto i due scalatori allenarsi con determinazione, impegnando tante giornate e festività, sacrificando ogni momento libero, coscienti di quanto il monte cadorino avrebbe un giorno richiesto.
Giunge in tal modo quella sera del 2 agosto che li vede arrestarsi, grondanti di pioggia, al Bus del Diàul, la grande grotta ai piedi della parete sud-ovest. Già quell’avvicinamento, con partenza da Borea al mattino presto, gravati da pesantissimi zaini, non è stato semplice, a dispetto del grande allenamento. Tutto poi è stato reso complicato dal fatto che all’epoca non vi era alcun sentiero, obbligandoli a tracciarselo di continuo. Disposti alla bell’e meglio, hanno in seguito ricavato uno spazio al riparo dove trascorrere la notte assieme all’amico Guerrino Barbiero che li ha aiutati a trasportare parte del materiale sin lì. Verso sera il tempo tuttavia è sensibilmente migliorato, accentuato da uno spettacolare tramonto, tanto da indurre lo stesso Guerrino a chiedere ai due scalatori di mettersi in posa ai piedi della parete per una bella foto in controluce.
Il giorno successivo, verso le cinque, Toni e Gastone sono già pronti alla scalata: l’accordo con il compagno è che questi attenderà alla base della parete per qualche giorno, nell’eventualità di una loro forzata rinuncia. Diversamente, se le cose andranno come sperato, egli scenderà a valle per portarsi successivamente al Rifugio Calassi e quindi incontro ai due amici sulla cima. Tutto ciò Toni glielo ha raccomandato con estrema chiarezza: «Senti Guerrin, noaltri per mercore al massimo sema fora in vetta, portene da magnare e bevare perché ne gavaremo bisogno».
Poi era stata la volta di Gastone che nel consegnargli a suo turno il portafogli, aveva aggiunto: «Guerrino, non spendere tutti i soldi, altrimenti come facciamo poi a tornare a casa? … ». La frase, spiritosa nelle intenzioni, a causa dell’emozione del momento era apparsa invece decisamente malinconica, riflettendo uno stato d’animo che in seguito lo stesso Gastone avrebbe così definito: «Tutto ciò ce lo dicemmo senza avere il coraggio di guardarci in faccia. Sentivamo che questa ascensione sarebbe stata molto dura, sebbene ci fossimo coscienziosamente allenati su vie molto difficili, arrampicando anche d’inverno, cosa del tutto eccezionale per quei tempi». Così, dopo un ultimo saluto, l’amico scende a sistemarsi sotto un masso: sarà il posto di bivacco che in qualche modo lo alloggerà per tre lunghi giorni.
Quella domenica del 3 sembrava esser nata sotto buoni auspici, ma di lì a poche ore si è irreparabilmente guastata. Rinunciare è tuttavia l’ultimo dei pensieri della cordata, nella convinzione che la perturbazione sia di breve durata. Nel corso della giornata i due salgono così circa 400 metri, per decidere infine di posizionare il bivacco nei pressi della prima di quattro nicchie. Purtroppo, durante la notte, ha inizio quella bufera che li accompagnerà sino alla fine. Quanto sta accadendo suggerisce di affrettare i tempi, perciò all’alba del 4 Toni attacca senza esitazioni una parete nera, liscia e bagnata. Superata con gran difficoltà una cinquantina di metri, ecco un tetto che sarà il primo di una serie: dopo aver studiato con il compagno l’ostacolo e appurata l’impossibilità di aggirarlo, conclude di salirlo direttamente. Ma a complicare le cose ci si mette la rigidità delle corde bagnate che ostacola le manovre: tenta ugualmente, giocando di pressione e di forza, finché riesce a raggiungere la fine del tetto. Frattanto c’è stata una breve schiarita, un fazzoletto di ciclo terso che però è nulla più di un’illusione. Ripresa l’ascensione la parete torna a essere strapiombante ed è lì che all’improvviso un appiglio tradisce il capocordata: il primo chiodo salta via e così il secondo. Fortunatamente gli altri reggono e il compagno riesce con fulminea prontezza di riflessi a sostenerlo. Recuperate le forze e passato lo spavento, Toni continua l’arrampicata, accorgendosi solo in seguito del trascorrere delle ore e che già si sta facendo buio. Perciò alla base di un grande diedro, sotto un tetto raggiunto con fatica, decide che sia quello il posto del secondo bivacco.
Saranno ore penose, soffrendo il freddo e gli effetti dell’umidità penetrata nei vestiti e nelle pedule, appoggiati in una nicchia piccola e dalla forte inclinazione. Il mattino del 5 vede il capocordata destreggiarsi su quel tetto frattanto trasformatosi in una lastra di vetrato, ma anch’esso viene superato grazie alla grande energia impegnata e così il successivo. Toni è più che mai cosciente che ora bisogna procedere con una determinazione assoluta, senza badare a quanto succede attorno, né alle mani che il gelo va intorpidendo. Anche il comportamento del giovanissimo compagno è sorprendente, nel suo arrampicare sicuro e veloce: lasciandone intuire il temperamento e il ruolo che avrà per anni nella Scuola Nazionale d’Alpinismo, divenendone dirigente, sino a ottenere l’ambito titolo di Istruttore d’Alpinismo honoris causa. Ora però c’è questa muraglia da superare, le cui difficoltà mettono continuamente a dura prova, non consentendo di rilassarsi un momento, flagellati dal maltempo esasperante, con un unico impermeabile che ripara entrambi come può. E così che li trova la notte del bivacco seguente, con sintomi di assideramento preoccupanti e sotto uno stillicidio d’acqua che esce da una fessura tra roccia e ghiaccio. Una situazione che Gastone definirà con queste parole: «Fu una notte orrenda e a quel punto Toni cominciò a manifestare i primi sintomi di congelamento. Quella notte io la sopportai discretamente, non sentii tanto il freddo perché, è inutile nasconderlo, ero tutto occupato a vincere la paura. Dormii abbastanza bene: la qualcosa irritava Toni che, allungato qualche metro sotto di me, su una cengia molto stretta, continuava a darmi dell’incosciente e dell’irresponsabile, non assolutamente conscio che stavamo portando a termine una grande impresa. Io so solo che avevo sonno e fame. Di fatto la riserva dei viveri si era assottigliata in modo preoccupante, ridottasi a due susine, una tavoletta di cioccolato e un rimasuglio di biscotti… ».
Il bivacco li vedrà abbracciati, per cercare di non abbandonarsi alle lusinghe di un sonno dal quale probabilmente non si sarebbero ridestati più. L’inizio del 6 agosto non potrebbe essere meno deprimente, ma chi mai poteva immaginare quel tempo infernale quanto interminabile? Tuttavia la pasta del vecio e del bocia deve essere davvero speciale, tanto che nel giro di poco riprendono con foga l’ascensione, pur se la montagna sembra intenzionata a respingerli in tutti i modi, con una barriera di vetrato. Non bastassero le difficoltà dell’arrampicata, ecco che si aggiunge la perdita della piccozza corta da ghiaccio di Toni, che all’improvviso cade nel vuoto. Poi tocca a Gastone compiere un piccolo volo dal quale esce incolume ma con le mani malconce. Sorte che di lì a poco capiterà anche al compagno, a conferma che le tante esperienze patite li stanno mettendo a durissima prova.
L’indomani, alle prime luci, un temporaneo, timido sprazzo di azzurro, fa capire che la cima non può essere troppo lontana, ma bisogna superare ancora non poche difficoltà, esasperate dalla diffusa presenza di ghiaccio, avvolti da un silenzio irreale, rotto da improvvise raffiche di vento talmente violente da minacciare di scaraventarli giù. Col trascorrere del tempo la nebbia avvolge e cela ogni cosa, seguita da un nevischio sempre più fitto che rende quanto mai penoso il procedere. Essi stessi del resto assomigliano a dei fantasmi: basterebbe osservare i loro volti dai lineamenti tirati, segnati dal gelo, con lo stomaco da troppe ore vuoto. E a rendere ancora più desolante il quadro sono le corde, divenute ormai quasi inservibili per i tanti strappi subiti, assieme alle pedule malridotte e agli abiti fradici. Tuttavia, spremendo le residue energie, eccoli finalmente arrivare in vetta.
Un momento di straordinario pathos, che Gastone, nella sua prosa asciutta e priva di retorica, così descriveva: «Il pomeriggio del giorno 7, verso le 16, sbucammo in vetta, mentre continuava a infuriare il maltempo. Nevicava ed io mi infilai nel mio sacco impermeabile (da non confondere con il sacco da bivacco) proprio sotto il punto trigonometrico sulla vetta. Toni invece, ritto in piedi su di un masso, imperterrito tra le sferzate di vento gelido e il turbinare del nevischio dava inizio ad un suo concerto di grida al massimo tono: “Guerrin dove sito, Guerrin laz…el magnare“».
Inimmaginabile che in quel delirio di maltempo qualcuno potesse rispondere a tale disperata invocazione. Eppure, contro ogni logica apparente, Toni non era rimasto inascoltato: come fu possibile? A realizzare il miracolo, perché tale esso realmente fu, era stato proprio Guerrino. Secondo gli accordi egli a un certo punto era sceso a Borca, ma lì i compagni non c’erano, perciò aveva risalito la via comune sino alla cima dell’Antelao, in un mare di nebbia e pioggia, sempre persuaso che i due fossero ancora vivi. Ma di essi non vi era l’ombra. Nuovamente era ritornato al Bus del Diàul, ma anche lì invano. Infine, quello stesso 7 agosto, aveva convinto il perplesso Marco Moretti, gestore del rifugio Calassi, assieme a due amici, ad accompagnarlo sulla sommità del monte, benché infuriasse quel castigo di Dio. È ancora Gastone a ricordare quanto accadde in seguito: «Guerrino, Moretti e altri due amici, proprio nello stesso momento in cui Toni lanciava i richiami, si trovavano accovacciati sotto la vetta in attesa che il tempo si calmasse. D’un tratto, tra le folate del vento, erano giunte loro le grida di Bettella alle quali risposero e, con un ultimo sforzo, toccarono la vetta portandoci su quei viveri, il magnare, come lo chiamava Toni, che ci salvarono la vita. E certamente non per modo di dire».
Era stata scritta in tal modo una delle più emozionanti pagine della storia dell’alpinismo, sia per l’impegno richiesto ai suoi protagonisti che per l’incredibile determinazione con la quale furono superati i continui ostacoli che la montagna, nella sua veste più severa, aveva frapposto. Ma rappresentò ancor più una scalata suggellata da valori non comuni quali l’amicizia e la solidarietà, espressi al più alto livello anche da chi in disparte aveva seguito con gran preoccupazione la sorte dei compagni, confidando tuttavia di poter esser di aiuto nel momento del bisogno. Difficile quindi immaginare che il ricordo di tale impresa si possa spegnere, in grado com’è ancor oggi, a dispetto dei tanti anni trascorsi, di raccontare il coraggio di quegli uomini e gli ideali senza tempo che li accompagnavano. Non smettendo mai di incantare.
Approfondimenti
Pieralberto Sagramora, Anlelao. Salita per (a parete sud-ovest, in Le Alpi, Rivista Mensile del Centro Alpinistico Italiano, vol. LXII, 1-2-3. Roma. Nov.-Dic.-Gen. 1942-1943, p. 15.
Severino Casara, L’arte di arrampicare di Emilio Comici. Hoepli, Milano (1 ed. 1957).
Antonio Berti, Dolomiti Orientali, vol. 1 – p. 1, CA1-TCI, Milano. 1971.
Francesco Marcolin, Ai piedi della parete sud-ovest dell’Antelao, in Le Alpi Venete, 2/1971.
Gastone Scalco. A 30 anni dall’impresa sulla Sud-ovest dell ‘Antelao, in Notiziario CAI Padova. 1971.
Gino Buscaini, Le Dolomiti Orientali. Le 100 più belle ascensioni ed escursioni, Zanichelli. Bologna. 1984.
Alessandro Gogna, Dolomiti e calcari di Nord-est, CDA & Vivalda. Torino. 2007.
…Da grande innamorato dell’Antelao qual è Marcello ne esce un atto d’amore storico ,riportando alla memoria quei giorni di un agosto ormai lantano ma sempre presente in chi tutti i giorni vede quella grande parete e la ama a sua volta.
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