Un alpinista che volle arrampicare all’ombra.
Antonio Rusconi
di Renato Frigerio
(pubblicato su Uomini e sport n. 4, giugno 2011)
Antonio Rusconi è nato a Valmadrera nel 1945. Prende la via dell’alpinismo quando ha già lasciato alle spalle gli anni dell’adolescenza, dopo aver frantumato il tabù familiare contro l’arrampicata, la passione cui in casa veniva attribuita la responsabilità dell’atroce scomparsa di Carlo, il fratello che aveva preso il posto della figura paterna. Con il fratello Gianni, che sarà per lui ispiratore e guida, ma di cui diventa compagno imprescindibile nelle loro strepitose conquiste invernali, a partire dal 1968 inanella una serie di imprese di straordinario spessore, tanto da caratterizzare l’alpinismo italiano fino al 1975.
Le loro vie, compiute come prime invernali, e di cui alcune come prime assolute, si impongono come segno glorioso nella storia dell’alpinismo mondiale: via Piussi-Redaelli alla parete sud della Torre Trieste, via della Guide sulla parete nord-est del Crozzon di Brenta, via del Fratello sulla parete est-nord-est del Pizzo Badile, via Attilio Placco sulla parete nord del Pizzo Cengalo, via dei Cinque di Valmadrera sulla parete nord-ovest della Civetta, parete est del Dente del Gigante al Monte Bianco, via Gervasutti-Boccalatte sul Pic Gugliermina, via Bonatti sulla Chandelle du Tacul, via Rusconi & C. sulla parete est del Gran Pilier d’Angle: sono da aggiungere la via Vera sulla parete sud-est del Pizzo Badile e la via Philipp-Flamm della parete nord-ovest della Civetta, dove Antonio non c’era.
Oltre i confini europei, risaltano le spedizioni in Alaska, Monte Sant’Elia 5489 m, nel 1971; in Perù, nella valle del Rio Pumarriri, su cinque montagne oltre i 5000 metri di cui tre inviolate, nel 1976; in Perù, Cordillera Bianca, sul Pucaranra 6150 m, nel 1977.
Antonio muore il 14 aprile 2008, dopo aver sopportato per un interminabile anno, con forza e rassegnazione ammirevoli, una malattia incurabile e dolorosissima.
A tre anni (oggi dodici, NdR) dalla sua scomparsa, saranno rimasti ormai in pochi a pensare talvolta a lui, a ricordarne le doti superiori di eccezionale alpinista, in cui abbondavano insieme generosità e modestia, abnegazione e coraggio. Dimenticare, del resto, appartiene alle leggi della vita e della ridotta capacità umana di incamerare in continuazione nella mente la successione degli avvenimenti, delle conoscenze, dei volti e dei nomi. Le grandi istituzioni cercano di rimediare al fatto che i loro personaggi di maggior valore e prestigio vengano raccolti, come tutti i mortali, nel profondo oceano della dimenticanza, e approntano per questo i loro albi, dove figurano le persone sante per le religioni; gli eroi, gli scienziati, gli artisti per le diverse nazioni del mondo. Forse non potremo mai incontrare il nome di Antonio se ci capiterà di scorrere le pagine di questi albi, e ne siamo spiacenti, perché lui pure è stato un uomo cui spetterebbe di diritto un ricordo perenne.
La sua è stata una vita trascorsa all’insegna dello sport, abbracciato puramente per diletto e convinzione, inseguendo prima risultati sbalorditivi nell’attività alpinistica, continuando poi come semplice appassionato nelle gare di corsa, con lunghe marce in pianura e in montagna. Nessuna ambizione in lui, che non fosse quella di sentirsi totalmente realizzato, anche umanamente, in quello che faceva, anche se si trattava di un impegno esigente che lo coinvolgeva anima e corpo, per dare tutto di sé, fino al punto talvolta di mettere a repentaglio la vita stessa. E fu proprio per questo che, quando una pratica dell’alpinismo, compatibile con il rischio estremo, non poté più coincidere con il senso di responsabilità dovuto alla famiglia che si era formato nel segno dell’amore cristiano, decise di dare addio alle grandi pareti invernali, dalle quali per quasi un decennio non era mai riuscito a staccarsi.
Non possiamo dimenticare Antonio, se appena abbiamo la percezione di quello che significa arrampicare in invernale sulle pareti più esposte e levigate: e su queste lui ha osato mettersi in discussione proprio nell’esperienza più difficile e problematica, quale è riservata solo a chi intende aprire qui una via di straordinaria importanza. Riflettiamo quante volte non ha esitato ad affrontare a ripetizione la durezza delle ricognizioni, la costrizione di lunghe marce di avvicinamento sprofondato nella neve, le logoranti permanenze su pareti lisce e ghiacciate, soffrendo per la fame, la sete e il freddo, in una lotta tremenda fino alle lacrime, ma resistendo sempre fino alla vittoria! Non ci è difficile pensare che tutto questo l’abbia fatto avendo in mente la sua crescita e la sua realizzazione personale, ben lontano dell’aspettarsi che una qualsiasi grandiosa conquista dovesse servire per procurargli onori e applausi.
Allo stesso modo, del resto, come non ha mai approfittato di quelle superbe invernali, che tutti gli invidiavano, per manifestare un vanto che sarebbe stato più che giusto, preferendo quasi nascondersi e scomparire dietro le spalle robuste del fratello Gianni ed essere considerato semplicemente come uno qualsiasi di quel quintetto, pur fantastico, conosciuto come “i cinque di Valmadrera”.
Ma se non intendiamo dimenticare Antonio, basterà riferirci, anche più facilmente, a una via soltanto, quella sbalorditiva effettuata sulla parete est-nord-est del Pizzo Badile, che è entrata nella storia che raccoglie le imprese più importanti di ogni tempo. La via del Fratello riassume nella realtà e come significato tutta la clamorosa attività dei fratelli Rusconi: il nome che le è stato dato, pur indovinato e dolce, avrebbe dovuto meglio essere indicato come “via dei fratelli”. Questa salita, incredibilmente difficile e durissima, è stata infatti vissuta interamente ed esclusivamente da tre fratelli: Carlo, con una presenza virtuale come ispiratore e punto di riferimento, Gianni e Antonio come gli autori, che hanno arrampicato avendo continuamente nella mente e nel cuore proprio lui.
Ma non siamo qui per non dimenticare imprese e conquiste: ciò che si vuole tenere sempre vivo è soprattutto un nome, perché nel nome rimane condensata e in certo modo manifestata, la realtà intera e sostanziale di ogni persona. E questa volta è il semplice pronunciare “Antonio Rusconi” che riesce a riaccendere in noi la presenza di un volto sereno e alla buona, che sorride, e, senza darsi importanza, ci indica un modo speciale di condurre la nostra esistenza: uno stile possibile, perché così è già stato per lui.
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Correvamo a Lecco nella stessa società sportiva nei primi anni 2000, ricordo benissimo il suo sorriso genuino e schietto, la sua allegria, sempre pronto a scherzare con tutti con un bicchiere di rosso in mano all’arrivo dopo gare di corsa in montagna durissime o dopo una corsa campestre. Un esempio di sportività per tutti, una persona di compagnia di cui intuivo un cuore grande. Solo dopo la sua morte ho scoperto il suo passato di grande alpinista, perché lui era così, era l’umiltà fatta persona. Un vero privilegio averlo conosciuto.
“inseguendo prima risultati sbalorditivi nell’attività alpinistica, continuando poi come semplice appassionato nelle gare di corsa, con lunghe marce in pianura e in montagna.”
Questa sarebbe da scrivere in un ipotetico cartellino rosso da mostrare a chi continua a dettare regole su come si “deve” andare in montagna.
Aldilà di questo, un po’ meno “gloria, vittoria! e indicibili difficoltà” delle quali è permeata ogni singola frase, non avrebbero tolto una virgola alla genuinità del personaggio.
Una persona rara e per bene.
Ho conosciuto e conosco suo fratello. E a leggere questo articolo mi sembra di aver conosciuto anche Antonio. Quanto vi è scritto – in termni di modestia e semplicità e disponibilità – infatti è a mio parere riferibile anche a Giovanni.
1974, PER 350 LIRE ,TASCABILE SANSONI.
AURELIO GAROBBIO&GIOVANNI RUSCONI:”L’ALPINISMO” 1°PARTE STORIA E 2° PARTE MANUALETTO TECNICO, ESSENZIALE., minimale poche foto tanti disegni schematici.VOLENDO SI TROVA IN VENDITA edizione originale, ,SUL WEB. Il mio chissa’dov’è sparito.