Banche, la morale non conta più
di Vincenzo Imperatore
(pubblicato su ilfattoquotidiano.it del 29 dicembre 2018)
Siamo in clima natalizio e può sembrare demagogico. Ma forse un appello alla sensibilità in questi giorni può avere un effetto diverso. Ci provo!
Osservo i comportamenti di banchieri e bancari da oltre un quarto di secolo e, al netto di casi straordinari e che comunque rappresentano una minoranza, i banchieri e i bancari agiscono sulla base di una cognizione molto originale delle leggi e della moralità. I banchieri – le vicende degli ultimi anni lo hanno solo confermato – hanno manifestato comportamenti immorali; ma i bancari sono sostanzialmente amorali. Una cosa completamente diversa. Una persona immorale conosce una morale ma non la rispetta, mentre l’amorale non ha proprio una morale o ha una visione molto personalizzata della morale. I bancari si domandano sempre se ciò che stanno facendo è legale e, se lo è, non c’è ulteriore discussione. Per una decisione amorale concetti come giusto o ingiusto, buono o malvagio semplicemente non entrano nel processo di valutazione. Per fare un esempio, Gianni Zonin è immorale perché ha rotto deliberatamente le regole e ha sfidato la legge continuamente.
Invece la domanda che si pongono sempre i bancari è: come è possibile, all’interno di quelle regole, fregare il sistema e quindi il cliente? Prima del 2008 i bancari non si sono mai domandati se i prodotti tossici fossero buoni per i clienti o per l’economia o persino per le loro banche che avrebbero potuto licenziarli in un lampo. La domanda del bancario si basa solo sulla verifica del fatto che qualcosa sia proibito o permesso. E, se lo è, il solo problema rimasto riguarda il rischio di reputazione.
“Salvare la faccia” è un’altra espressione che i bancari usano: essere bravi e decenti cittadini a casa è ok, ma al lavoro vendere prodotti molto profittevoli a qualcuno che chiaramente non è in grado di sapere che cosa stia comprando non è un problema. Il più grande complimento che si può avere nel mondo bancario è quello di definire qualcuno “allineato e professional“. Significa che non ti lasci influenzare dalle emozioni, per non parlare dei valori morali che sono lasciati totalmente a casa. La parola “etica” arriva solo in combinazione con “lavoro”, con riferimento all’assoluta obbedienza al proprio capo.
Ma se c’è una cosa che più di ogni altra rivela l’amoralità dei bancari è il loro linguaggio. Utilizzano termini che sembrano costruiti per mettere da parte qualsiasi possibilità di una discussione etica. Quando parlano della vendita di prodotti per aggirare le leggi fiscali per aiutare le grandi imprese e le persone fisiche ricche a evadere le tasse, i bancari usano espressioni come “anonimato nei confronti del fisco”. I casi dimostrati di frode o abuso diventano “errori di vendita” e approfittarsi delle incoerenze tra i sistemi di regolazione è “un arbitraggio tra regole”. Se lavori per una banca non ti domandi se una proposta è giusta o sbagliata. Guardi se ti fa fare profitti e se è in regola con la legge. Il linguaggio della banca è inteso a superare gli ostacoli dell’ufficio legale, della compliance, del risk management, dei revisori interni ed esterni e delle autorità di vigilanza. Una volta che si mette un segno a queste caselle e sono considerate assolte non c’è più nulla che ti possa fermare.
Le banche hanno immense strutture con decine di migliaia di persone nei controlli interni, come l’ispettorato e la compliance. A parte le inevitabili mele marce e quelli beccati negli scandali degli ultimi anni, la maggior parte dei bancari sembra preoccupata solo di non varcare le regole. E così il cliché del banchiere cattivo e immorale non tiene più. Occorre intervenire prima che sia troppo tardi, perché la crisi può avere causato una diffusa richiesta da parte dei cittadini di una maggiore consapevolezza. Ma la maggior parte delle mie quotidiane osservazioni confermano che nelle banche siamo al punto di prima. Ma l’ora X si avvicina!
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Ma quando mai ha contato la morale?
In banca, poi!
Il problema di tutto risiede nella prima frase della risposta di Lorenzo Merlo.
Non c’è il nerbo, ma nemmeno l’opportunità perchè nulla di quello che può fare un comune cittadino conta nelle scelte di chi mette i banchieri al loro posto… Nemmeno votare oramai…
A volte si dice che non abbiamo più il nerbo per reagire.
Pare una giusta osservazione.
Prima non c’era niente da perdere, oggi tutto.
L’identificazione con ciò che abbiamo ha sostituito quella con ciò che siamo.
Titoli e denari hanno preso il posto di sentimenti e serenità.
Se il processo del mutamento regressivo – nonostante quello che vuole farci credere la scienza – era inevitabile, ora si mette in luce che i padroni del vapore sapevano che la medicina che elargivano per la nostra felicità avrebbe creato dipendenza.
Intossicati da falsi valori, non possiamo che difenderli combattento contro i nostri pari a colpi di invidia e meschinerie.
Che le malattie degenerative e i suicidi siano numericamente endemiche della nostra illuminata società, per quanto noto a molti, non pare sufficiente per un cambio di registro del sistema.
La potenza di fuoco comunicazionale di chi ha le idee più chiare di tutti è ormai enormemente superiore a qualsivoglia consapevolezza.
Intanto ancora discorsi sul Pil, sulla crescita e sul necessario per mantenere invisibili le sbarre dietro le quali seguiamo come muggini la pastura dei nuovi desideri.