Erhard Loretan
(scritto nel 1997)
Erhard Loretan nasce a Bulle, Svizzera, il 28 aprile 1960. Guida alpina dal 1981, falegname di professione, risiede a Crésuz. Inizia a scalare giovanissimo sui monti della Gruyère con la salita, nel 1970, della Dent de Broc 1829 m. Dal 1977, anno in cui scala 4 volte il Monte Bianco, al 1982 compie numerose salite sulle Alpi, con una parentesi peruviana sulla Cordillera Andina. Dal 1982 si dedica all’himalaismo cominciando dal Nanga Parbat la collezione dei 14 Ottomila. Nel 1986 nelle Alpi vallesane concatena 38 cime in sole tre settimane. Alla fine del 1994 va in Antartide dove firma la prima ascensione di una paurosa parete del Mount Epperly 4870 m e dove torna l’anno dopo con Romolo Nottaris e compagni per girare un film sulla sua impresa. Nella sua carriera l’alpinista svizzero si è sempre distinto privilegiando i nuovi itinerari a quelli conosciuti.
E’ il terzo a salire tutti i famosi e famigerati 14 Ottomila. Prima c’erano riusciti solo Reinhold Messner e il compianto Jerzy Kukuczka. L’exploit è datato 5 ottobre 1995: sorridendo davanti all’obiettivo dell’amico Jean Troillet, Erhard Loretan si fa immortalare sopra le nuvole sulla cima himalayana del Kangchenjunga 8586 m. Ancora una volta, la cosa più impressionante è stato lo stile, rapido e leggero, della sua scalata. Un modo diverso di affrontare e interpretare la montagna, cercando vie sempre nuove o comunque originali: così Erhard Loretan, falegname di un piccolo paese tra le montagne svizzere, nella regione della Gruyère, è diventato l’alpinista del momento. Fino ad oggi Erhard Loretan dava ragione alla convinzione generale che vuole le persone felici senza storia. Ecco un uomo che passa sei mesi all’anno salendo verso le dimore degli dei e poi, come se niente fosse, fa ritorno tra i comuni mortali. A raccontare le lotte combattute per salire a quelle altezze erano la pelle del viso bruciata dal sole e il naso arrossato dai morsi del gelo, ma l’uomo manteneva il riserbo. Le domande su fatica, dolore, paura, venivano liquidate con un paio di frasi, e quando la curiosità altrui si faceva più insistente, trovava rifugio nella sua tipica ironia. Qualcuno ha detto che per Erhard Loretan l’alpinismo si riassume in una fonduta prima dell’ascensione e una birra dopo. L’eroismo e la modestia non sono incompatibili. E’ vero, la stampa locale riportava le sue imprese, a Friburgo è stato eletto lo sportivo dell’anno, ma la sua notorietà non è mai stata proporzionata al suo valore. Disdegnava premi e onori, se la rideva del fatto che una rivista francese l’avesse piazzato al 27esimo posto su 30 nella classifica dei migliori alpinisti del presente. Era il 1988, e il 27esimo alpinista del mondo aveva già al suo attivo nove 8000, tra cui l’Everest per il Couloir Hornbein e l’Annapurna per la cresta est. “Non amo le classifiche, soprattutto in campo alpinistico”, rispondeva a coloro che si stupivano di questo piazzamento.
Il 23 dicembre del 2001 causa involontariamente la morte del figlio Ewan di 7 mesi, scuotendolo per qualche istante per farlo smettere di piangere, ignorando la sindrome del bambino scosso. Viene condannato il 12 febbraio 2003 a 4 mesi con la condizionale.
Il 28 aprile 2011, giorno del suo 52-esimo compleanno, muore in un incidente durante l’ascensione del Grünhorn, cadendo per oltre 200 metri. Xenia Minder, una ginevrina di 38 anni, giudice di professione, ferita gravemente a sua volta, non era una cliente, ma la nuova compagna di Loretan. In un articolo a sua firma apparso su Le Temps, si attribuisce la responsabilità dell’accaduto: secondo la sua ricostruzione, scivolando su una lastra di ghiaccio, ha trascinato nella caduta Loretan. “La corda, legame inscindibile delle nostre ascensioni quel giorno è stata funestamente debole, facendolo precipitare dopo di me, per lasciarlo morto al mio fianco. Nessuno mi ha ritenuto responsabile. Io, dal giorno della sua morte, sono invasa da una sensazione di vuoto assoluto, unita ai sensi di colpa”.
Le imprese più importanti di Erhard Loretan
1984. Annapurna, cresta Est integrale, prima ascensione e prima traversata di un Ottomila nepalese.
E’ questa, per audacia di concezione e per fredda risoluzione di portarla a termine, l’impresa più formidabile di Loretan in Himalaya. Loretan e Norbert Noos hanno aperto nuove porte all’himalaismo, dimostrando che una spedizione ultraleggera non può soltanto ripetere in velocità le grandi imprese precedenti, ma può anche risolvere problemi nuovi fino ad allora considerati del tutto impossibili.
1985. Dhaulagiri, parete Est, prima invernale, in 4 giorni andata e ritorno.
E’ la logica conseguenza del successo all’Annapurna. La convinzione che lo stile alpino si può adattare all’Himalaya, quindi salire d’inverno con Jean Troillet e Pierre-Alain Steiner, no stop per 18 ore, bivaccare e quindi ancora raggiungere la vetta. E tutto questo su una parete di ghiaccio di dimensioni colossali. Con questa impresa Loretan consolida il primato di creatività che lo aveva contraddistinto all’Annapurna.
1986. Traversata invernale di 38 cime del Vallese (30 oltre i 4000 m) senza mai scendere a valle, in 19 giorni.
Compiuta con André Georges, questa traversata anticipa il grande exploit del 1989 sulle 13 pareti nord dell’Oberland. E’ una prova generale, un exploit che si confonde un poco con le imprese di Christophe Profit sulle più famose pareti nord delle Alpi. Ma chi è attento alle evoluzioni dell’alpinismo non può non osservare la grande qualità di questa impresa.
1986. Everest, parete Nord via diretta andata e ritorno in 43 ore, prima in stile alpino.
Con questa impresa (compiuta assieme a Jean Troillet) Loretan procede con determinazione nel suo intento di raggiungere tutte le vette di 8000 metri. Ma come i suoi predecessori, Reinhold Messner e Jerzy Kukuczka, non si accontenta di salirli in qualche maniera: ci vogliono vie nuove, oppure nuovi stili, per aprire nuove frontiere. La velocità, da sola, non basta per avere un’impresa creativa. Salire sulle corde fisse di qualche altro è uno sport che a Loretan non piace.
1988. Trango Tower, parete Est, via nuova, 1200 m in 14 giorni.
Con questa impresa, compiuta con Voytek Kurtyka, Loretan apre un itinerario su roccia, sul più splendido obelisco di granito. Le difficoltà sono estreme, lo stile usato del tutto inappuntabile. Loretan dunque non è soltanto il grande himalaista e ghiacciatore. La completezza della sua attività è dunque rivelata a tutti, anche al rocciatore più incallito.
1989. 13 pareti nord dell’Oberland Bernese in 13 giorni, d’inverno.
Questa è l’impresa (con André Georges) che, lasciate le alte quote, porta avanti un alpinismo tradizionale fino a limiti impensati. Il concatenamento di vie, dopo questo exploit, è del tutto stravolto nei suoi valori. Se prima si pensava che salire due o tre pareti nord d’inverno fosse una cosa da superuomini, cosa succede dopo che due persone, in tredici giorni di cui uno di riposo, superano 11.150 metri di dislivello su tredici pareti diverse e su vie che, fino agli anni ’30 erano considerate, ciascuna da sola, al limite delle possibilità umane d’estate? Lo spostamento in avanti di Loretan e Georges in questo caso è così grande che, anche agli adepti, fa perdere la bussola e fa scommettere in pratica sul fatto che tutto sia possibile. Ma è un inganno.
1990. Cho Oyu, parete Sud Ovest, prima ascensione in 27 ore di scalata effettiva (con Jean Troillet e Voytek Kurtyka).
Ogni commento su questa impresa rischia di ripetere i precedenti.
1994. Tentativo di traversata Lhotse—Lhotse-Shar.
Pur essendo questa solo un’idea, sappiamo che in fondo è il grande progetto di Loretan. Come la parete sud del Lhotse era stata definita da Messner la parete del 2000 (ma venne scalata nel 1990), questa traversata fantastica è ormai un obiettivo. Del 2000?
1994. Mount Epperly. Da solo su una parete di 2700 metri, in Antartide.
Il film di Romolo Nottaris, girato l’anno dopo sulla stessa parete, è la grande testimonianza di un’impresa su una parete così lontana, così diversa. L’Antartide è un mondo che non è stato ancora descritto dalle migliaia di libri e pubblicazioni in tutte le lingue che hanno invece raccontato le Alpi e l’Himalaya. Siamo pronti alla nuova sfida, anche culturale, dell’alpinismo del terzo tipo? Loretan, pare di sì.
Elenco dei suoi 14 Ottomila
Nanga Parbat 1982, Gasherbrum II 1983, Gasherbrum I 1983, Broad Peak 1983, Manaslu 1984, Annapurna I 1984, K2 1985, Dhaulagiri 1985, Everest 1986, Cho Oyu 1990, Shisha Pangma 1990, Makalu 1991, Lhotse 1994, Kangchenjunga 1995.
Gli Ottomila ruggenti
Nell’aprile del 1997 compare è l’attesa autobiografia di Erhard Loretan, un bel libro rilegato di 208 pagine, con più di 100 immagini a colori, formato 17,5 x 23, prima edizione italiana a cura di MB Advertising SA, Agno (CH).
In Gli Ottomila Ruggenti ogni capitolo è racconto in prima persona. Erhard Loretan ci narra le sue avventure, attraverso la penna dell’amico Jean Ammann, ed è una vita intera tra le montagne più severe. Un’indagine accurata di fatti vissuti, ma anche di emozioni forti, una concreta esposizione di ricordi dove valori umani, felicità, paure e speranze catturano senza sforzo la più profonda attenzione del lettore. Si conclude con una o due pagine che non hanno nulla a che vedere con gli avvenimenti cronologici, con il racconto delle sue imprese, ma riguardano o persone che non potevano essere inserite nella narrazione, come la madre, Pierre Morand, Nicole Niquille, Jean Troillet, ecc., oppure gli aspetti scientifici della montagna (il mal di montagna, l’acclimatazione), la statistica (quali sono i rischi per un himalaista), o ancora questioni filosofiche e spirituali (la fede, il perché dell’alpinismo). Completano il libro notizie biografiche su Loretan, una ricapitolazione degli Ottomila e un piccolo lessico dei termini specifici più ricorrenti.
19 domande a Erhard Loretan
a cura di Silvia Guerriero, 1995
Erhard Loretan, 14 ottomila dopo come ci si sente?
Se devo dire la verità, adesso mi trovo in una fase di transizione. Ho voglia di stare fermo per un poco, di tornare a fare il falegname che è poi il mio mestiere. E’ come se avessi girato pagina: dopo 14 ottomila mi sento più libero per fare anche i… 6-7.000 metri!
Un’impresa del genere ha cambiato la sua vita?
Dentro di me sono sempre lo stesso, uguale al ragazzino che sognava di scalare le montagne e ammirava i grandi alpinisti, da Joe Brown a Riccardo Cassin, da Walter Bonatti a Reinhold Messner. Diciamo che qualcosa è cambiato fuori. Ora in Svizzera sono conosciuto, quasi tutti i giorni vedo una mia foto sui giornali. E tutto ciò non può che gratificarmi.
Sui giornali, per l’appunto, è stato scritto che tutto quello che lei fa in montagna ha il carattere dell’eccezionale, dell’accessibile a pochi. E’ d’accordo?
Più che a pochi, direi ai più preparati. Se poi le due cose coincidono è un altro discorso. Io non mi sento certo superiore, a priori, alle altre persone. Magari più testardo, in senso buono, e convinto di poter tagliare sempre nuovi traguardi.
Nuovi traguardi raggiunti in modo nuovo: così ha stabilito record senza precedenti sulle Alpi e in Himalaya. Ci spiega come?
Semplicemente… camminando. Senza soste, però: arrampico giorno e notte con un gesto lento ma continuo, senza quasi mai fermarmi e senza fare uso di tende né di ossigeno. Così facendo, a me basta una settimana quando per gli altri, magari ce ne vogliono tre. Ma è anche e soprattutto una questione di sicurezza: più si resta ad alta quota, più aumenta il rischio. Non parto mai per stabilire dei primati, che sono involontari e sempre migliorabili.
Proprio in questo modo, però, non si corrono più rischi nel salire una parete per la prima volta?
Se affronto una via nuova, prima vado fino a quota 7.000 con tutto il materiale per il bivacco: passo una notte là, raccolgo informazioni e torno giù al campo base. Dopo qualche giorno, risalgo senza attrezzature per raggiungere la cima.
Con questo suo stile è considerato un vero innovatore. Pensa di essere il precursore dell’alpinismo del 2000?
Se sono un innovatore non sta a me dirlo; sicuramente c’è pochissima gente che arrampica come faccio io da una decina di anni: è un modo come un altro di interpretare l’alpinismo. Di certo non lo consiglio a chi non ha molta esperienza: se un giovane mi chiede un consiglio, gli rispondo di non scalare così. Non le prime volte, almeno.
Comunque ora, per la nuova generazione di alpinisti, l’esempio da seguire potrebbe essere proprio Loretan. E lei, da giovane, che modelli ha avuto?
Praticamente ho seguito l’esempio di tutti quelli che mi hanno preceduto, cercando di imparare anche dai loro errori. Purtroppo adesso vedo un buco tra la nostra e la prossima generazione: secondo me il problema sta nel fatto che c’è meno creatività. Poi mettiamoci le nuove discipline, come l’arrampicata sportiva, che è diventata una moda: scalare in palestra su un finto muro è bello e divertente, però manca qualcosa, non dà emozioni. E i giovani se ne accorgeranno presto, ma ormai sarà troppo tardi per ricominciare daccapo sulle montagne vere, e per chi verrà dopo di loro non resteranno campioni recenti da imitare.
L’alpinismo rischia dunque di estinguersi?
Beh, non drammatizziamo. Il problema è reale, ma quella per la montagna è una passione che uno si sente dentro: o ce l’hai o niente. Io neppure ricordo perché ho iniziato, ma so che a 7-8 anni desideravo salire sulle montagne. Ho avuto la fortuna d’aver trovato subito questa mia vocazione: a 10 anni ne scalai una vicino a casa, e da allora non ho mai smesso.
Nove anni dopo l’exploit di Messner, cosa significa per lei aver completato la raccolta dei 14 ottomila?
E’ un bel traguardo, ne vado fiero. Però sono stato il terzo a farlo: la vera impresa è quella di Reinhold. Arrivare come terzo o quinto, quando si vuol compiere qualcosa di veramente eccezionale, non basta. Non a me: anche per questo ho sempre cercato vie nuove.
Eppure la corsa agli ottomila continua. E continua a fare morti, come il francese Benoît Chamoux che non è più tornato dal Kangchenjunga, che era, come nel suo caso, l’ultimo tassello nel puzzle degli altissimi.
Secondo me Benoît aveva messo tutta la sua vita in questo progetto. Voleva essere a tutti i costi il terzo ad arrivarci, e voleva fare in fretta, prima che ci riuscissi io. Così, con questa sola idea fissa nella testa, non ha fatto bene i calcoli: l’ultima volta non era in forma ma ha continuato l’ascesa. Invece quando arrivi al limite non dovresti essere ancora in cima, dove i sensi sono annebbiati e il margine di pericolo maggiore, perché poi ti manca quel 30-40 % di energia necessaria a scendere. E non era abbastanza concentrato: ogni minuto si collegava via satellite con i media, ascoltava più loro del suo corpo. La Francia è così: sostiene gli alpinisti, anche economicamente, però mette loro addosso troppa pressione.
Il problema economico continua dunque a esistere nell’alpinismo, sport che richiama grossi sponsor solo nel caso di grandi personaggi come Messner?
Purtroppo sì. Io ho avuto la fortuna di essere sempre andato in montagna con pochi soldi: i miei. E’ anche per questo che sono ancora vivo, ringraziando un gruppo di amici che all’inizio, per darmi una mano, si erano messi a vendere di tutto: vino, dolci, T-shirt, roba fatta in casa. Poi uno di loro ha contattato eventuali sponsor, senza però rimediare nulla. Finché ha avuto l’idea di creare un fan club: sono 25-30 persone, tutti miei amici e sostenitori, e ognuno versa 500 franchi svizzeri (circa 600.000 lire) all’anno per coprire le spese. Solo negli ultimi tempi ho trovato dei partner tecnici tra cui l’azienda italiana Camp/Lowe Alpine, all’avanguardia nell’alpinismo per l’attrezzatura; ne vado fiero anche perché mia mamma è italiana, di Vigevano.
Cosa c’è nel prossimo futuro di Loretan, alla luce di queste nuove possibilità?
Adesso ho 36 anni, sono al top della forma, e ho sempre fame di nuovi traguardi. Per esempio, spostare più avanti i limiti dell’Himalaya.
Ha già in mente qualcosa?
Sì, adesso che ho fatto tutte le pareti e le vie normali dell’Himalaya voglio provare ad attraversare le creste. Uno dei miei più grandi progetti è la traversata dal Lhotse al Lhotse-Shar, che però richiede una grande evoluzione nella mentalità e nelle conoscenze. Penso ci vorranno 2 o 3 anni prima di tentarla; bisogna preparare tutto alla perfezione perché è una traversata molto lunga e impegnativa, anche psicologicamente: ci sono parecchi saliscendi a una quota media di 8.400 metri, con diversi strapiombi da superare.
Quanto conta la testa in una scalata?
E’ fondamentale. Guardate me: non ho certo il fisico del marcantonio… Per questo, contrariamente a molti, sostengo che l’alpinismo è uno sport adatto pure alle donne. L’himalaismo soprattutto è un fatto più mentale che fisico. Il problema è che di donne ce ne sono poche, anche se nel futuro di questo sport vedo una presenza femminile maggiore.
Guardando invece al passato, quanto e come si è evoluto secondo lei l’alpinismo?
L’evoluzione maggiore la si vede nel modo di scalare, non tanto nei materiali che, riferendomi ovviamente al recente passato, sono ormai al top. E’ ancora un fatto di testa: solo così si spingono i limiti. L’unico grande problema resta l’alimentazione, per la quale si continuano a fare studi ed esperimenti da 30 anni, senza poi capire realmente quello che succede ad alta quota. A me sinceramente non importa più di tanto perché ognuno è differente e reagisce in modo diverso; è necessario piuttosto conoscere se stessi. Io sono un sostenitore del cibo tradizionale: pasta, prosciutto, formaggi; cambiano solo le dosi. Penso poi che ci sia gente che si aiuta con eccitanti e droghe; questo è stupido e pericoloso: aggiunge ulteriori rischi ai tanti che già troviamo in montagna.
Lei ha mai avuto paura?
L’unica spedizione per la quale non sono ancora pronto è… il matrimonio! Scherzi a parte, è una mia decisione: per chi sta sempre in giro rischiando la vita credo sia meglio non metter su famiglia, che vuol dire avere delle responsabilità nei confronti di altre persone. E chi sceglie l’alpinismo sa bene che la morte e l’imprevisto sono dietro l’angolo. In montagna, anni fa, persi in circostanze drammatiche il mio compagno di cordata, Pierre-Alain Steiner, che era un carissimo amico. Stavo accanto a lui, però non mi fu possibile fare nulla. Ne ho viste e sentite di tutti i colori, ma quella è stata l’unica volta che ho pensato di smettere. Mi ci sono voluti 2-3 anni per ritrovare le motivazioni giuste.
Qual è il suo rapporto col compagno di salita?
Devono esserci amicizia, rispetto, stima. In una parola, è fondamentale. Io ho trovato un compagno perfetto in Jean Troillet, con cui scalo dall’85. Ha grande esperienza in alta quota e riesce a starmi dietro poiché abbiamo gli stessi ritmi, la medesima fisiologia. Siamo capaci di camminare per ore senza rivolgerci la parola, ma ognuno in cuor suo sa che l’altro gli è vicino e può sempre contarci. Purtroppo non credo che d’ora in avanti mi seguirà: Jean ha 48 anni, e ora gli piace la barca a vela. Se non trovo un altro come lui, in futuro potrei anche scalare da solo: dipenderà dalla spedizione.
Qual è stata finora la sua spedizione più impegnativa?
La salita dell’Annapurna, in Himalaya, nell’84. Quella che mi ha regalato le emozioni più forti è stata la salita dell’Everest: impiegai 42 ore ad andar su mentre la discesa la feci in 3 ore e mezzo… scivolando sulla neve col sedere! Invece la montagna che ho nel cuore è in Svizzera e si chiama Gastlosen: è la prima di una certa altezza che ho scalato in vita mia.
Adesso Erhard Loretan è diventato l’alpinista del momento. Come vive questa realtà?
Ci sono l’orgoglio e la soddisfazione, ci sono i media e la gente che parlano di te. Ma tutto finisce qua. Gli sponsor non arrivano, devi andare a cercarteli da solo; so che tutto questo c’entra poco con la montagna come l’ho sempre intesa, però a un certo devi guardare al di là della cordata. Cerco di abituarmi, ma non sono ancora un buon manager di me stesso. E’ un’altra cosa che devo imparare, mi sto allenando anche a questo: ora faccio conferenze quasi tutti i giorni, vado a trovare possibili sponsor. Purtroppo, però, così non mi resta nemmeno più il tempo di andarci, in montagna…
Immenso..Alpinista con una vita , non semplice” , una bella Storia , con un finale triste…! Grazie…..Un C. Saluto………!
Noppa mi diceva che col passare degli anni Loretan diventava sempre più infelice.
Anche Loretan sognava come Jaeger.
Loretan è stato probabilmente l’himalaysta più forte di tutti i tempi, al pari solo di Messner, Cesen e Knez. Era uno a cui piaceva “fare” parlando poco.
Ricordo un filmfestival di Trento di una decina d’anni fa in cui c’era una serata sulle guide alpine ed eravamo invitati: Hanspeter Heisendle, Marco Furlani, Erhard Loretan e il sottoscritto. Presentava il buon Enrico Camanni assieme a una “velina” che non ricordo chi fosse, e prima della serata Loretan mi disse: non capisco perché mi abbiano invitato, ma mi fa sempre piacere venire in Italia…
Tanto per dire.