Caiano sarà lei!
di Carlo Crovella
In genere, oggi, chi utilizza il termine caiano gli dà un tono negativo, in alcuni casi addirittura offensivo. Non è poi chiarissimo a tutti cosa si intenda di preciso. Dalle circostanze del suo utilizzo e dalle frasi in cui è inserito, si deduce che tale termine sintetizzi concetti da inquadrare in una visione stantia, obsoleta, autoreferenziale, pedante, noiosa. Una cosa vecchia e polverosa, insomma. Una cosa da buttare.
A me non piace il termine caiano, ma non per l’implicito disprezzo verso chi è diretto. Non mi piace per una semplice questione fonetica: si collega troppo al suono di cane, sembra l’aggettivo con il quale si definisce un latrato, e non mi va che si riferisca al CAI.
Non amo neppure il termine che si vorrebbe utilizzare come alternativa elegante, cioè caìno, perché mi ricorda il fratello cattivo di Abele e anche in questo caso stona se collegato al CAI.
Perché io sono molto legato al CAI. Al CAI Torino, ovviamente, e poi anche all’altra sezione torinese, l’UGET, di cui fa parte storicamente mia moglie. Ma per estensione sono legato all’intero CAI, o meglio all’ideale del CAI.
Sono stato educato in un contesto familiare dove l’amore per le montagne e l’ideale del CAI erano fusi insieme, erano una cosa sola. Nelle passeggiate al Parco del Valentino, anche prima dei miei 5 anni, non era casuale passare davanti alla statua di Quintino Sella (restaurata nel 2019 e da allora posizionata nel cortile del Politecnico), statua che al tempo si trovava proprio davanti al Castello del Valentino, dove nel 1863 fu fondato il CAI: inevitabile il racconto paterno sull’ascensione al Monviso e sulla successiva fondazione del Club Alpino.
La fusione fra andar in montagna e coinvolgimento nel CAI fu tipica fin dall’origine del CAI stesso e lo è stato per moltissimo tempo. Da qualche decennio, invece, i concetti si sono separati profondamente. Oggi si va in montagna (o, meglio, si praticano attività sportive che rientrano nell’ampio alveo della montagna) e non si sente necessariamente il piacere di far parte del CAI. Chi si iscrive al CAI spesso lo fa solo per motivi spiccioli: sconti nei rifugi, coperture assicurative, conoscenza di altri individui (magari dell’anima gemella…).
Tutte esigenze assolutamente legittime, ma l’ideale del CAI è un’altra cosa. Di fatti c’è una profonda differenza fra essere semplicemente iscritti al CAI (pagando quota annua e appiccicando il bollino sulla tessera) e far davvero parte del CAI, condividendone gli ideali.
Non che il CAI sia privo di difetti: struttura elefantiaca, ministeriale, con tempi biblici, roccaforte del conservatorismo (sia tecnico che ideologico) e con zone d’ombra là dove, nel corso dei decenni, i giri di denaro sono inevitabilmente lievitati. Mi sono lucidamente chiari i difetti del CAI e da tempo sono impegnato in prima persona (anche con aspre prese di posizione) per correggerli e migliorarli, ma rivendico la bontà dell’ideale di fondo.
Ho già detto che nell’esperienza della mia famiglia praticare montagna e sentirsi parte del CAI (dell’ideale del CAI) erano indissolubili, anzi erano un solo concetto. Mio padre era sistematicamente impegnato per il CAI una o due sere a settimana (ovviamente in modo del tutto non retribuito, anzi non si pensava neppure di chiedere il rimborso dei costi vivi…): sedute del Consiglio, commissione rifugi, commissione eventi. A queste si aggiungevano incontri di varia natura, ispezione nei rifugi della Sezione, stesura di articoli, pareri, relazioni.
Mio padre mi iscrisse al CAI Torino nel 1969, quando avevo 8 anni: nel 2019 mi hanno quindi consegnato la medaglia per 50 anni consecutivi di appartenenza alla Sezione. Il merito dell’iscrizione originaria è indiscutibilmente di mio padre, ma a me può essere riconosciuto il merito di non aver mollato in tutto questo lungo periodo. Anche nel mio caso si tratta non di una semplice iscrizione burocratica, ma di un effettivo contribuito alla vita sociale.
Su questo punto, rispetto a mio padre, io ho seguito una strada un po’ diversa. Del coinvolgimento nel CAI mi ha sempre stuzzicato l’impegno didattico, sia estivo che invernale, per cui bazzico ormai da 40-45 anni in questo specifico mondo, avendo ricoperto anche ruoli di responsabilità organizzativa di Scuole prestigiose e con numeri consistenti.
Da qualche tempo, però, ho modificato un po’ il tiro della mia mission didattica: anziché limitarmi a ripetere aride nozioni tecniche (come impone oggi il modello dominante), ritengo più utile svolgere un ruolo “educativo” attraverso la stesura di articoli, l’organizzazione di conferenze e interventi vari, l’analisi storica, lo stimolo a riflettere. Il tutto finalizzato alla riproposizione dell’ideale educativo dell’andar in montagna. Educazione della persona (cioè dell’individuo come cittadino, genitore, lavoratore) attraverso la pratica dell’alpinismo.
Montagna scuola di vita è un mantra che mi son sentito ripetere fin dai miei primi anni e in effetti riconosco che la montagna ha profondamente forgiato la mia personalità anche al di fuori della montagna. Come vivo, come lavoro, come esercito il mio ruolo di genitore, marito e cittadino sono diretta conseguenza di cosa ho “imparato” andando in montagna.
Questo è il vero valore etico dell’andar in montagna. Di conseguenza mettere una mano davanti all’altra sulla roccia o un piede davanti all’altro sui sentieri sono solo dei momenti strumentali alla costruzione della personalità caratteriale ed esistenziale. Al contrario chi elegge l’attività sportiva come obiettivo principale (se non unico) del suo interesse per la montagna, perde la parte più di valore della montagna stessa. Chi riduce i monti a semplice “terreno” dove svolgere uno sport e basta, non vede tutta la ricchezza esistenziale che c’è oltre tale limitata concezione.
A ben vedere il mio interesse per l’impegno nella didattica trova origine nello stesso elemento fondativo del CAI: la conoscenza delle montagne. Infatti il CAI «ha per scopo l’alpinismo in ogni sua manifestazione, la conoscenza e lo studio delle montagne, specialmente di quelle italiane, e la difesa del loro ambiente naturale».
Io sono un gran innamorato delle montagne. Parlo proprio delle singole cime: ciascuna ha la sua individualità, la sua anima, il suo carattere. Ci sono montagne placide che avvolgono in un abbraccio materno. Altre capricciose, infide, rognose. Mi piace conoscerle tutte e di ciascuna conoscere i diversi versanti, le creste, la storia, chi ci è salito e anche chi non ha fatto ritorno.
Mi piace anche salirle, le montagne, ma questo è l’ultimo tassello, a volte neppure il più interessante. Interessanti però possono essere i momenti vissuti durante le ascensioni: la bollita alle mani, i bivacchi, il saper superare fame, sete, freddo e caldo, mantenere sempre il giusto equilibrio fra entusiasmo e lucidità (per dirla alla Rébuffat), affinare l’occhio e l’istinto per sapersi muoversi nel modo adeguato al terreno che si affronta (“leggere” la montagna, come sintetizzo io).
Le tecniche? Sono solo elementi strumentali per raggiungere tali obiettivi. Al momento io sono quindi in dissonanza con l’impostazione dominante che vede l’insegnamento delle tecniche come “l’obiettivo” prioritario dell’attività didattica. No, caro allievo, io ti insegno anche come legarti, come fare sicura, come procedere con piccozza e ramponi…, ma il vero contenuto del passaggio fra me istruttore e te allievo è ben altro: come vestirsi, come e quando mangiare, dove procedere, come fare lo zaino… insomma, condividendo le esperienze gomito a gomito, ti sprono a creare in te una forma mentis “alpinistica”, cosa che ti servirà per tutto il resto della tua esistenza (lavoro, famiglia, correttezza sociale).
Dalla conoscenza delle montagne parte quindi il processo formativo della persona, processo che transita per l’attività didattica esperienziale. Non è una novità storica, questa mia convinzione. Il buon vecchio Quintino Sella, come ci racconta l’articolo allegato, aveva già lucidamente identificato l’importanza educativa dell’andar in montagna, senza necessariamente il bisogno di VI o VII grado, né di gare né di sciare in canali semi strapiombanti.
La montagna è scuola di vita e, stringi stringi, questo è il succo dell’ideale del CAI: è un ideale tutt’altro che obsoleto e polveroso, perché è sempre valido in assoluto. Proprio per questo va riproposto con vigore anche nell’attuale società edonistica e individualista.
Papà Quintino, maestro di alpinismo
(redazionale pubblicato su Lo Scarpone del dicembre 2011)
Quando nel 1863 era già in politica, Quintino Sella fu il primo italiano a raggiungere la vetta del Monviso e, nel tempo libero, trovò il modo di fondare il Club alpino.
Di questo roccioso e infaticabile statista, il cui imperativo nella neonata Italia che cercava faticosamente di tenersi a galla era di risparmiare, si parla molto oggi, nel clima celebrativo per l’Unità d’Italia (2011: 150 dall’Unità, NdR).
Ma ancor più se ne parlerà in vista del centocinquantennale del CAI (coincidente con il 2013, NdR) di cui il Sella fu il padre. E la sua fu indubbiamente una figura paterna, come si potrà desumere più avanti dalle testimonianze lasciate dal figlio Corradino.
Oltre a occupare la scena nella mostra che il Museomontagna ha dedicato al CAI e all’Unità d’Italia (la sua figura è stata focalizzata in apertura e nella prima grande sala), Quintino è stato protagonista l’anno scorso (2010, NdR) anche alla Biblioteca civica di Grignasco in Valsesia dove si è inaugurato il ciclo Alle origini del Club Alpino: un progetto integrato di politica, progresso, scienza, e montagna.
Si tratta di una serie di conferenze organizzate dalla Sezione di Varallo del CAI e dal centro Studi Zeisciu per far emergere, in un quadro completo e uniforme, il sostanziale contributo espresso in quei cruciali anni da un ristretto gruppo di uomini eminenti della Valsesia, che in diversi campi operarono sempre in perfetta sintonia tra loro, legati da profondi vincoli di amicizia, comuni interessi e aspirazioni.
Dopo l’introduzione di Enzo Barbano (titolo: La Valsesia e l’Unità d’Italia) è toccato a Mattia Sella, autorevole membro del Comitato scientifico del CAI, mettere a fuoco la figura dell’antenato Quintino.
È emersa così la personalità di Sella non solo statista, ma anche scienziato a tutti gli effetti, fino al 1861, con importanti studi di cristallografia e vasti interessi per la geologia e la petrografia. Non a caso è in questa veste che viene immortalato nel bronzo appena fuori del Castello del Valentino a Torino (questa statua, dopo adeguato restauro, nell’autunno 2019 è stata posizionata nel cortile del Politecnico di Torino, NdR), mentre con la mano sinistra rimira compiaciuto un frammento di cristallo e nella destra impugna il classico piccozzino dei cercatori di minerali.
Dopo essere stato professore di mineralogia, Sella si è distinto come promotore di cultura e di scienza, da lui giustamente considerate strutture di base per la costruzione di uno stato moderno: gli si devono infatti il progetto della Carta geologica d’Italia e l’istituzione del Comitato geologico, l’organizzazione del Congresso internazionale di geologia a Bologna e la fondazione della Società geologica italiana, lo sviluppo dell’industria mineraria in Sardegna, la ricostruzione dell’Accademia dei Lincei.
Fondamentale, e Mattia Sella lo ha giustamente sottolineato, è stato per Quintino l’impegno per la formazione e l’educazione dei giovani: le ristrutturazioni di università, centri di ricerca e laboratori, l’istituzione di nuove scuole professionali, come la Scuola di applicazione per ingegneri a Torino.
Il CAI è stato poi, in base al suo illuminato pensiero, una forza unificante ma anche un crogiolo di idee e valori che hanno contribuito alla formazione dell’Italia unita. I personaggi che ha chiamato per la fondazione del Club alpino di Torino erano scienziati, professori e politici, tutti coinvolti e attivi nella nuova capitale del Regno.
Sono noti gli obiettivi che lo portarono a costituire un club di appassionati di montagna: l’ideale nazionale contro il collezionismo anglosassone di vette alpine, la formazione del carattere dei giovani, e ancora, la necessità di promuovere, anche attraverso il CAI, la scienza e la cultura.
Importante fu, ha spiegato Mattia Sella, il legame di stima tra lo scienziato valsesiano Costantino Perazzi e Quintino e la profonda amicizia che unì le due famiglie: un aspetto messo in luce al convegno di Grignasco dallo studioso Giuseppe Sitzia.
In questo clima, fondamentale fu soprattutto l’amore che Quintino manifestò per la montagna, mettendo a frutto le sue competenze anche con un’intensa attività didattica.
Ne è testimonianza nel 1927 il periodico Il Biellese, edito dalla Sezione di Biella del Club Alpino Italiano nel centenario di Sella. Nel giornale, da cui Lodovico Sella, presidente dell’omonima fondazione, ha tratto motivi di riflessione in occasione di una successiva conferenza a Varallo sul tema Patria, scienza e montagna negli armi risorgimentali. Una prospettiva valsesiana, di cui sono stati appena pubblicati gli atti, come si riferisce in altra parte del giornale, viene appunto spiegato questo aspetto particolare della sfaccettata personalità di Quintino Sella.
La sua passione per l’insegnamento dell’alpinismo è adeguatamente raccontata dal figlio e discepolo Corradino il cui apprendistato iniziò alla tenera età di 7 anni durante una gita sulle Prealpi Biellesi in cui raggiunse la quota di 2500 metri. “Ma a 11 anni“, precisa Corradino, “cominciai ad assaggiare i ghiacciai e a 18 avevo salito parecchie punte del Monte Rosa e attraversato Cervino e Monte Bianco, sempre con mio padre che si lamentava solo di non avere agio di passare maggior tempo con noi sulle Alpi“.
Sentirsi definire “atto all’alpinismo” da un maestro come il padre era motivo di orgoglio per Sella jr, che gli fu grato per non averlo mai indotto a compiere sforzi eccessivi. In escursione Quintino imponeva infatti alla comitiva dei ragazzi un passo metodico.
Ciò non escludeva, nella sua filosofia, che l’alpinismo dovesse anche essere “scuola di indurimento ai disagi”, come racconta Corradino. Un atteggiamento confermato nella famosa lettera del 15 agosto 1863 a Bartolomeo “… E mi pare che non ci debba voler molto per indurre i nostri giovani che seppero d’un tratto passare dalle mollezze del lusso alla vita del soldato, a dardi piglio al bastone ferrato e procurarsi la maschia soddisfazione di solcare in varie direzioni e sino alle più alte cime queste meravigliose Alpi che ogni popolo ci invidia“.
Inflessibile, ma anche tenero e apprensivo con i giovani allievi, a papà Quintino nulla sfuggiva nella preparazione della gita. “Se curava che nel nostro equipaggiamento avessimo tutto il necessario, voleva ridotto al minimo quanto chiamava sempre latinamente impedimenta… e anche per la resistenza al freddo non esitò a cimentarci presto in gite che magari ci obbligassero, senza preparativi speciali, a passare la notte (non dico a dormire) all’aperto: fra i miei più giovani ricordi c’è una notte in cui il cattivo tempo ci obbligò a vegliare in mezzo ai ghiacci del Colle delle Locce: per paura che potessi scivolare addormentato, mio padre tenne tutta la notte la mia mano nelle sue e mi pareva che ciò bastasse a scaldarmi“.
Sella fu maestro di alpinismo anche per un nipote illustre, Guido Rey che con lo zio Quintino racconta (Il tempo che torna, collana I pionieri, CAI 2011) di aver compiuto primi passi.
“In quei tempi, durante le vacanze estive, i miei parenti soleano mandarmi ogni anno a passare qualche giorno a Chiavazza nella casa ospitale dello zio, il Quintino di Biella, come lo chiamavano orgogliosamente i suoi conterranei, allora. Quelle erano per me giornate di divertimento straordinario, lungamente attese, godute appieno. Il clou della vacanza biellese era sempre una grande escursione alpina che lo zio preparava pe’ suoi figli e pe’ suoi nipoti ogni anno, e che quasi sempre dirigeva egli stesso quando la politica glielo consentiva. Allora egli raccoglieva attorno a sé una nidiata di giovinetti dai dodici ai sedici anni, tutti parenti, guardava bene che le scarpe fossero ampie e ferrate a dovere, e che fossimo calzati di lana, ci metteva in testa un cappellaccio qualunque, magari uno de’ suoi; in mano un alpenstock, talora sproporzionato alla nostra statura, e poi via…”
E se un ragazzo soffriva di vertigini? Semplice. Non potevano che passargli vedendo l’adulto camminare “senza tema”.
Per maggior precauzione, Quintino mise tuttavia alla prova Corradino conducendolo con un cugino nel Duomo di Strasburgo. “E lì volle che salissimo insieme fin sull’estremo, dove manca il parapetto pur essendoci un robusto ferro interno: una volta discesi ci disse che aveva in noi scorto un po’ di esitazione e perciò ci ordinava di risalire due volte al giorno fino a che fossimo venuti a dirgli che nessuna traccia di emozione era rimasta“.
Gli inviti alla prudenza erano una costante. Perché si doleva, Quintino, “del male che le catastrofi in montagna, che possono essere evitate, fanno anche alla causa dell’alpinismo“. Eppure non esitò a prendersi grandi rischi. Come quando a 13 anni al Mucrone, colto dal cattivo tempo, vagò per ore cercando la via di discesa fino a che, a sera, tornato sulla cima fu costretto ad ammettere di essersi smarrito.
“Ma pure raccontava“, sono le parole di Corradino, “che non si era mai scoraggiato e che mai aveva voluto abbandonare un cagnolino che lo imbarazzò moltissimo dovendolo spesso traghettare di dirupo in dirupo“.
Nel 1880 per il giovane Sella arrivò finalmente la promozione. “L’esame finale avvenne all’albergo dell’Olen da cui compimmo qualche salita. Io ero superbissimo di fare da guida“, conclude Corradino, “tagliare scalini, sondare crepature ecc.; ma quella fu per lui l’ultima escursione. Si sentiva molto indebolito e inadatto a grandi fatiche e volle consegnarmi la piccozza che gli aveva servito: io l’ho sempre portata meco nelle mie gite e l’ho custodita sempre con grande venerazione“.
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Bissaca, hai fatto centro. Evidentemente però non appartieni a una “certa” Torino, ahi ahi ahi….
Mi ricordo come ieri, era il 1991 , il mio primo anno di UGET, un rito di iniziazione per me che sentivo parlare di CAI UGET da sempre in famiglia.Sono passati gli anni e dal CAI UGET mi sono poi allontanato.La montagna nella mia vita ha ripreso forma sotto forma di tanta arrampicata che mi ha portato a scalare fino in Yosemite.Anni dopo , tanti, ricapito al CAI UGET quasi per caso, nella scuola di Alpinismo e Arrampicata.Inutile dire che la realtà che ho conosciuto è sconfortante.Com’è possibile che gli istruttori in media abbiano l’età dei genitori degli istruttori della FASI?Come può un istruttore, che nella maggiorparte dei casi arrampica sul 5C/6A avere carisma su degli allievi che nel 2020 oramai provengono per lo più dalle palestre indoor su gradi che in molti casi sono già più alti.Come può un allievo istruttore forte e con esperienza essere giudicato da qualcuno che neppure riesce a stargli dietro e che anzi, si vede che sotto sotto mal digerisce la cosa?Per me il CAI sarà sempre un ricordo stupendo, ma non mi stupisco che i giovani Alpinsti forti e ancor più gli arrampicatori nostrani forti non siano figli del CAI.Spesso si dice che l’Italia non è un paese per giovani, ed è per lo più gestito da vecchi.Mi dispiace usare questo termine in modo non lusinghiero, ma purtroppo il CAI in questo possiamo dire che è specchio della società.E non lo dico con soddisfazione, ma con tristezza.In cuor mio spero che la situazione cambi.E che gli anziani cerchino di lasciare le “poltrone” per essere fonte di ispirazione, ma non di gestione.Poi vabè, il CAI è anche il coro, il gruppo speleologico, le gite sociali etc.Per me c’è ancora tanto buono …Nonostante tutto (e nonostante molti), sempre orgogliosamente tesserato.Ho slegato il nome del CAI dalla “mia” montagna.Ma non slegherò mai l’UGET dai miei più bei ricordi di quand’ero ragazzino.
Siccome ero in vacanza in Dolomiti ad arrampicare mi sono perso questo articolo e i relativi commenti (peraltro molto civili); vorrei aggiungere i miei five cents.
Io credo che il tutto si basi su un paio di fraintendimenti.
In primis, di solito nessuno si riferisce con il termine “caiano” a tutti i soci CAI o a tutto il CAI, ma solo a un certo tipo di socio CAI e a una mentalità piuttosto diffusa nel CAI, quella associazionistica in senso becero, autoreferenziale e autogiustificata, che non riconosce alcun valore a ciò che non è CAI o che si svolge o avviene al di fuori del CAI. I cultori (ma sarebbe meglio definirli sacerdoti) di tale mentalità spesso vengono definiti anche “Barbacai”, ma non sono tutti i soci del CAI: nessuno si sognerebbe di dare del caiano a Ughetto, per esempio!
Il secondo fraintendimento, tutto di Crovella, è che “sabaudo” non significhi “dei Savoia”: non lo dico io, lo dice la Treccani (www.treccani.it/vocabolario/sabaudo) e i par che basti.
Da parte mia, sono iscritto al CAI, ho insegnato in una scuola CAI per una decina di anni e non sono cero un alpinista di punta, ma sono sempre andato, magari cigolando e scricchiolando un po’ ultimamente…
Trovo che la mentalità “caiana” sia però purtroppo parte integrante del CAI fin dalle sue origini e dai suoi fondatori e sia purtroppo maggioritaria nelle cariche sociali e quindi nella politica e nelle funzioni del CAI stesso.
In questo senso credo che il “Sella affamatore” (o meglio la mentalità di cui era un campione) c’entri perfettamente nel discorso. Così come c’entra la deprecabile frase di Guido Rey sulla tessera.
In effetti la montagna non è in realtà che un mucchio di sassi più o meno coerenti, il lavoro è la punizione che un padrone ha imposto a un uomo che non voleva essere una proprietà e non c’è nulla di peggio della superstizione (o fede che dir si voglia).
Andate in montagna perché è bello, perché siete più felici, per divertirvi, per imparare. Non per essere più forti o per essere qualcuno o per diventare qualcosa.
Certo. Non ho mai sostenuto che tutti i torinesi siano così come li descrivo io, di fatti io parlo sempre di una “certa” Torino (se siete attenti verificherete che scrivo proprio cosi: una “certa” Torino), cioè parlo di un particolare spaccato socio culturale (e inevitabilmente anche economico, ma come conseguenza non come causa socioculturale). Possiamo far coincidere questo spaccato sociale con la borghesia, ma sarebbe cmq impreciso perché non è l’estrazione professionale o economica che determina l’appartenenza a quello spaccato. Infatti non è un merito appartenere a quel sottoinsieme di torinesi, né un demerito: semplicemente ci si nasce e si cresce plasmati dalle “regole” di quel gruppo sociale (e a tal fine la condivisione dell’andar in montagna e’ molto utile). Alcuni poi hanno delle crisi di rigetto e si allontanando anche violentemente dal gruppo (salvo spesso rientrarci con l’eta’), altri si trovano bene fin dall’inizio e vivono proseguendo la tradizione. Vero è che, storicamente parlando, il CAI è stato creato da questa particolare formazione socioculturale ed è stato a lungo suo appannaggio pressoché esclusivo, almeno fino alla II guerra mondiale senza ombra di dubbio (parlo del CAI Torino in senso stretto). Dal dopoguerra sono apparsi invece altri protagonisti della vita alpinistica cittadina e anzi tale fenomeno si e’ via via intensificato. Oggi la realta’ torinese è molto variegata. Ma lo spaccato socioculturale cui faccio riferimdnto io (i cosiddetti “sabaudi”) non sono spariti, anzi, e proseguono la loro tradizione, continuando a credere nei valori che a loro sono cari. Non li impongono agli altri, ma non se ne vergognano e sono anzi fieri di portarli avanti.
Crovella, i torinesi non sono tutti come tu sostieni.
Preciso che non ho mai affermato che la montagna sia l’UNICA scuola di vita esistente, è una delle tante, ma nelle abitudini consolidate di una certa Torino essa (la montagna come scuola di vita) non manca mai, in genere su livelli tecnici medi e non estremi, ma trasversali fra le diverse discipline (estive e invernali) e poi costante nel tempo. Questo è un ideale che noi “carichiamo” sopra i mucchi di sassi e a noi piace così, non vedo cosa ci sia di male. Non lo si impone a chi non sente le stesse cose. Sul tema “derive” vi seguo, anche se parzialmente, perche’ anche qui c’è molta differenza fra come si vive il CAI da noi e in altre parti del paese. Ciao!
caro Cominetti
sono in buona parte d’accordo con te, anche sulle derive.
Ciò che tuttavia mi sembra particolarmente grave è la totale assenza della nobile associazione sugli aspetti di tutela dall’ambiente montano, perchè mi pare uno degli ideali più nobili a cui si possa attendere.
Per rimanere alle terre del marmo, il cai è sceso ad ignobili compromessi, accettando pannicelli caldi (il corchia turistico, una schifezza che in cambio del silenzio sulle cave che hanno sventrato quella montagna, porta quattro beoti con un pulmino in una grotta lungo un percorso attrezzato che ha in parte snaturato uno degli ambienti carsici più importanti d’italia) o andando ad inaugurare ferratine che vengono fatte perchè i sentieri scompaiono per l’apertura di nuove cave (vedi accesso al Giovo, dove il cai invece di incazzarsi per l’ennesimo scempio, ha fatto una bella bisboccia con la stampa e i cavatori che hanno regalato il nuovo percorso).
io credo che chi ha fondato quella associazione un pò di decenni fa si rivolti un pochetto nella tomba.
su questi temi, per ragioni che sarebbe lungo spiegare qui, devo necessariamente usare un nick, ma non vi è alcuna volontà di far caciara dietro l’anonimato.
e quel nick arriva dall’ultimo libro di stefano benni, Giura, che è gradevole e che è un bella dichiarazione d’amore anche al pianeta, alla vita contadina e alla natura.
Codino (e firmati dai…), come non essere d’accordo con te.
Infatti credo che tutti ma proprio tutti condividiamo i valori e gli ideali del nostro CAI: quelli di Sella e Rey, quelli delle “farneticazioni sabaude”, insomma, quelli scritti agli inizi.
Quello contro cui una parte di noi si ostina a opporsi è la DERIVA che tali ideali hanno preso nel corso degli anni.
Vogliamo forse dire che il Cai degli inizi è lo stesso di oggi nei valori e negli ideali? Chi pensa che la risposta sia SI, alzi la mano e spieghi perché pensa ciò.
Io non penso affatto che le montagne siano un mucchio di sassi! Penso che per ognuno rappresentino quello che ognuno ci vede.
Io non penso affatto che la montagna sia una scuola di vita da elevare a unico modello perché esistono altre mille scuole più efficaci e comunque ognuno deve avere la facoltà e la possibilità di scegliersi quella che più gli serve.
Io OGGI non condivido quello che in genere (a parte rare eccezioni) si insegna nelle scuole del Cai e come lo si insegna perché vedo un sacco di persone “rovinate” da una mentalità retrograda e affossatrice di talenti e inclinazioni individuali a scapito di perfezionismi tecnici esasperati che convincono gli allievi che quel tipo di nodo ti salvi la pelle e quello dell’anno passato no.
Una grande maggioranza di alpinisti bravi e/o arrampicatori considera il caiano (o cajota) come lo stereotipo dello sfigato perché quando lo vedi in azione lo distingui immediatamente da tutti gli altri. E la differenza in genere non è in meglio ma in peggio.
Sono cose che mi dispiace dire, perché quando mi sono iscritto al Cai (ormai molti decenni fa) l’ho fatto perché volevo imparare e fare l’alpinismo con altri appassionati, ho conosciuto persone in gamba e mai avrei immaginato che divenisse nel tempo un ricettacolo di burocrati e mangiatori di polenta che in numero superano di gran lunga chi in montagna ci vuole andare sul serio perché ne è appassionato.
Le condizioni di vita, specie nelle città, sono diventati talmente inumane che ci si accontenta anche della bruttezza purché faccia uscire dalla gabbia in cui il sistema tiene chiusi la più parte delle persone. E’ nata così la maledetta “valvola di sfogo” da cui passa tutto il peggio e che indirizza molto di questo “peggio” anche sulle montagne. Ecco, il Cai dovrebbe servire, come faceva una volta, a costituire il ponte che collega la vita metropolitana a quella delle montagne, ma sinceramente, pullmann a parte, non vedo dove e come oggi lo faccia. E lo ribadisco: tranne rare eccezioni.
Ecco perché c’è chi non è d’accordo con l’articolo.
gli ideali caiani: il marmo come risorsa e attrazione fotografica e turistica.
dalla pubblicità su twitter dell’house organ del cai :Le #AlpiApuane, una dorsale che separa il mare dall’entroterra e che racchiude diverse realtà: sentieri, vie di arrampicata, rifugi, bivacchi e, ovviamente, il marmo con le sue cave.Le bellissime foto di Maurizio Papucci sono su Montagne360 di Luglio!”
non una parola critica verso un fenomeno distruttivo.
per fortuna che pare che un pò di ambientalismi si stiano coagulando in maniera spontanea e comincino a sensibilizzare, con manifestazioni (l’anno scorso al procinto, quest’anno al giovo) su un aspetto che non ha nulla di apprezzabile, che ha già irrimediabilmente distrutto luoghi magici (cerchia, val serenata, arnetola, focolaccia, altissimo, sella) e a breve polverizzerà l’intera catena .
però i nobili dalle terga sabaude guardano alla splendida eredità di bisnonno quintino.
storia vecchia, peraltro, perché quando quarantenni fa il chi dormiva, è nata Mountain wilderness per provare a dire qualcosa in tema salvaguardia dell’ambiente alpino.
Il Re è nudo.
Mi sa che qualcuno si è giocato il ruolo di protagonista nello spot ” Montagna scuola di vita”.
Che figura di merda Crovella.
Mi spiace per te Crovella, la mia strada talvolta passa anche di qua.
e talvolta prevede anche che scriva qualcosa, perche mi fa piacere farlo, perche mi interessa comunicare qualcosa alla potenziale platea di lettori.
i tuoi ultimi post mostrano un livore e una pochezza davvero desolanti e del tutto sproporzionati ai temi e al contesto.
r
Certo, si dice turilla: trattasi di un refuso, così come nel tuo commento 50 e’ venuto “auello” anziché “quello”. Mettici un po’ di acume e lo comprendi da solo. In generale: scrivete pure quel che diavolo volete, non mi interessate come persone, tanto meno nella considerazione che ho di voi (parlo al plurale perché mi riferisco anche a Cominetti). Non mi interessa affacciarsi la’ fuori, né tanto meno mescolarmi con altri, meno che mai con voi due. Il disprezzo che provo per voi, che scriviate o meno i vostri contributi, non vi rende interessanti per me. Tirate dritto per la vostra strada che alla mia ci penso io. In ambito professionale in 35 anni hanno coniato diversi soprannomi per me, da Panzer division a Tienammen (se non cogliete i riferimenti storici di quest’ultimo, chiedete a Pasini, che se lo ricorda di certo). Non mi intetessa confrontarmi con voi due. Chiudo ogni contatto con voi due.
Ma non era la buridda? Ah, no, i sabaudi hanno la bagnacauda, scusate.
Vista l’origine campana del cognome Crovella, forse il termine è giusto. Ma non mi sembra importante, dai.
Proporrei un “reset” per tornare in tema Cai.
Certo che il titolo fantozziano ha fatto si che l’argomento si prestasse anche a divagazioni. CVD.
Turiila, Crovella, attaccar turilla. almeno in sicilia.
magari la burilla è sabauda 😁
Crovella, ricorda che la calma è la virtù dei forti.
Fai più respiri prima di rispondere, ti farebbe bene, perché così ti riveli per l’opposto di quello che dici di essere.
Nessuno ce l’ha con te. Si possono avere idee opposte o discordanti ma è meglio restare nella sobrietà. Oltretutto sei tu che esibisci nobili origini, principi e comportamenti. Dove sono adesso che ti scaldi? Sono tutti capaci a essere contenti perché tutti gli danno ragione. Ora non è così, fattene una ragione (e scusate le ripetizioni).
Rifletti e forse è la volta buona che ti fai qualche domanda a cui non hai la risposta pronta. Il mondo è la fuori, affacciati. Ciao
Caro crovella, direi che il tuo ultimo commento ti qualifica.
Se non ti spiace leggo ed esprimo le mie opinioni su quello che ritengo opportuno, perche anche cio che non condivido puo offrire spunti di riflessione.
Non me ne frega nulla di far polemica con te, da tempo ti considero una persona con cui è inutile confrontarsi ma auello che scrive a volte mi stimola ad esprimere idee suo temi affrontati.
Dovrebbe essere la base di qualunque confronto e del vivere civile, sia reale che virtuale.
Ed è per questo che il disprezzo è un sentimento che non mi appartiene, neanche riguardo ai miei peggiori nemici, figurati per uno che scrive scemenze in un blog
@46: appunto, se sai già a priori che i miei interventi ti si rivelano penosi, fai che saltarli del tutto, non dovresti neppure aver tempo e voglia di apporre commenti. Se lo fai, è solo per “attaccare burilla” (come dice Montalbano). Questo è il motivo per cui infastidisci, ma è anche il motivo per cui ti disprezzo
Per quello che mi riguarda e per quello che può interessare, nel commento 27 Cominetti ha espresso con ammirevole sintesi ciò che penso. Mi irrita profondamente chi pensa che gli imbecilli siano sempre gli altri, che la propria idea sia ovviamente quella giusta e che taglia i ponti rinunciando perchè solo lui ha la verità in tasca. Queste persone difficilmente creano qualcosa di positivo ed anzi distruggono ciò che gli altri faticosamente fanno. Il CAI è lo specchio della situazione che viviamo ogni giorno, fatta di lobby, gruppi di potere e persone che vengono trascinate da potenti ed interessate campagne stampa. Ne migliore ne peggiore. Rimane fermo l’aforisma di Carducci
“chi riesce a dire con venti parole ciò può essere detto in dieci è capace pure di tutte le altre cattiverie”
Per ciò che attiene le patacche, ho già tranquillizzato tutti; tra poco non ce ne saranno più, almeno nelle scuole; non manca tanto. E allora spero che le migliori menti ci illumineranno con le loro sfavillanti idee.
Dino Marini
Io per coerenza, se ogni tre per due definissi cannibale chi vive la montagna in modo diverso dal mio, avrei poi l’accortezza di non impermalirmi troppo se qualcuno da dei giudizzi non troppo lusinghieri sulle mie opinioni.
Trovo leggittimo che ognuno dica la propria , siamo qui anche per questo…quindi smettiamo di fare troppo le vittime, anche se capisco che sia un utile modo per far sembrare più scintillante la nostra superflua armatura!!
spernacchiamento era in senso metaforico, non mi pare di aver utilizzato nel mio precedente commento, alcun termine men che rispettoso nei contenuti e nella forma.
quanto al marchese del grillo, temo tu non abbia visto (o compreso) il film e il relativo rifermento.
qui l’unico che continua a parlare di nobili terga, con una continua ripetizione dei tre concetti e tre richiami letterari che riporti da oltre un anno.
L’effetto è decisamente penoso (etim. da pena: si fa fatica a leggerti, io personalmente salto sempre il contenuto, salvo leggerlo se mi incuriosisce qualche commento delle persone che apprezzo…).
Le montagne non sono ovviamente mucchi di sassi (tantomeno epr meche le frequento da 50 anni), sono quello che ognuno ci vede, ma in se non hanno nè una funzione pedagogica nè elevatrice che non abbiano anche il mare, la strada o un ospedale.
tutto dipende dall’uomo, non dai simboli o dagli ideali di qualche club bacucco e – tantomeno – dai corsi cai, dove certamente – come in ogni contesto ci sono persone in gamba e altre meno.
le tue idee sono ferme ai primi del novecento e alla fontana di giovinezza di guido eugene lammer, libero di esprimerle, ma preferisco quelle di conz nel pezzo di questa mattina
Non traviso proprio niente. Certo che ci sta la dialettica, ma un conto è la dialettica signorile e reciprocamente rispettosa come si insatura con alcuni commentatori: idee magari molto diverse, ma gran piacere nel confrontarsi. Altro paio di maniche è la dialettica infarcita di spernacchiamento, come capita con alcuni di voi (pochi, grazie a Dio, ma estremamnente fastidiosi): per cui come voi spernacchiate me, io spernacchio voi e lo faccio a gran voce. Chi vede le montagne solo come dei mucchi di sassi e basta è liberissimo di farlo, ma è vero che io lo giudico nello stile del Marchese del Grillo
Caro Crovella
nessun odio e nessun rodimento, travisi – more solito – quel che leggi.
Mi pare tuttavia esercizio di un legittimo diritto di critica e di dissenso contestare la tua visione celestiaca di una associazione che ho conosciuto bene dall’interno, che ha assai più di un lato oscuro e che è tutt’altro che una scuola di vita, salvo che per tale non si intenda una esistenza all’insegna del peggior camaleontismo, compromesso e immobilismo all’italiana.
Come club ha avuto negli anni (specie nel dopoguerra) il pregio di riunire persone che in quel contesto hanno potuto conoscersi e condividere interessi comuni, ma per la mia esperienza ciò ha funzionato quando vi era sintonia personale fra quelle persone, non per gli ideali nobili della patacca che li univa.
hai tutto il diritto di esprimere la tua visione, ma ci vorrai riconoscere il medesimo diritto di dissentire e di esprimerlo (argomentando per fatti), nonchè di dirti che la reiterazione da un anno a questa parte del solito scritto sulla nobiltà sabauda, gli ideali caini/caiani/caioti sia diventata stucchevole e anche un pò ridicola.
Si chiama, banalmente, dialettica.
Visto che scrivi (sempre la solita cosa) in un sito pubblico, non puoi reagire con un infantile “se non vi piace il cai statene lontani”. quello lo facciamo già da tempo..
Non è una valutazione sulla persona, ognuno è libero di credere in quello che più ritiene e anche di sostenere che i gulag erano straordinarie forme di aggregazioni sociali, tuttavia non si stupisca se qualcuno ogni tanto lo spernacchia energicamente.
Aridamba romba cojote semper ;o)
Se sia già come la penso (e non ti piace), quando vedi un mio articolo evita di avventurartici. Salut!
E comunque per tua stessa ammissione vivi in un “giro” che è quello che ti da le conferme che cerchi. E’ scritto a chiare lettere tra le tue ridondanti parole sempre uguali come un mantra. Se provassi a uscire dal “giro” forse vedresti (ho i miei dubbi) anche altre realtà per poi trarre le conclusioni che spettano a ognuno.
Ho il massimo rispetto per te e quelli che come te la pensano, non nutro sentimenti di odio o cose simili, ma trovo imbarazzante e che “faccia tenerezza” il sostenere ciecamente pensieri così privi di elasticità e sempre e solo che riconducono a te stesso. Leggerti diventa fastidioso, ma per capirlo bisogna leggerti, haimè. Ma va bene, scusa il piccolo sfogo, ma mi impongo spesso di rileggerti perché mi dico che magari avevo capito male e invece no. Avevo capito alla prima, questo è il punto! Poi su tante tue cose sono perfettamente d’accordo e comunque non penso che nessuno dei partecipanti al blog voglia che tu non scriva più i tuoi pensieri.
Accetta che ci sia chi non la pensa come te e che semmai è fomentato dalla tua poca apertura di visioni, a dire la sua. W Crovella e W il Cai!
Aridanga Rombacojota.
Crovella permettimi di dirti che il tuo ultimo commento è totalmente inutile perché chiaramente condivisibile da chiunque.
Sui valori e gli ideali del Cai penso che tutti siamo d’accordo. Chi non lo è, è perché nota che sempre più sono disattesi. Comunque tu hai dimostrato sempre una perfetta sintonia con il sistema creato da qualcun’altro e quindi nulla da eccepire sui tuoi rigidissimi pensieri che sicuramente hanno chi li apprezza. Esattamente come c’è chi apprezza idee diverse e/ più o meno contrastanti.
Sul blog ci può scrivere chiunque e, secondo me, è molto interessante constatare una varietà di opinioni perché dà spiegazioni pure antropologiche sul mondo in cui viviamo e sul perché certe caratteristiche personali lo influenzino.
Se NON vi piace il CAI, stateci pure alla larga, è un vostro sacrosanto diritto. E d’altra parte il CAI di tutto ha bisogno tranne che di persone che non si identificano nei suoi ideali e nei suoi valori. Però il punto è un altro. L’impressione che date è che non vi va giù che ci siano altre persone cui invece piacciono proprio i valori del CAI, così come in altre occasioni (cioè su altri risvolti del grande tema della montagna) non vi va giù che ci siano persone che hanno idee e valori dissimili dai vostri. Anzi, di più: la cosa che in particolare vi disorienta e vi infastidisce maggiormente è che tali altre persone siano addirittura accreditate a scrivere su questo Blog, come se un accreditamento del genere fosse una legittimazione e quindi, ai vostri occhi, un’eresia incomprensibile e insopportabile. Le montagne sono belle proprio perché le persone più diverse ci trovamo le risposte ad esigenze che sono le più diverse. A me, per esempio, piace moltissimo l’ideale della montagna scuola di vita e i feedback che mi tornano dagli altri componenti del mio “giro” confermano la fondatedezza ideologica di tale visione. Sarebbe sbagliato imporla a tutti, ma è altrettanto sbagliato denigrarla per partito preso. Lo spazio del Blog è, giustamente, a disposizione di ogni contributo e di ogni ideologia, per cui si trovano scritti diversi e anche “alternativi” fra di loro: la reazione corretta agli scritti degli altri, anche se”caiani”, è quella di Pasini, che (nonostante la sua visione non certo “caiana”) per intelligenza e profondità di vedute sa cogliere il valore poetico-esistenziale delle esperienze altrui. Buona giornata a tutti!
Dove si vota per Ginesi presidente del CAI? Sono anche disposto a re iscrivermi al Nobile Sodalizio dopo 33 anni.
Ginesi ha detto tutte cose vere sul serio.
Questo è il bello…
@cominetti 36: idolo, allo stato puro :o)
ho militato nel cai dal 78 al 2014 (ma dal 2004 in poi solo perché era obbligatorio per stare nel soccorso), mi sono dato da solo l’aquila d’oro perchè in quel momento ero presidente di sezione, sono stato a lungo istruttore di alpinismo e mi sono anche parecchio divertito, ma solo perché in quegli anni c’era un gruppo affiatato di amici che si sarebbe divertito anche sotto l’egida dell’associazione Aridanga Rombacojota.
quanto al cai istituzione, ho creduto a lungo (per filosofia di vita) che si potesse lavorare più efficacemente dall’interno che facendo i disfattisti dall’esterno, ma ad un certo punto ho capito che era pura utopia, quando ad una assemblea dei delegati a bergamo feci un intervento accalorato sull’eolico – che in quegli anni (primi 2000) imperversava come energia pulita e dalle mie parti si prefiguravano ventilatori dal lagastrello alla cisa e c’erano anemometri ovunque – portando un dossier scientifico (che aveva elaborato carlo ripa di meana con il suo comitato per il paesaggio e c he era assai ben fatto) che dimostrava come l’eolico in quei termini avesse un impatto devastante sotto il profilo ambientale e fosse un impianto industriale a tutti gli effetti, con interessanti risvolti economici solo per chi lo installava (infatti interessa ancor oggi molto alle mafie…)
il cai aveva una posizione penosa, che sostanzialmente diceva “un pò brutto ma se si deve fare facciamolo”.
Fui fulminato da Annibale Salsa, persona che mi sembrò incarnare la peggior anima del cai (e che infatti divenne poco dopo presidente) mentre Gabriele Bianchi all’epoca presidente generale, si prese a cuore la questione e promise una nuova riflessione, dopo qualche mese usci un comunicato che in sintesi – rispetto al precedente – diceva “certo impianti molto impattanti, da valutare, se proprio non se ne può fare a meno facciamoli”.
Diedi le dimissioni da qualunque carica, salutai garbatamente e pensai che il termine caiano, in senso dispregiativo, era perfettamente calzante (anche per molti altri risvolti della mia vita da istruttore che non merita qui di riferire).
A quello potrei aggiungere la “significativa” posizione del cai sulle cave in apuane (non pervenuta…)
la questione ambientale è per me essenziale, ma anche quella tecnica non scherza: il cai per anni ha combattuto il metodo caruso, salvo poi scoprirlo tutto in colpo, così come l’arrampicata sportiva. un caro e fraterno amico ha scardinato alcuni dogmi fondando la prima scuola di arrampicata libera in Italia (la scuola monte muzzerone) e ricordo ancora le garbate posizioni di scherno (inversamente proporzionali alle loro capacità tecniche) di alcune eminenze grigie sabaude quando io, appartenente a quella scuola, feci il corso istruttori nella delegazione LPV nei primi anni 90
Anche se ogni generalizzazione contiene in sè un baco esiziale, oggi quando vedo gruppi monturati e pataccati mi tengo a debita distanza…
quanto alla montagna scuola di vita, la trovo una sola micidiale. gli imbecilli affollano senza distinzione ogni ecosistema, in pianura o meno che sia, e devo dire che in montagna forse ne ho trovato più in che in pianura.
e dire che, per mestiere, di squinternati ne incontro quotidianamente parecchi (se preferite di soggetti che rappresentano gli aspetti patologici dell’essere umano sotto il profilo delle condotte sociali).
LA montagna è un mucchio di sassi, non forgia e non insegna nulla se non in una logica lammeriana, è la vita che ti insegna a vivere, se la vuoi guardare (è assai più addestrante un reparto di oncologia , dove si capisce il senso della vita e la sua precarietà e dove una semplice alba in montagna diventa una meta dal sapore intenso) e se sei imbecille rimarrai imbecille anche facendo otto mila corsi caiani.
Sulle nobiltà sabaude e l’etica crovelliana non mi dilungo ma, essendo divenuto ormai da anni metà capitolino per matrimonio, oltre a trovare insopportabile la solita nenia ripetuta all’infinito, devo dire che a me ricorda tanto il marchese del grillo, “io so’ io e voi ‘un siete un c….” e mi fa quasi tenerezza.
Aridanga Rombacojota (cit. Nino Manfredi in Riusciranno i nostri eroi a ritrovare il loro amico misteriosamente scomparso in Africa).
Be’, direi che il capocordata su vie alpine è meglio se non cade anche oggi.
Lezione teorica di corso Cai sui materiali 1): questo è un Cliffhanger. Non lo userete MAI! (Cit. Sergio Casaleggio INA Sez. Ligure, anno 1978).
2) questi sono gli scarponi da alpinismo e arrampicata che userete a Finale e sul Bianco. E poi “ghe sun ‘ste scarpe da bulicci chie” -indicando un paio di scarpette da arrampicata a suola liscia-. (Cit. Vittorio Pescia, direttore, primi anni ’80, intraducibile). Caiani o caioti lo siamo almeno stati un po’ tutti.
Le cose caiane a qualcuno escono dalle orecchie mentre ad altri piacciono. Bene che ci siano anche i testi caiani e sabaudi altrimenti lettori come me non avrebbero interesse a venire qui. A chi non piacciono, basta che non li legga
Primo insegnamento dei miei istruttori al corso roccia del CAI di Modena: “Il capocordata non deve cadere”.
In che anno? Ve lo dirò solo sotto tortura…
chi vola vale, chi non vola è un vile, chi vola in montagna non vive!
detto caiano…?
meditate gente meditate…
Non è che il tentativo politico fatto ai tempi di Salsa di unire il cai al tci, che chiedeva di togliere il primo articolo dello statuto, abortito per questo motivo, ha fatto degenerare e incancrenire questo club ?
Era un obiettivo che si discuteva nei consigli.
Raduno Cai con Anton aus Tirol oppure Trubaires de Comboscuro. Anche Gigi Botto e la sua fisarmonica indiavolata non stonerebbe.
Il Maestro Morricone lasciamolo in pace, per piacere.
Fabio, era un’intuizione più che un volo (alla scuola Parravicini del Cai nel giurassico i miei istruttori mi dicevano non volare mai, piuttosto attaccati al chiodo). CAI che rende accettabili e popolari alcuni temi devanti, asociali, distruttivi presenti nell’andare per monti (anche se qualcuno fa finta di non vederli o li considera devianze o “irregolarità”, preso dal suo ideale di normalità e buoni sentimenti) e Morricone, musicista colto ed eclettico, che rende popolari alcuni temi più trasgressivi della musica pop e rock. Vedrei bene Morricone come colonna sonora di un raduno Cai. Altri stonerebbero.
Roberto, confessa: col tuo ultimo commento hai voluto spiccare il volo. Volo pindarico…
Pasini, premetto che la mia competenza musicale non si allontana troppo dallo strimpellatore, ma mi diverto a suonare, tutto lì.
Detesto ogni discorso che mi sa di perbenismo e parlare della morte di Morricone (per quanto anch’io ne sia dispiaciuto perché si tratta di un artista che non si può non stimare) mentre si sta cercando di mostrarsi caiani, borghesi sabaudi e tutte quelle cose lì che ormai ci escono dalle orecchie, mi è sembrato, a pelle, assai inopportuno e pure leccaculo. Cosa vuoi che ti dica!?
Solo una sana e consapevole libidine salva l’uomo dallo sport e dall’azione cattolica. Sarò figlio della madre di un’idiota, ma voglio essere leggero e pensarla non da caiano o caiota.
Non l’ho mai scritto qui, ma riconosco al Cai il grande merito di dare la possibilità a molti di avvicinarsi alla montagna, di organizzare eventi culturali, di tramandare la storia, ecc. però non mi è mai piaciuto come lo fa.
Ognuno ha i suoi gusti.
Cominetti, io non ho minimamente la tua competenza musicale, ma non mi è sembrato casuale l’emergere dall’inconscio del blog della connesione Morricone – CAI (quello reale e non l’archetipo). In fondo una parte significativa della musica di Morricone, esattamente come il CAI, rende fruibili ad un pubblico ampio ed eterogeneo, addolcendoli e semplificandoli in modo creativo, temi più aspri, rudi, trasgressivi ed elitari. Inoltre la sua musica evoca e produce emozioni immediate. Esattamente come polenta-salsicce-vino- canti alpini, un mix di sicuro effetto, a cui neppure il più rude, estremo e selvaggio rokkettaro può resistere: non può che lasciarsi trascinare dalla forza della commozione, compresa la lacrimuccia finale. E’ la potenza dei riti sociali. Come il cinema popolare evocato da Tornatore (il regista preferito da Morricone) : condividere insieme ad altri emozioni semplici e forti. Tutto si tiene. Ambiti e strumenti diversi ma effetti simili.
Di questo passo mi aspetto un gruppo mascherato di vendicatori al Politecnico per tirare giù la statua di Quintino, dopo averla debitamente imbrattata. Sella responsabile della montagna affamata, la madre degli ignoranti è sempre incinta
Ho la netta impressione che il grande Maestro Ennio Morricone e il CAI tra loro non c’azzecchino per niente.
L’Avvocato non ascoltava musica.
Ennio Moricone con la sua musica, ha dato voce, scandendo i momenti nei lunghi silenzi in molte delle scene dei film di Sergio Leone. Questi film senza quella musica non sarebbero gli stessi.
C’è un tarlo di fondo in alcuni contributi, ovvero la convinzione che io desideri descrivere le mie esperienze di vita e di montagna per dimostrarne la superiorità ideologica e, oserei dire, addirittura “politica”. Non è così: io descrivo le mie esperienze perché, banalmente, sono quelle di cui ho “esperienza” diretta. E’ naturale che a me piaccia moltissimo questo modello esistenziale, mi ci “trovo” proprio bene, mi sono molto divertito a viverlo e continuo a divertirmi, ma (come dicevano gli antichi) “de gustibus non est disputandum” (in piemontese si dice “non tutti i gusti sono alla menta”, mi raccomando: la “e” molto larga…). In ogni caso, storicamente parlando, vi sono innumerevoli conferme che l’esperienza in montagna sia un tassello basilare (quasi un passaggio obbligato) nella formazione dei giovani rampolli di una “certa” Torino: il primo esempio che mi viene in mente è Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, quando appunto racconta che il padre conduceva lei e i suoi fratelli in faticose escursioni sulle Alpi.
Di conseguenza ognuno porta al dibattito un contributo che affonda nel proprio vissuto. Se avessimo tutti la stessa mentalità (e le stesse esperienze di vita), dopo un mese nessuno verrebbe più a leggere gli articoli perché tutti diremmo le stesse cose. Il bello del confronto dialettico presuppone diversità di gusti e di opinioni.
Tornando alla Torino “sabauda”, all’importanza dell’andar in montagna nella formazione individuale della relativa borghesia, alle montagne “simbolo” del nostro circondario e, non ultimo, alle donne torinesi (dalla personalità molto particolare…), una descrizione romanzata di tutto ciò, inserita in una trama di fantasia, compone il testo “Ladri di anime”, di cui il Blog si è occupato qualche tempo fa: https://gognablog.sherpa-gate.com/ladri-di-anime/ (Al fondo di quel post si trovano le istruzioni per richiedere l’e-book, in distribuzione gratuita via mail).
Buona giornata a tutti!
Ennio Morricone ha certamente scritto fantastiche colonne sonore da ascoltare… in salotto! ma quando esco rotto e stracciato dai camini della Marmolada mi sostiene assai di più l’anarchico martellante ritmo dei Sex Pistols o nei passaggi estremi aperti da Vinatzer mi serve lo sprint energetico degli AC/DC e per resistere ai lunghi e pericolosi ritorni del Sassolungo o del Crozzon di Brenta mi serve il rock’n blues suadente dei Doors con la voce ipnotica di Jim Morrison per andare oltre alle porte della percezione…
Queste musiche rock, assieme a Mozart, Beethoven, Vivaldi, hanno accompagnato i miei dubbi esistenziali negli alti e bassi della vita quotidiana assieme ai tanti dubbi alpinistici (attacco o non attacco… materiale da bivacco si o no?).
Insomma a modo nostro, anche se non siamo borghesi sabaudi, siamo anche noi poeti ….maledetti!
Buona montagna a tutti!
È con struggente nostalgia che do’ l’addio a Ennio Morricone che ci ha lasciato la notte scorsa. Le sue musiche hanno accompagnato la mie esistenza e, in particolare, i miei giorni in montagna. Di tutte la più adeguata e la colonna sonora di Nuovo Cinemo Paradiso, che, “riadattato” alla mia persona, potrebbe essere la storia di me alpinista: dapprima giovanissimo, come il ragazzino del Cinema, poi uomo fatto che si stacca verso altri lidi e infine torna a rivedere gli spezzoni tagliati, con il rimorso per quel mancato appuntamento giovanile.
Contrariamente a quanto possono pensare molti lettori, il modo in cui ho vissuto e vivo ancora l’andar in montagna è per me fonte di struggenti emozioni, come forse non saprebbero darmi una via estrema o un passaggio ardito. Ha colto giusto Pasini: la montagna è per me poesia, poesia pura. Ciao, Ennio.
“Ma basta la” come direbbero a Torino. Da Quintino Sella affamatore al Nuovo Mattino che libera il proletariato dalle sue catene. Non si finisce mai di stupirsi. Eppure dovrebbe essere chiaro. Un blog è come una testata giornalistica. Escono “pezzi” diversi, magari scritti anche dallo stesso autore, che hanno uno spirito diverso. Qui ha parlato uno dei tanti Crovella ( come ha lui stesso dichiarato, se non sbaglio a contare sono cinque, come peraltro accade a ciascuno di noi). Non è lo storico del Cai ma il Crovella che io chiamo poeta. In questo contesto il CAI è un mito: l’unione fraterna e solidale di persone intorno a una serie di valori che vengono trasmessi di generazione in generazione. Un archetipo insomma, antitetico all’archetipo del cavaliere libero e selvaggio, con la sua moto e la sua chitarra che fa capolino in interventi di altri. Insomma un po’ come il Cristianesimo del famoso (si parva licet…..)”Perché non possiamo non dirci Cristiani”. Poi c’è il CAI reale, ma questo, gronda di miserie e colpe, vedi epoca fascista ad esempio, esattamente come il Cristianesimo reale (perdonate l’accostamento ardito). Ma i piani vanno distinti, altrimenti non si capisce più niente. Una cosa è la storia, una cosa è la poesia. Poi ovviamente ognuno ama poeti diversi, magari contemporaneamente, perché sono aspetti che coesistono dentro di lui. Mamma mia, dove sono finito, a fare l’esegeta crovelliano.. quanti anni di purgatorio tutto questo mi costerà???
Quintino Sella, spinto dalla “buona” borghesia sabauda, oltre ad aver fondato il CAI, ha anche introdotto l’odiosissima “tassa sul macinato” che ha portato fame e miseria in montagna.
Questo ho appreso dai miei nonni e bisnonni contadini costretti alla pellagra…
Questo è l’altro lato della medaglia delle nobili visioni crovelliane.
Per fortuna che poi è arrivato, almeno nell’alpinismo, il Nuovo Mattino, a ristabilire nuove regole e nuovi valori. Da allora il CAI e le tante altre associazioni alpinistiche sono rimaste ferme, superate e forse assimilabili a delle agenzie di viaggio di montagna.
sono d’accordo con queste parole di Manera.
Questa affermazione è solo retorica e anche di quella presuntuosa. Tutto nella vita è scuola di vita: il lavoro, il divertimento, le gioie, le malattie. Perchè dovrebbe esserlo la montagna e non il mare ad esempio?
Quello che posso dire che attraverso la montagna o allargato certi orizzonti, ho conosciuto tanta gente, anche molto lontana dai miei luoghi di vita di tutti i giorni, dalla mia cultura. Anche se a volte mi viena da pensare, che certi orizzonti si siano allargati, mentre altri ristretti. Nel senso che se non ci posso andare mi manca forse troppo, che la mia vita è molto condizionata dalla montagna.
Il CAI in tutto questo? Il CAI c’è perchè ho delle patacche, ma non più di tanto.
Anche come scuola di alpinismo di cui faccio parte è stata sempre un pò ai margini.
(Non che il CAI sia privo di difetti: struttura elefantiaca, ministeriale, con tempi biblici, roccaforte del conservatorismo (sia tecnico che ideologico) e con zone d’ombra là dove, nel corso dei decenni, i giri di denaro sono inevitabilmente lievitati. Mi sono lucidamente chiari i difetti del CAI e da tempo sono impegnato in prima persona (anche con aspre prese di posizione) per correggerli e migliorarli, ma rivendico la bontà dell’ideale di fondo.). HAI OTTENUTO QUALCOSA CARO CARLO?
– consegnato la medaglia per 50 anni consecutivi di appartenenza alla Sezione.
La mia sezione MAIELLA CHIETI, non mi ha nemmeno consegnato la medaglia dei 25 anni,(neanche agli altri soci…). SEMBRA PER MANCANZA DI SOLDI! Anch’io cerco di dare consigli, (è stato accettato il pagamento del bollino ONLINE), ma snellire L’ORGANIGRAMMA DI UFFICIO PUBBLICO, ELIMINARE TUTTE LE SIGLE DOVE CAMBIA UNA VOCALE O CONSONANTE, RIDURRE I DU… E TRIPLICATI DELLA STRUTTURA DEL CAI, sarebbe sbagliato? Non mi arrendo, educatamente, senza critica ma, evidenziando la realtà ci provo ancora
“Una corsia sooolaaa!” così direbbe il Briatore imitato da Crozza con riferimento all’autostrada della Val Susa, al momento martoriata da diversi cantieri. Per tale motivo, ho evitato il rientro ieri pomeriggio, rinviando le puntualizzazioni dal pc dell’ufficio, una volta smazzate le incombenze professionali del lunedì mattina.
1) La considerazione generale è che io NON intendo imporre alcunché a nessuno, rivendico tuttavia il diritto ad esistere della visione che spesso si definisce “caiana” con volontà spregiativa. E ne rivendico anche i risvolti positivi, che esistono e vanno evidenziati.
2) E’ vero, sono un figlio della borghesia torinese, non tanto in senso socio-economico, ma piuttosto perché educato e direi quasi forgiato in tale direzione. Di tale visione ideologica, il CAI è un elemento chiave, ma non certo l’unico: dal Club di Scherma alle società remiere, dal Teatro Regio ai Martedì dell’Unione Industriale, la vita è costellata di una miriade di impegni, stimolanti e gratificanti. Una trasposizione letteraria si trova nel mio romanzo “Ladri di anime”.
3) Certo la visione della borghesia sabauda (ricordo che “sabaudo” NON ha nulla a che fare con la dinastia dei Savoia, che anzi sono quanto di più anti-sabaudo sia mai apparso sulla terra…) comporta una certa visione del mondo, che abbraccia anche l’andar in montagna, ma che è infinitamente più ampia. Trattasi di una visione ideologica di stampo liberal-democratico, moderatamente conservatrice. Nella parete dietro alla scrivania professionale di mio padre (quando ero ragazzo) era appeso il motto di Luigi Einaudi “Conoscere per deliberare”. Ricordo che Luigi Einaudi è stato il primo Presidente della Repubblica italiana. In una cena al Quirinale, giunti alla frutta, disse ai convitati: “Io mangio solo mezza di questa mela, chi desidera l’altra metà?”. L’aneddoto è molto “sabaudo” e non sto a spiegarlo nei dettagli, chi lo vuol capire lo comprende al volo. Il punto non è se sia bene o male questa visione, il punto importante è che un qualsiasi individuo deve sempre essere coerente con le sue idee e mi pare di non aver mai derogato: non è un caso, quindi, se nella mia vita professionale, fra i tanti interlocutori istituzionale, io collabori ancor oggi con il Centro Einaudi. A Pasini potrebbe interessare il mio ultimo output in materia: https://www.quadrantefuturo.it/congiuntura/sistemi-industriali-quale-riorganizzazione-produttiva-nel-dopo-epidemia.html
4) Rassicuro tutti i lettori che la mia vita è tutt’altro che “piatta” e “preconfezionata”, ma anzi molto attiva e sempre “in itinere”, come piace dire a me. Qui sul Blog voi avete riscontro di uno spicchio della mia attività letteraria di montagna (che si estende sistematicamente anche oltre il Blog), ma essa costituisce uno dei miei mille interesse culturale. Con pari alacrità scrivo e mi impegno in svariate altre iniziative, anche di tipo “politico”, in termini di collaborazioni con varie entità per organizzare incontri, tavole rotonde, dibattiti ecc sui più svariati temi di attualità e di vita quotidiana. Ovviamente che io parli di montagna oppure di immigrazione, di burocrazia oppure del progetto di un parcheggio sotterrano comunale (tanto per citare un esempio di “spicciola quotidianità”), le mie posizioni sono sempre allineate alla mia ideologia che non è certo… “trokzkista”…
5) Torniamo alle montagne. Io non vedo le montagne come dei semplici mucchi di sassi, ma vedo in loro un’anima umana, cosa che le rende magiche ed affascinanti ai miei occhi. Trattasi di una scelta eslusivamente soggettiva. Inoltre è ovvio che ciascuno carica le montagne (“umane” o “mucchi di sassi” che siano) con la sovrastruttura ideologica che piace a lui. Per educazione ricevuta e per genuino convincimento personale, io tendo a privilegiare il ruolo delle montagna come “pretesto” per insegnar a stare al mondo nel senso più ampio del concetto (“Montagna scuola di vita”). E’ ovvio che tale concetto crea gratificazione se viene ricambiato dai destinatari degli insegnamenti: può darsi che, sotto questo aspetto, il fenomeno sia pressoché esclusivo dello specifico spaccato sociale cui appartengo (la “borghesia sabauda”). Ci vogliono gli allievi già predisposti per far sì che il giochino regga. Sta di fatto che, ancor oggi, non c’è gita in cui non incontri qualcuno che, essendo stato allievo delle varie scuole in cui mi sono impegnato (in particolare quella di scialpinismo della Sucai Torino) non venga a salutarmi per ringraziarmi degli “insegnamenti” che ha ricevuto da me (come da altri Maestri). Il sentimento di gratitudine è però provato anche da me verso i miei Maestri di montagna e di vita, cioè gli istruttori di quando io, imberbe 16enne, mi sganciai dall’alveo paterno per entrare come allievo nella Scuola. Questi istruttori solo “apparentemente” mi hanno insegnato il nodo X o la tecnica Y, ma attraverso una serie di esperienze condivise (come fare lo zaino, come e quando mangiare o vestirsi durante la gita ecc ecc ecc) hanno completato la mia preparazione per stare al mondo anche al di là dei confini dell’andar in montagna. Così come i “miei” allievi esprimono gratitudine nei mie confronti (magari venendomi a salutare dopo oltre 30 anni da quando sono stati allievi…), analogo sentimento io provo verso i miei Maestri e lo si può desumere da interventi come questo: https://www.caitorino.it/montievalli/2018/09/12/ricordo-flavio-melindo-scuola-sucai-scialpinismo/
6) In tal modo si è creata una specie di staffetta generazionale che ai miei occhi è infinitamente più importante del grado di difficoltà superato nella tal uscita, privata o istituzionale, in montagna. Infatti le due visioni (evoluzione individuale in campo alpinistico e “montagna scuola di vita”) tendono ad escludersi a vicenda. Chi è interessato alla crescita personale non accredita granché l’altra visione e viceversa. Tuttavia questa seconda (la visione educazionale) non esclude che ci si sappia muovere adeguatamente in montagna a titolo personale. Per esempio, già a 21 anni sono stato il corodinatore di una “spedizione” al Monte Bianco con gli sci (per i Grands Mulets): 27 partecipanti, 22 in vetta, compreso il diretto coinvolgimento nel recupero con il paranco di un francese che, slegato, era finito in un crepaccio in piena notte (pur essendo cliente di una giuda, che manco ci ha ringraziato). Forse ho sacrificato qualcosina in termini di performance personali (anche se non mi lamento neppur su questo risvolto preciso), ma certamente condurre una Scuola di 200 e “pussa” (piemontesismo..) partecipanti in traversate invernali impegnative e (al tempo) semi-sconosciute significa sapersi muovere adeguatamente in montagna. La mia attività personale (sia con gli sci che in estate) è la conferma esplicita che non è necessario essere degli ottavogradisti per dare sfogo al desiderio di esplorazione, magari anche sulla montagna dietro casa…
7) E veniamo infine al tema sollevato dall’amico Manera. Non è questione nuova perché ricordo che mia padre (all’incirca negli anni ’70) a volte tornava dalla sedute del Consiglio del CAI Torino raccontando di accese discussioni collettive con Ugo sulle finalità, di un alpinismo di punta o di livello medio, del CAI. L’oggetto al tempo era incentrato in particolare sull’organizzazione (e sull’eventuale contributo finanziario istituzionale, sottraendolo ad altre voci di bilancio) di spedizioni verso montagne extra europee. Cito ricordi improvvisamente riaffiorati dal profondo della memoria e potrei essere impreciso sul punto, nel caso chiedo scusa a priori. Veniamo all’oggi: io personalmente non sono affatto contrario che nel CAI vi sia ANCHE (ma non solo) lo spazio per l’alpinismo di punta. Tuttavia credo che tale spazio vada coltivato e tutelato da chi è interessato a quel tipo di attività: non si può chiedere a chi non è un alpinista di punta (per scelta ideologica o per mancanza di talento) che si preoccupi di tutelare il relativo spazio all’interno del CAI. Stupisce che tale considerazione provenga (genericamente parlando) dall’ambiente della Scuola Gervasutti, che notoriamente è il contesto ideologico per l’attività “di punta”: non a caso dal dopoguerra tutti gli alpinisti piemontesi (e non solo) di prima importanza sono transitati dalla Gerva, chi per decenni come Ugo, chi solo per uno o due anni come Guido Rossa ecc. L’unica eccezione è forse Andrea Mellano che notoriamente non ha mai amato far parte di contesti istituzionali. Io ho molte conoscenze umane all’interno della Gervasutti (in alcuni casi si tratta di vere amicizie, anche pluridecennali) e posso testimoniare che mai, da parte della Sezione, si sia posto freno o altri condizionamenti all’attività della Gerva, che anzi è acclaratamente uno dei fiori all’occhiello del CAI Torino. Non mi pare neppure che vi siano stati dei condizionamenti (genericamente parlando) sull’Accademico, che costituisce, come è stato suggerito in un commento precedente, l’alveo naturale per l’attività di punta dell’alpinismo. L’importante quindi è che nell’ambito dell’intero CAI ci sia un giusto spazio per tutti i gusti, altrimenti si rischia di privilegiare una minoranza (perché tale è, numericamente, la schiera degli “alpinisti” di punta) a scapito della maggioranza degli aderenti. Le case automobilistiche hanno ANCHE la scuderia di F1, ma la produzione di serie è un’altra cosa, con altri destinatari e altri numeri. A scanso di equivoci preciso infine che mi capita di pubblicare, anche con una certa sistematicità, su Montagne360, ma non faccio parte della Redazione e quindi non sono responsabile della linea editoriale. Peraltro fra i collaboratori di M360, a vario titolo e con diverso livello di coinvolgimento manageriale, si trovano nomi che in passato hanno fatto parte delle riviste “laiche” torinesi – RdM ed ALP – , per cui se la linea editoriale di M360 fosse completamente sbagliata, ciò coinvolgerebbe molti personaggi di rilievo.
Buona settimana a tutti!
Nel consesso di questo blog io non sono nessuno, solo uno che va per monti, come migliaia di persone. Sono stato iscritto al Cai e con il Cai (di Milano, di Ascoli Piceno) ho frequentato i corsi canonici, di roccia, di ghiaccio, di sci alpinismo. A volte ho rinnovato la tessera, altre volte no. In alcuni casi per beneficiare dei piccoli vantaggi che l’iscrizione comportava, in altri momenti andando in montagna senza rinnovo, per dimenticanza, per pigrizia (domani lo faccio…).
Mi sono sempre trovato bene, belle persone, con alti e bassi come in ogni gruppo associativo. Non ho disdegnato qualche bella gita, alcune mangiate di polenta e salsicce.
Pur essendo stato, per un periodo della mia vita, istruttore di sci alpinismo grazie ai miei servigi militari, non ho mai esercitato e non ho mai partecipato alla vita “alta” del Cai. Le sue logiche, le sue politiche, le sue diatribe interne, per me che sono sempre stato un piccolo anonimo frequentatore, le ho solo lette su libri e riviste, o sentite raccontare. E, come tutti i pesci piccoli, commentate eventualmente con qualche amico al bar, tanto per chiacchierare, ma sentendoci lontani. Lontani un po’ per ideologia, ma soprattutto perché non eravamo nessuno, semplici spettatori delle animate guerre di scuole di pensiero.
Il Cai mi ha regalato bei momenti, conferenze, incontri, consentendomi di ascoltare dal vivo persone che avrei visto solo in tv o delle quali leggevo i libri, ma con le quali non avrei mai potuto avere alcun tipo di confronto (è già stranissimo che uno come me sia qui, ad ardire di dire la sua…).
Il Cai è’ un modo per incontrare persone con una passione, chiacchierare, farsi amici cui piace andare in montagna quando, tra i tuoi di tutti i giorni, nessuno la frequenta.
La mia è una visione edulcorata, da anonimo socio. E non conoscendo quel mondo dall’interno come la gran parte di voi, l’immagine che ho, è come offuscata, fatta di luci ed ombre difficili da decifrare. Suppongo abbia avuto momenti di grande fervore e impulso, quanto bassi episodi e inconsistente profilo, quanto ogni grande organizzazione nella sua storia.
E la discussione su obiettivi, metodi, scelte e politiche, semplicemente continuerà, finché ci sarà gente che andrà in montagna.
Alla fine, è una chiacchiera piacevole, che distacca per qualche momento da cose più importanti nella vita.
mi sono iscritto al CAI nel 1979 ma non ho mai frequentato le sezioni CAI. Mi sono invece quasi da subito legato all’ambiente di una scuola di alpinismo, sempre del CAI , nella quale sono entrato da subito come aiuto-istruttore. Questa scuola, LA MONTEFORATO, nata come emanazione del soccorso alpino di Querceta, da cui poi si è staccata, ha da sempre fatto vita a se, rispetto alle sezioni, con una sede tutta sua. Ancora oggi faccio l’istruttore in questa scuola, sarei bugiardo a non dire che mi ha dato tantissimo. Mi ha fatto conoscere un sacco di persone , molte delle quali sono diventate degli amici da una vita e dei compagni di cordata in tantissime ascensioni.
La scuola non è servita solo a fare i corsi, è stata soprattutto un punto di riferimento per dei ragazzi, un centro di incontro e di confronto tra le persone. La piccola stanza della sede in tanti anni è stata il luogo dove nascevano delle idee, dove condividere le esperienze, dove ritrovarci per decidere dove andare nel fine settimana se in Dolomiti oppure al monte Bianco, o a Finale, ect.
Come in tutte le famiglie ci sono stati alti e bassi, fa parte della vita. Ma ancora oggi dal 1977 anno della sua fondazione siamo ancora li.
Effettivamente se ci penso sono profondamente caiano…..
Apprezzo molto che ci sia ancora qualcuno che ha il coraggio di dire a tutti che gli piace l’ideale del Cai. Non è facile dirlo pubblicamente, oggi, perché sembra che il Cai sia solo schifo. A qualcuno piace ad altri no. In particolare questi ultimi, anche se reduci da decenni di impegno nel Cai, rispettino i primi. Poi non è vero che nel Cai si mangia solo salsiccia, si fanno belle gite, anche impegnative! L’alpinismo di punta può confidarsi nell’Accademico oppure giustamente si sviluppi fuori dal Cai, perché il Cai si rivolge alla media, non a quelli di punta.
@Cominetti. Condivido. E’ proprio così. Come noto, siamo fatti della stessa materia dei sogni. I sogni/ideali di altri a volte possono non piacere, ma personalmente mi incuriosiscono sempre, se ben raccontati e con una loro consistenza narrativa, direbbe un critico letterario. Un po’ come il sogno crovelliano, un misto di Vittorio Alfieri e Guido Gozzano, che a te fa arrabbiare ma che a me, mezzo piemontese, produce nostalgia per un mondo che non c’è più e per il profumo di rosolio e di antico che emana. Ti ricordi la pubblicità della China Martini“fin dai bei tempi dei garibaldini…” ? Mi commuovo sempre quando la rivedo. Non sono mai pericolosi finché non pretendono di imporsi e di limitare quegli degli altri. Un po’ come è successo al nostro Antonel, che partito da un desiderio condivisibile di risistemazione di alcuni sentieri molto frequentati è poi sfociato, forse senza rendersene conto, in un sogno di sicurezza e prevedibilità che a molti di noi è parso potenzialmente limitativo della libertà altrui. Effettivamente a volte i sogni si trasformano in deliri (non è certo il caso di Crovella o Antonel) e possono diventare potenti, contagiosi e dannosi e giustificare comportamenti oppressivi. Lo abbiamo già visto e bisognerà sempre starci attenti “untill the End” sia che si tratti dei nostri sogni personali che di quelli degli altri. Almeno questa è la mia opinione. Buona settimana.
Pasini, smetterò di sognare con la morte! E’ che i sogni crovelliani (a quando l’introduzione del termine nella Treccani!?) a me sembrano di una banalità sconcertante. Non ce l’ho con lui ma la mia vita è un’altra, come la tua e quella di ognuno. Siamo diversi! E non può essere un’associazione di mangiatori di salsicce a dirmi cosa e come devo sognare.
Il romanticismo legato alle montagne (nota bene che non dico “la montagna”) è qualcosa di talmente personale che avrei più facilità a raccontare del sesso con mia moglie, per assurdo, ovviamente. Ognuno lo trova in fondo a sé. Non è la gara al più romantico ma è la conferma, nelle mie parole e non in quelle di Crovella, che siamo tutti diversi.
Come dice Manera la “scuola di vita” ognuno la trova dove la incontra, anche in montagna, ma smettiamola di credere che sia solo lassù. E’ un pensierino che abbiamo noi figli della retorica (io no!) delle più classiche e scontate. Non è così per tutti. Beato Crovella che (per me) si accontenta di quei valori. Un po’ lo invidio perché io sono alla ricerca perenne di cose che contino nella mia esistenza e la montagna è solo una delle tante. Bella, si, ma non eleviamola a tabernacolo di un’esistenza piatta perché la montagna è un mucchio di sassi a cui ognuno da un proprio significato e il Cai è solo uno di questi. E beato chi ci sta bene.
Il CAI come realtà e rappresentazione. Nella “poetica” crovelliana il CAI e la figura iconica di Quintino Sella, con la sua austera statua al Valentino, hanno un ruolo cruciale, come la figura paterna, i valori di responsabilità sabauda, il pan e ciuculata proustiano, le ultime fontanelle cittadine, il buen retiro della val di Susa e le esperienze come “maestro” etc….Trovo crudele voler confrontare questo ideale con l’intenso odore di polenta e salsiccia dei raduni Cai e con altre piccole miserie umane della vita associativa. Non si contamina un’emozione. E’ il Gogna blog non Dagospia. Sarebbe come fare prosaiche considerazioni tecniche sulle carattiteristiche Euro 2/3/4 …dei mezzi di trasporto meccanici che spesso ricorrono nel loro valore ideale ed evocativo nella poetica cominettiana. Ci vuole rispetto per i poeti. Suvvia. Siate meno materialisti e prosaici e se siete poco portati al sogno e alla fantasia, almeno godetevi con animo leggero e non giudicante quello degli altri, e in questo altri ci sono tanti di noi, anche se i sogni sono diversi, ma è “il suo bello”.
Ho sempre stimato Manera per il suo alpinismo e ora, dopo quello che ha scritto qui sotto, lo stimo ancora di più !
Crovella dev’essere impegnato in una delle sue gite (lo spero per lui), ma quando ci beccherà saranno dolori per tutti.
Sono iscritto al CAI dal 1958, sono entrato come istruttore nella scuola Gervasutti nel 1965 e lo sono tutt’ora. Sono stato consigliere della Sezione di Torino del CAI e per anni e anni membro della commissione tecnica del CAAI e del Consiglio Centrale di tale sodalizio. Quindi la mia vita alpinistica è stata strettamente legata all’associazione fondata da Quintino Sella e debbo dire sinceramente che è stata per me una fortuna che quando ho scoperto le montagne esistesse il CAI.
Detto questo voglia precisare che non ho mai creduto alla “montagna scuola di vita” e anche se il primo libro di montagna che ho letto è stato Alpinismo Acrobatico di Guido Rey debbo dire che in seguito non ho più sopportato la retorica borghese e dei buoni sentimenti di quel modo di scrivere che per tanti anni ha imperversato nella letteratura di montagna.
Oggi si dice che c’è meno interesse da parte di chi scala montagne per il CAI. Che i giovani alpinisti di punta operano praticamente quasi al di fuori del CAI stesso. Per forza dico io, provate ad andare a leggere le riviste CAI degli anni ’30, ’50, ’60, ’70. Noterete che l’alpinismo di punta era allora il motivo trainante del CAI ed occupava buona parte della pagine delle pubblicazioni ufficiali. Confrontatele con la nostra pubblicazione base: “Montagne a 360 gradi”. Già il titolo mi pare di dubbio gusto, poi scorrendo i contenuti noterete che c’è di tutto ma l’alpinismo di punta è quasi scomparso. Eppure esiste ancora ed in continua evoluzione. C’è una cronaca alpinistica che fa sorridere comparata a quella delle “Rivista Mensile” degli anni che ho citato.
Fortunatamente si scrive ancora di alpinismo ad alto livello anche se non più sulle pubblicazioni CAI (fatta eccezione dell’Annuario CAAI che faticosamente riesce a sopravvivere). Escono libri importanti come ad esempio quelli di Manolo e di Matteo della Bordella (La Via Meno Battuta) e tanti altri.
Forse si è dimenticato che il CAI è nato identificandosi con l’Alpinismo
Crovella ha dipinto il perfetto caiano (o caiota) esattamente come ne conosco a decine. Li ho sempre rispettati ma notando una differenza notevole con il sottoscritto.
Costoro sono come una setta che non si accorge che là fuori succedono delle cose perché troppo presi dal guardare indietro (alla storia, giustamente) e dentro la setta stessa.
Ho fatto l’istruttore del Cai anch’io quand’ero già aspirante guida alpina e ricordo piacevolmente persone in gamba e gradevoli tra i colleghi ma anche certi ottusi e incapaci, che erano la maggior parte.
Fu però un bell’esempio su come NON fare certe cose se volevo che il mio alpinismo andasse avanti evolvendosi tecnicamente e culturalmente.
Sul come fare le cose avevo alle spalle una carriera di istruttore militare negli alpini e il corso da aspirante guida alpina, insomma le “scuole” non mi erano mancate.
Prima di tutto ciò ho avuto dei maestri che erano istruttori del Cai ma piuttosto “dissidenti”, che fuori dal potere del direttore della scuola di alpinismo, si comportavano da veri alpinisti.
Gli alpinisti non sono tutti come li immagina Crovella: nobili, possibilmente sabaudi, con 3 lauree o anche di più, con il monocolo i baffi e la pancia del benessere. Girando il mondo e conoscendo alpinisti anche di paesi che non possono vantare la storia che abbiamo in Europa, ho visto che la maggior parte di quelli che anche qui leggiamo nelle cronache internazionali, sono dei figli dei fiori che si fanno le canne, si allenano e spesso vivono per scelta più da barboni che da castellani.
Credo, generalizzando, che se fosse per gli alpinisti caiani o caioti che dir si voglia, saremo ancora ai knickerbocker e alla pipa. Per fortuna non è così.
“Nei secoli fedele.”
Carlo, la battuta è riferita a te. Per scherzo.
… Però il CAI non merita solo critiche e dileggi.
Devo dire che tutta la prima parte è una sorta di “Manifesto” di Carlo Crovella. Non lo dico con sarcasmo, al contrario. Ma con rispetto… aggiungo, divertito.
Uso il termine divertito, non per il tenore dei contenuti espressi, ma per quello che accadrà forse tra breve in termini di commenti in risposta.
Personalmente sono molto lontano dall’autore. Ma non si può dire che Carlo non sia coerente, quasi monolitico, d’altri tempi. Ed è un modo di intendere e vivere la montagna, anche se diverso per esempio da me. Lo rispetto e mi piacerebbe, di fronte a un buon vino di rifugio, lanciarmi in una accesissima discussione con lui.
Puro piacere speculativo di confronto, poi magari due risate finali, a un passo dal togliersi il saluto, magari una sgambata su ghiacciaio il giorno dopo.
Crovella avrà le sue idee, ma non si tira indietro.
Personalmente ho un ottimo ricordo dei miei anni al Cai, intendo della Scuola di Alpinismo Figari. Avevo 15 anni, Mi proposero di fare l’A.i., aiuto istruttore. La cerchia degli istruttori senior era composta da ottime persone nonche’ bravi alpinisti. Dopo due anni ho rassegnato le dimissioni. A 17 anni alla domenica volevo andare per conto mio, non “sprecare” il mio tempo ad insegnare l’alpinismo a chi frequentava il corso allo stesso modo di un seminario di cucina. In quel momento la decisione fu giusta, oggi a distanza di oltre 30 anni, no. Quando vado in giro e dentro di me noto tutte le cose che non vanno di tanti che vanno in montagna malamente, mi dico: potevi restare e dire qualcosa di utile a qualcuno che probabilmente ti avrebbe anche ringraziato. Senza contare che ho mantenuto ottimi rapporti con tutti gli istruttori. Per non parlare che uno dei miei allievi di quei due anni e’ diventato uno dei miei migliori amici. Mi ricordo che me lo affidarono alla Rocca di Perti, stessa eta’ 16 anni come me. Mi dissero portalo sulla via Simonetta…. confesso che invece co infilammo in alcune varianti decisamente piu dure…
oggi i giovani sono palestra, indoor, ecc. tutto bene. Approvo. Certo non sapere come si attrezza una sosta o come si va in conserva su una cresta o come non mi arrendo se il mio compagno e’ finito in un buco…. beh in fondo queste cose il Cai le insegna. Se poi il gruppo che si crea e’ di quelli speciali, allora poi si vive una grande esperienza. Tutto sommato l’ho sempre considerata un’organizzazione positiva, anche se, come tutte le associazioni, il rischio di essere autoreferenziali c’e’ sempre.
Quel che dice Crovella è sacrosanto ma è altrettanto vero che nell’educazione di un giovane devono esserci anche gli errori, le esagerazioni, la voglia di guardare “più in là” e ribellarsi per partito preso a quello che viene imposto dall’alto.
Chi salta questa fase, che può essere anche molto pericolosa ma è sicuramente formativa e indispensabile per poi districarsi nella jungla della vita, e frequenta direttamente il CAI fin da piccolo, crescerà nella piattezza di un’esistenza preconfezionata che è dannosa all’evoluzione della specie umana. Questo è il motivo per cui i giovani che sono un minimo intelligenti e dotati di curiosità fuggono dal CAI e da tutte quelle forme di aggregazione vecchie e stantìe.
Infine trovo più corretto il termine “caiota” in luogo del caiano che sa veramente di idiota analfabeta, cosa che i caioti non sono affatto.