C’è lo scontro interimperialista e non ho niente da mettermi

I paesi europei sono rimasti spiazzati da Trump che con la sua iniziativa ha confermato l’esistenza delle due strategie imperiali di Russia e Stati Uniti. Non averle riconosciute ha prodotto la paralisi europea e le difficoltà del pacifismo.

C’è lo scontro interimperialista e non ho niente da mettermi
di Salvatore Cannavò *
(pubblicato su jacobinitalia.it il 24 febbraio 2025)

Bisognerebbe stampare il discorso che il 18 febbraio l’ex presidente Bce ed ex primo ministro italiano Mario Draghi ha tenuto al Parlamento europeo. Stamparlo e leggerlo con attenzione perché in quel discorso c’è l’esplicitazione diretta, e onesta, del vero problema che stanno attraversando le capitali europee nel loro confronto-scontro con la nuova amministrazione Usa di Donald Trump. Si tratta di un ritorno, o per lo meno di una plateale esplosione, di quello che nei primi decenni del Novecento si chiamava scontro inter-imperialistico e che la fase lunga della globalizzazione a cavallo del XX e XXI secolo ha in parte oscurato.

Draghi ha messo chiaramente in fila i principali dossier che devono preoccupare «l’Europa» come viene detto retoricamente nei discorsi ufficiali, spacciando il fragile coordinamento istituzionale della Ue per uno Stato sopra gli Stati, ma in realtà riferendosi ai principali paesi del Vecchio continente. E quei punti sono: il grande svantaggio sul terreno dell’Intelligenza artificiale con gli Usa, e la Cina, che stanno mettendo fuori gioco tutti gli altri; il costo dell’energia, soprattutto da quando si sono interrotte le forniture di gas russo con un rialzo senza precedenti dei prezzi anche quando quelle forniture provengono dagli Stati Uniti (il gas Lng è aumentato infatti del 100%, dice Draghi); e il problema dei dazi annunciati da Trump che mettono profondamente in discussione la linea «mercantilista» adottata dalla Ue, su spinta tedesca, vale a dire una crescita trainata soprattutto dalle esportazioni e dai bassi salari. 

I dazi, in particolare, chiamano in causa anche la solidità industriale dei paesi europei, che scontano una crisi apparentemente strutturale – si pensi all’automotive – e che, pragmaticamente, l’ex presidente della Bce, fin dal suo Rapporto sulla competitività, ha proposto di affrontare in emergenza investendo il massimo possibile sull’industria della Difesa. Immaginando che questa, la più immediatamente attivabile anche per via delle novità geopolitiche, possa poi far da volano al resto dell’industria.

Agire come un solo Stato
Due esempi più concreti di questo appello emergenziale fatto da Draghi: il riferimento ai miliardi di euro che servirebbero, anche con debito comune, per dare una scossa all’economia: «In 10-15 anni gli Stati Uniti hanno iniettato nell’economia 14 mila miliardi, noi sette volte meno». E poi l’estremo pragmatismo in tema di riconversione ecologica: «La decarbonizzazione è il solo modo per essere indipendenti e sovrani, le fonti rinnovabili servono a ridurre il prezzo dell’energia». E quindi l’appello ad agire «come se la Ue fosse un solo Stato» sapendo che la «zona di confort» degli ultimi anni è ormai finita.

Questi discorsi stanno girando molto a Bruxelles e nelle altre capitali europee e mettono in luce un’evidenza che negli ultimi tre anni, segnati in particolare dalla guerra in Ucraina, sono stati sempre lasciati sullo sfondo. Gli interessi diversi tra i paesi occidentali e il fatto che la fase stagnante del capitalismo occidentale determinata dalla crisi finanziaria del 2007-2008 e del 2012, è stata affrontata solo grazie a massicce iniezioni di debito pubblico, cosa avvenuta poi anche in occasione della crisi del Covid. Quando è lo Stato a intervenire per risollevare le sorti dell’economia – una costante del capitalismo, almeno dal 1929 in poi – è chiaro che il tipo di Stato e la sua determinazione a sostenere la «propria» struttura produttiva diventa determinante. Questa determinazione si manifesta in forma eccezionale con Trump, ma lo era stata già nel corso dell’amministrazione Biden come dimostra, tra i tanti provvedimenti assunti dal presidente democratico, l’Inflation reduction act che tanto sconcerto ha provocato in Europa per i suoi evidenti meccanismi di salvataggio dell’industria domestica.

Il mondo non conosce probabilmente una fase in cui la globalizzazione è finita, come sostiene nel suo libro la vicedirettrice del Financial Times Rana Foroohar, ma la presenza di una prolungata de-globalizzazione è un fenomeno ampiamente descritto e che dura da diverso tempo. La messa a fuoco di questa realtà avrebbe consentito di capire meglio la natura della guerra russo-ucraina e di contrastare le due tendenze interpretative dominanti: il pieno sostegno al progetto di espansione Nato con l’invio massiccio di armi senza una strategia diplomatica o una capacità di ripensare gli equilibri mondiali in termini multilaterali, da un lato; e la difesa, di fatto, dell’iniziativa russa presentata come reazione obbligata alla strategia dei paesi occidentali.

La guerra russa in Ucraina costituisce invece il crocevia di diverse tendenze imperialistiche e di dominio che hanno trovato in quella terra martoriata il terreno di scontro militare prolungando uno scontro, economico, commerciale e politico, che si gioca a un livello globale. La strategia occidentale è ben visibile nel progressivo orientamento espansivo della Nato che inizia almeno dal vertice di Bucarest del 2008 quando si accolgono le domande di ingresso nell’Alleanza atlantica da parte di Ucraina e Georgia. E poi nel progressivo ampliamento del Patto a paesi dell’est – Albania, Croazia, Montenegro – fino agli ultimi ingressi di Finlandia e Svezia dettati dall’invasione russa dell’Ucraina. 

Si tratta, però, soprattutto di una strategia a guida degli Stati Uniti a cui gli europei scelgono di adattarsi pensando sia conveniente mantenere l’asse transatlantico e che, allo stesso tempo, sia possibile gestire una relazione vantaggiosa anche con la Russia. È l’approccio scelto dalla Germania, in particolare, che in tutti questi anni non rinuncia al gas russo e, anzi, mette in moto il Nord Stream 2, che passa sotto il Mar Baltico, costruito insieme alla russa Gazprom. Non a caso, tra le vittime eccellenti della guerra ucraina ci sarà proprio il Nord Stream, sabotato da una mano probabilmente polacca, certamente occidentale, segno di una rottura dei possibili ponti sul fronte orientale.

Dall’altro lato c’è la Russia, che subisce senza trovare particolari alternative l’offensiva occidentale e allo stesso tempo vede crescere l’espansione cinese, la più diretta concorrente in Asia. E così Vladimir Putin decide che è venuto il momento di rialzare la testa e che la «grande Russia» non può scomparire dalla scena internazionale. Da qui, la reazione del 2014 alle spinte europeiste in Ucraina, l’invasione della Crimea, le pressioni sulla Georgia fino alla guerra del 2022 che costituisce il punto più avanzato del rigurgito imperiale russo. La determinazione a presentarsi sulla scena mondiale come una potenza di primo piano esponendo le due vere merci che la Russia può esibire per ricordare al resto mondo la propria importanza: i prodotti energetici e l’arsenale militare

Le due guerre in Ucraina
Queste due strategie sono chiaramente proiettate in una direzione che non può che mettere sotto scacco i paesi europei che, però, scelgono di non smarcarsi dal fronte della Nato e si legano mani e piedi alle scelte elaborate a Washington. Lo schema funziona fin quando al di là dell’Atlantico c’è un governo «amico» che non intende manifestare apertamente la divergenza di interessi e che, invece, cerca di gestire quella divergenza mantenendo una sorta di elastico. Lo schema salta, invece, quando a Washington si insedia un potere che oggi ha deciso di fare del reshoring, del rimpatrio di produzioni industriali, della difesa dei propri prodotti e della tutela esclusiva dei propri interessi, la bussola centrale della propria azione.

L’annunciata «pace» tra gli Stati Uniti e la Russia va letta come la presa d’atto che i due progetti di espansione, i due imperialismi che si sono confrontati, indirettamente, sul terreno militare, oggi provano ad accordarsi per dividersi quel che è possibile dividere. Una parte di Ucraina, certamente: l’est occupato dalla Russia a Mosca, il resto, tramite gli accordi sulle Terre rare, agli Stati Uniti. Ma la divisione riguarda anche i paesi europei che, impreparati sul piano economico, politico e militare – terreni su cui, a eccezione delle prerogative della Commissione europea, non ci sono effettivi coordinamenti dotati di efficacia operativa – sono oggi spinti dall’amministrazione Trump a dividersi tra chi si allineerà alla linea di Washington e chi, magari decidendo di opporsi, è privato di alternative credibili. Anche perché non si è lavorato mai all’unica alternativa possibile, oltre ovviamente a quella immaginata da Draghi, diventare cioè una potenza imperiale (il che implicherebbe altri dispositivi istituzionali rispetto all’attuale Ue e dei tempi più o meno lunghi): essere il soggetto più attivo nella costruzione di un ordine multipolare e multilaterale, tessere rapporti con il resto del mondo, battersi per ridare senso e vitalità alle Nazioni Unite. E quindi prendere regolarmente le distanze dalla logica bellica, imperiale e neo-coloniale degli Stati Uniti, ad esempio a Gaza.

In un convegno che si è recentemente tenuto all Pontificia Accademia di Scienze sociali in Vaticano, il premio Nobel dell’Economia Joseph Stiglitz ha sostenuto che la politica statunitense di ritiro dagli organismi internazionali – Trump ha già firmato per l’abbandono dell’Organizzazione mondiale della Sanità – dovrebbe essere affrontata con un approccio positivo: «L’80% del mondo contro il 20%» riferendosi al peso economico degli Usa a livello globale. Una strategia ambiziosa, forse complicata, ma l’unica che potrebbe essere adottata rispetto alla politica di potenza che Trump ha intenzione di adottare (e che potrebbe essere fermata solo da una resistenza sociale interna, a partire dal lavoro: ipotesi che non è però oggetto di questa riflessione). Per tessere il filo di un’alleanza globale dell’80% occorre disporsi a una relazione multilaterale a cui l’Europa ha invece rinunciato. Anche perché per gestire correttamente le relazioni con il resto del mondo, quindi con paesi africani, asiatici e latinoamericani, occorrerebbe dismettere l’approccio neo-coloniale e di rapina che invece ancora oggi caratterizza accordi commerciali come il Mercosur. 

I pesci grandi vincono sempre
In ogni caso, è un approccio di questo tipo che è mancato ai paesi europei, profondamente inseriti, per storia, scelte politiche e ideologiche, in una competizione capitalistica che ha dettato le decisioni prese (non si tratta di ingenuità o di incapacità, come spesso vuole credere una certa critica democratica). Solo che nella competizione, come amava sottolineare Ernest Mandel citando Pieter Bruegel il Vecchio, «i pesci grandi mangiano i pesci piccoli» e oggi senza unirsi davvero, senza agire «come un solo Stato», come propone Draghi, «l’Europa» non riesce a reggere la competizione con gli Usa. Che lo sanno, sanno di avere il tempo dalla propria parte e non intendono lasciare margini di manovra agli avversari almeno fino a quando non verrà contrapposto loro un volume di fuoco adeguato. 

Questa situazione ha degli effetti importanti sulle scelte che si impongono a forze di sinistra o anche al movimento pacifista. Quest’ultimo, sull’Ucraina, non ha saputo o potuto giocare un ruolo attivo. Nell’opinione personale di chi scrive questo è dovuto soprattutto alla dismissione di una robusta capacità di lavoro internazionale e all’impossibilità di contare su referenti attivi in Russia, stritolati dalla repressione. Una guerra interimperialista, come la Prima guerra mondiale ha chiaramente dimostrato, si può fermare solo se c’è una sollevazione in più paesi, una resistenza di pace internazionalista che ha bisogno di un tempo lungo per essere allestita e preparata, ammesso che ci si possa riuscire. Contro il conflitto scoppiato il 24 febbraio 2022, esattamente tre anni fa, non poteva bastare né la sola richiesta di fermare l’invio di armi occidentali all’Ucraina né la condanna rigorosa delle colpe del regime russo, ma una resistenza alla guerra innanzitutto in Russia e Ucraina e poi in Europa, con uno stato di agitazione permanente che non si è mai determinato. 

I problemi si pongono però anche per quanto riguarda il prossimo periodo. E anche in questo caso il difetto rischia di essere una lettura monoculare del problema: pensare, cioè, che il problema sia l’azione di Trump, colpevole di riabilitare un insostenibile Putin, giudicando come nefasto il piano di pace che si è iniziato a discutere a Ryad e quindi, per converso, adottare il leader ucraino come unico riferimento della propria azione e propendere per una continuazione della guerra «fino alla vittoria»; oppure, pensare che da Trump e Putin possa venire la miglior pacificazione possibile e abbandonare una valutazione obiettiva che abbia, innanzitutto, come riferimento gli interessi concreti delle popolazioni, di lavoratori e lavoratrici. 

Siamo su un terreno impervio, in cui le forze rigorosamente di sinistra, pacifiste e anti-guerra, hanno pochi strumenti per agire e sono in balia di movimenti enormemente più potenti. Ma, sempre facendo riferimento a una possibile iniziativa europea, si potrebbe lavorare per allargare il fronte dei paesi coinvolti in una conferenza di pace: guardare a est, a sud, evitare che sia solo una questione russo-statunitense e quindi tornare al punto precedente, un’iniziativa e un approccio multilaterale ai problemi globali. Fare il tifo per Trump o per Zelensky significherebbe ritornare alla stessa logica degli ultimi tre anni, mentre invece si tratta di scompaginare quella logica. 

Non accadrà, ovviamente. Assisteremo a una dinamica per cui la Ue, o quel che ne resta, cercherà di adattarsi all’iniziativa statunitense, cercando di strappare postazioni più favorevoli e confortevoli per non essere lasciata a terra. In questo processo molto probabilmente si acuiranno le divergenze strategiche tra paesi come Italia e Ungheria, che guardano decisamente a Washington e un possibile nocciolo mitteleuropeo la cui consistenza, però, si vedrà a partire dal tipo di governo che si verrà a creare in Germania. In buona parte, il pallino è nelle mani della Cdu tedesca e quindi dei Popolari europei. Se però nessuna illusione si può nutrire su questa «Europa», incapace di interpretare anche il proprio stesso destino imperiale, questo non significa che le forze pacifiste, di classe, sindacali e associative non debbano continuare a costruire una prospettiva diversa, innanzitutto internazionale. A cominciare da una conferenza tra associazioni e forze sociali e civili, resa impossibile negli ultimi tre anni, ma che in futuro resta la sola risorsa per illustrare un’agenda alternativa.

*Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme).

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C’è lo scontro interimperialista e non ho niente da mettermi ultima modifica: 2025-03-04T04:06:00+01:00 da GognaBlog

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2 pensieri su “C’è lo scontro interimperialista e non ho niente da mettermi”

  1. A parte la maldestra giustificazione dell’aggressione russa con l’espansione della Nato (l’imperialismo russo non ha bisogno di spiegazioni: non è una novità ed esiste dal Settecento), non c’è nel mondo una generica de-globalizzazione. Semmai si creano sistemi mercantili differenti e antagonisti. L’America (usa) per esempio non può rinunciare al mercato europeo (ue) e viceversa. In questo quadro una ragionevole spartizione dell’Ucraina diventa necessaria per soddisfare entrambi gli attori occidentali e garantire una pace duratura.

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