Tornare a esplorare

Nel saggio Tornare a esplorare, denso e stimolante, Luca Fontana mette in luce i meccanismi contemporanei che caratterizzano il modo di vivere l’ambiente naturale: l’esplorazione è apparentemente conclusa, la natura e la montagna sono diventate terreni di gioco al servizio della comodità. L’autore ne analizza le criticità e propone allo stesso tempo una visione piena di speranza che apre a un infinito di possibilità, offrendo al lettore l’esperienza maturata in anni di esplorazione delle catene montuose di tutto il mondo, con un particolare focus sulle Alpi nord-occidentali, le sue montagne di casa. L’invito che emerge dal libro è di approcciare l’ambiente naturale in un modo proprio, sentito profondamente, consapevole e autodeterminato. Il sapore dell’esplorazione autentica in parole e scatti.

Presentiamo qui il secondo capitolo di Tornare a esplorare.

Libertà e senso del limite: l’autodeterminazione
di Luca Fontana

L’idea che più spesso viene associata all’esplorazione del selvaggio è la libertà, ma questa parola può essere facilmente fraintesa venendo trasformata in un diritto a fare qualsiasi cosa indipendentemente dall’ambiente che ci circonda.

Una volta che iniziamo a sentire come la natura selvaggia – almeno da noi nelle Alpi – sia lo spazio del non addomesticato e in cui è necessaria l’autodeterminazione, sia in termini di libertà di scelta sia di coscienza di sé, allora emerge una connessione più profonda, antichissima e solo un po’ antropizzata: quella tra l’esploratore e il paesaggio.

Penso sia proprio nell’autodeterminazione che risieda la libertà che ci viene donata dall’ambiente selvaggio. L’autodeterminazione è il risultato di una profonda conoscenza innanzitutto di sé e delle proprie capacità, e poi, non meno importante, di un’altrettanto profonda comprensione del territorio in cui ci si trova. Nasce da un costante adattamento del rapporto che si ha con l’ambiente.

Una grande lezione che ho appreso da questa relazione è che siamo noi, frequentatrici e frequentatori delle terre selvagge, a doverci adattare a esse, e non pretendere di adattare a noi l’ambiente in maniera artificiosa.

L’ambiente cambia in continuazione: pensiamo alle condizioni del meteo, al periodo dell’anno, ma anche a tutto l’inaspettato che può racchiudere un territorio poco battuto, come sentieri franati o rocce instabili. O a come, per fare un esempio più positivo, nell’attraversare un territorio possiamo incontrare qualcosa di inatteso che attira la nostra attenzione, come un bell’angolo di bosco, un ruscello in cui rinfrescarsi o un posto ideale per piazzare la tenda in un percorso che pensavamo non offrisse la possibilità di abitarlo nemmeno per una notte. Il territorio selvaggio è il regno dell’imprevedibile e del mutevole, sue caratteristiche intrinseche, e pretendere di controllare ogni aspetto è utopico.

Siamo noi piccoli esseri che liberamente scegliamo di esplorare, attraversando e abitando per qualche tempo questi spazi. Entriamo in un territorio con un bagaglio, in parte a noi stessi sconosciuto, fatto di capacità tecniche, stati emotivi e corporei, conoscenza del territorio, esperienza e tantissimi altri fattori. Questo bagaglio immateriale è la cosa più importante che possiamo portare con noi in un ambiente selvaggio, e viene prima di ogni attrezzatura o gadget tecnologico, senza escluderli ma diventandone la ratio. Nell’attraversare le terre selvagge, è quindi vitale che ci dedichiamo a conoscere innanzitutto noi stessi oltre che l’ambiente.

Anche la fiducia in se stessi gioca un ruolo fondamentale nell’esplorazione: il suo equilibrio con le nostre capacità è anch’esso vitale.

Un eccesso di fiducia può portare a sottovalutare tantissimi pericoli e situazioni, prendendo rischi inutili o imbattendosi in imprevisti. D’altra parte, anche una scarsa fiducia in se stessi è deleteria per l’esplorazione (di sé e del paesaggio): senza un minimo di fiducia le uniche due opzioni sono rinunciare a qualsiasi tipo di scoperta personale o, ancora peggio, pretendere che l’ambiente selvaggio venga addomesticato in un vero e proprio parco giochi. Il famoso playground di cui si legge in tante pubblicità di marchi outdoor.

Certo, racchiudere questo processo di esplorazione e autoconoscenza in poche righe può farlo apparire qualcosa di monolitico, come se fosse necessario essere già del tutto pronti prima di addentrarsi nel selvaggio, a qualsiasi livello.
Ovviamente questa è una visione semplificata, mentre io credo che tutto il processo sia in continuo divenire. Proprio per questo motivo l’esplorazione del selvaggio va approcciata per gradi, in un continuo ciclo che passa sia dall’esperienza diretta sia dal fare proprio ciò che di nuovo conosciamo di noi ogni volta, così da crescere a mano a mano spingendosi un pochino più in là, o più in profondità, in ciò che ci fa paura o che ci appassiona. Non è sempre possibile mantenere un equilibrio tra questi due aspetti, e non nego che più di una volta sono stato fortunato. Ed è proprio qui che il confine si fa più sottile: quando esploro le terre selvagge ho tantissima fiducia che quello sia il mio ambiente originario dove come specie ci siamo evoluti e posso confidare sul fatto che tutto andrà bene, ma faccio anche tutto quanto mi è possibile per ridurre i rischi e fare esplorazioni che siano in linea con le mie capacità, il territorio e lo stato in cui siamo entrambi.

Tutto questo discorso introduce a un concetto fondamentale: quello del limite. In ambiente è imprescindibile conoscere i propri limiti ed eventualmente dare un limite alle proprie esplorazioni.

Il senso del limite diventa sempre più palpabile a mano a mano che ci distacchiamo dal mondo dell’addomesticato, rimuovendo aiuti esterni e amplificando così la sensazione di essere soli in ambiente, dove possiamo contare solo su noi stessi e sui nostri compagni e compagne d’avventura.

Rendere la montagna e la natura selvaggia un prodotto è un movimento completamente opposto alla convivenza con il limite: oggi veniamo illusi che sia possibile una crescita infinita, e ogni limite deve essere quindi rimosso con chirurgica efficienza. È così che vengono allargati all’inverosimile i concetti di sicurezza e divertimento, e trasformati in giustificazioni per sconvolgimenti dell’ambiente a fini economici.

Quelli che sono supporti all’esplorazione, come l’elicottero (inteso quale mezzo d’emergenza o per il rifornimento dei rifugi), vengono stravolti e trasformati in prodotti, generando veri e propri abomini come l’eliski o i voli panoramici. Il selvaggio e l’incontaminato in questo modo possono essere raggiunti nei tempi e nei modi adatti all’essere umano odierno, perennemente indaffarato e senza tempo, trasformando questo tipo di territorio in un prodotto per relax, divertimento, adrenalina, decompressione o quanto altro possa “servirci”.

Negli anni anche io sono stato vittima di questo modo di intendere il paesaggio, e ho addirittura fatto eliski in una sola occasione qualche tempo fa, percependolo però immediatamente come un qualcosa di estremamente innaturale. Fortunatamente il concetto di selvaggio e la possibilità di esplorazione/autoesplorazione mi hanno sempre attirato di più della semplice adrenalina. Mettermi sovente in contatto non solo con le mie capacità, ma soprattutto con le mie incapacità, è stato ed è tutt’oggi un preziosissimo insegnamento.

Vorrei concludere questo capitolo confrontando due itinerari che attraversano territori a cui sono particolarmente legato: il Selvaggio Blu in Sardegna e il Selvaggio Verde in Piemonte.

Il Selvaggio Blu è un percorso che nasce nel 1987 grazie alla passione di Mario Verin e Peppino Cicalò. Percorribile in circa quattro giorni, si snoda lungo il tratto costiero di Baunei, nella parte sud del Golfo di Orosei. È un territorio aspro e difficile dove l’acqua dolce è quasi del tutto assente; bisogna fare calate in corda doppia e tratti d’arrampicata e camminare sulla sa pedra nascendo (i cosiddetti campi solcati): un’esperienza tanto divertente quanto sfiancante. Ma la cosa che più mi ha affascinato del Selvaggio Blu è l’assenza di segnaletica o altre facilitazioni. È un percorso che ti costringe a un continuo adattamento, durante il quale ti chiedi costantemente se sei sulla traccia, se troverai il ginepro da cui fare le calate e così via. A un certo punto qualcuno esterno alla comunità locale ha provato a indicare il percorso con alcuni bolli blu, ma questa iniziativa ha trovato grande resistenza, tanto che non tutto il Selvaggio Blu è segnato e trovare la strada è una delle difficoltà maggiori e una delle sue caratteristiche peculiari.

Percorrere il Selvaggio Blu per me è stata un’esperienza di totale connessione con il territorio: ho dovuto cercare ogni passaggio basandomi su una descrizione stampata e sulla mia esperienza, oltre che sul mio intuito a muovermi in ambiente. Arrivavo esausto a fine giornata non tanto per i dislivelli o i chilometri percorsi, ma perché dovevo rimanere presente a me stesso e rispetto al territorio a ogni passo. È stata un’avventura non misurabile con dati quantitativi, ma significativa per la qualità della presenza che mi ha richiesto. Il Selvaggio Blu negli ultimi anni è diventato decisamente di moda sui social ed è sempre più frequentato, tuttavia, grazie alla lungimirante visione di molti operatori locali, questa maggiore frequentazione non ha prodotto un’addomesticazione del percorso con infrastrutture e altre facilitazioni. Anzi, proprio la scelta di lasciarlo realmente selvaggio ha aumentato l’indotto delle guide locali e di chi questo territorio effettivamente lo abita. Ciò che mi auguro per i prossimi anni è che questo incremento non spinga enti non locali o qualche zelante volontario a “mettere in sicurezza” il percorso, perché toglierebbe la possibilità a chi lo esplora di crescere, trasformandolo in un mero oggetto di consumo, un ennesimo prodotto sullo scaffale del supermercato delle esperienze adrenaliniche.

All’opposto troviamo il Selvaggio Verde, nel Parco Nazionale della Val Grande. Non è un percorso nuovo: riprende la storica “Traversata bassa” della Val Grande che boscaioli e alpigiani facevano spesso senza scarpe (1) e con le gerle piene di un carico che corrispondeva almeno alla metà del loro peso corporeo. Il percorso passa al margine della Riserva Integrale del Monte Pedum, un laboratorio a cielo aperto in cui si sta studiando come la natura si riprende i suoi spazi laddove non c’è interferenza umana. Le stesse autorità del Parco sottolineano quanto sia fondamentale che la Riserva Integrale non subisca disturbo antropico.

La conformazione del percorso rispecchiava le incredibili capacità dei montanari che lo utilizzavano: il sentiero era stretto, con diversi passaggi su cenge anguste, e in alcuni punti bisognava utilizzare tronchi sospesi sul vuoto e tirarsi a cavi elettrici utilizzati a mo’ di corde. Il telefono non prendeva per la totalità del percorso: abbandonato il bivacco di Orfalecchio si era completamente soli. Anche andando di buon passo era comunque necessario fermarsi a dormire a metà della traversata: un pernottamento sotto le stelle che spesso avveniva in un luogo chiamato l’Arca, un antico ricovero di boscaioli nel mezzo della foresta. Percorrere la Traversata bassa era un’esperienza totalizzante, in cui la bellezza dei luoghi e i pericoli erano due elementi che si compenetravano. Era una scelta assolutamente personale e mai casuale (il percorso era sconsigliato, anche da una serie di cartelli all’ingresso), in quanto il tracciato non era pubblicizzato e pochissime persone ci si addentravano, tante che pochissimi sono stati gli interventi del Soccorso Alpino avvenuti negli anni. La Traversata bassa regalava una rara possibilità di scelta e di autodeterminazione nelle Alpi.

Nel 2022, a seguito di una serie di bandi a cui il Parco Nazionale della Val Grande aderisce, con soldi pubblici è stata costruita e inaugurata la Ferrata del Selvaggio Verde, un nome ispirato proprio al Selvaggio Blu. Con il fine dichiarato di mettere in sicurezza e rendere fruibile a più persone la Traversata, il percorso è stato attrezzato con catene, scalini e addirittura due ponti tibetani in cavi d’acciaio, che promettono momenti “adrenalinici” e “in sicurezza” al di sopra dei flutti del Rio Val Grande. In questo modo la Traversata bassa è stata irrimediabilmente stravolta.

La notizia dell’inaugurazione del percorso è stata ripresa da numerosi giornali locali e da tantissime pagine social specializzate in ferrate. Sullo stesso sito del Parco Nazionale della Val Grande il Selvaggio Verde è ben pubblicizzato e sono snocciolati tutti i dati tecnici quali dislivelli e chilometri (come se fossero un riferimento valido in un ambiente impervio) mentre, dettaglio grottesco, la velocità di percorrenza media è indicata in 2,5 km/h, come se ci si trovasse su un tapis roulant in palestra e questa fosse calcolabile con precisione. Viene dato grande risalto al fatto che ora la traversata è percorribile in poche ore, senza doversi impegnare per più giorni e con una notte all’addiaccio, che grande conquista…

Dopo l’inaugurazione, la frequentazione del percorso è aumentata considerevolmente: qui arrivano tante persone, molte impreparate, attirate da una comunicazione che idealizza e semplifica l’ambiente unico e complesso della Val Grande.

Non solo quindi il Parco stesso ha favorito una maggiore pressione antropica ai margini della riserva integrale che si vanta di proteggere, ma la presenza sempre più massiccia di persone impreparate aumenta le possibilità che si verifichino incidenti. Trasformare un percorso selvaggio in un prodotto commerciale l’ha completamente svuotato di significato.

Pensando al futuro e all’inevitabile aumento di frequentazioni e soprattutto incidenti, mi viene difficile immaginare che le amministrazioni tornino sui loro passi, andando a riscoprire quel senso del limite che è stato violato da questo progetto.

Nella situazione attuale è impensabile che il percorso venga ripulito dalle ferraglie e sconsigliato, come era fino a pochi anni fa. Penso sia più probabile che si provveda a una maggiore “messa in sicurezza”, aggiungendo ripetitori del segnale telefonico (oggi assente) e nuove infrastrutture d’emergenza, a cui piano piano seguiranno punti d’appoggio e ulteriori comodità. È un processo che avviene in maniera graduale e non dichiarata nella sua totalità, erodendo lo spazio selvaggio passo dopo passo, anno dopo anno.

La mia speranza risiede nell’ambiente naturale: in questo territorio di bassa montagna ricco di piogge la natura è incontrollabile e riserva sempre imprevedibili sorprese che possono mettere i bastoni tra le ruote anche al più ostinato dei progetti di sviluppo turistico.

Selvaggio Verde e Selvaggio Blu, nonostante il nome molto simile, sono quindi due progetti agli antipodi, sia nell’approccio di sviluppo turistico del territorio sia negli intenti di conservazione naturalistica.

Nota
(1) Fino a un’ottantina di anni fa, l’abitudine di camminare senza scarpe era molto comune in territori poveri come la Val Grande: gli alpigiani scendevano a piedi nudi fino alle porte del paese di Cicogna per non consumare le scarpe e le mettevano solo all’ultimo momento per dare un’impressione migliore. Questa tradizione è stata poi ripresa da Gianfry, primo autista del mio scuolabus delle elementari e poi figura storica della valle, un uomo straordinario che ci ha lasciato pochi anni fa (cfr. Beppe Codini, Gianfry, l’eremita scalzo della Val Grande, Alberti Libraio Editore, Verbania Intra 2023).

Luca Fontana
Luca Fontana è fotografo e guida escursionistica ambientale. Dopo anni di viaggi e spedizioni nelle principali catene montuose del mondo, oggi vive fra l’Alta Valle d’Aosta e le Alpi Cusiane, nutrendo ogni giorno un amore speciale verso il Monte Bianco. Luca sviluppa e promuove un approccio nuovo e profondo verso l’ambiente naturale e la montagna in particolare, incentrato su rispetto dei luoghi ed esplorazione su più livelli. Questo è il suo libro d’esordio.

Tornare a esplorare, di Luca Fontana (Rizzoli, 28 gennaio 2025)
25,00 €, 224 pagine, formato 16,5×22 cm, cartonato, ISBN cartaceo: 9788891841971

Tornare a esplorare ultima modifica: 2025-03-03T05:50:00+01:00 da GognaBlog

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11 pensieri su “Tornare a esplorare”

  1. ERRATA CORRIGE
    Naturalmente la lineetta nel mio precedente commento va cancellata. Mi è sfuggita durante una modifica.
     
    P.S. Lo dico per il controllore dei puntini (altrui) sulle “i”.
    😀 😀 😀

  2. Chi osasse criticare Giacomo Leopardi (“Che noia, che barba! Che barba, che noia!”) – sappia che rischia la vita.
    Lo faccio fuori io.

  3. Anche Leopardi con le sue poesie , scriveva delle sue emozioni e riflessioni.
    Lo faceva meglio di altri? Sicuramente!!
    C’è chi non ne scrive, perchè è riservato, o perchè non ne sa scrivere. Ma c’è anche chi non ne scrive perchè non ha ne emozioni ne riflessioni. E’ arido dentro…

  4. Drammatici sono ben altri accadimenti nella vita, mio caro Ratman.

  5. La pratica della montagna produce, su chi è troppo preso da sé stesso, un effetto spesso indesiderato: la logorrea. Un compulsivo bisogno di narrare le proprie imprese, le proprie emozioni, e ahimè le proprie riflessioni.
    Capita spesso che ad una attitudine sportiva non corrisponda una attitudine speculativa e narrativa e gli esiti sono drammatici: polpettoni illeggibili infarciti di banalità standard.

  6. La sciatteria intellettuale, soprattutto quando è avallata da un editore importante, fa male alla causa che sostiene: il nostro giovane autore non supera mai il livello del temino liceale.

  7. Basterebbe aumentare l’interesse naturalistico verso la montagna e il senso di esplorazione riparte. Vuol dire conoscere molto più nel dettaglio ogni sua parte, leggere ogni territorio e coglierne un’ampiezza di differenze molto maggiori. A me sembra incredibile… Che la montagna sia vista sempre da più persone come un parco giochi o una palestra è evidente, ma anche chi vuole staccarsi da questi approcci raramente vede la possibilità e opportunità di approfondire gli aspetti naturalistici, riconoscere le diverse piante, animali, geoforme, le legacies lasciate dall’utilizzo del pascolo e del bosco. Eppure una volta gli alpinisti erano anche naturalisti, oggi non lo sono quasi mai. Con un occhio interessato a questi aspetti anche oggi le Alpi sono territorio di esplorazione vera e propria!!

  8. Concordo (quasi mai) con Ratman, l’autodeterminazione non è un dono. L’ambiente selvaggio ci dona il luogo, sta a noi poi scegliere il modo come interpretarlo. Putroppo l’uomo per sua natura, tende sempre a fare violenza sui luoghi, a modificarli per adattarli alle sue esigenze e capacità. Questo percorso è stato adattato alle esigenze turistiche, si dice valorizzato, potremmo anche dire monetizzato.

  9. Ma, insomma, deve sempre essere colpa del buon Carlone?
     
    Se piove è colpa di Crovellik; se tira vento è colpa di Crovellik; se c’è tempesta è colpa di Crovellik (questa però è vera, perché spesso la tempesta la scatena lui con i suoi commenti alla nitroglicerina e politicamente scorrettissimi).
    Da quando poi Trump ha vinto le elezioni e vuole invadere la Groenlandia, Crovellik non si tiene piú. Si salvi chi può!
    😀  😀  😀

  10. “’…la libertà, ma questa parola può essere facilmente fraintesa venendo trasformata in un diritto a fare qualsiasi cosa indipendentemente dall’ambiente che ci circonda.”
    Secondo me Luca Fontana deve aver avuto a che fare con Crovella…

  11. Si chiama “autodeterminazione” proprio perché non viene donata da nessuno: auto-determinazione, determinarsi da sé.

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