Cinquanta anni di alpinismo comune
di Gabriele Di Falco
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
In un’epoca di record e prestazioni eccezionali raccontare la mia storia è di poco interesse in quanto non ho esercitato un alpinismo d’eccellenza, quindi non ho da dire su imprese o ascensioni degne di nota. Questo scritto quindi non vuole assolutamente essere una manifestazione narcisistica o autoreferenziale, ma un riassunto dell’esperienza di un alpinista della domenica che ha praticato a buon livello e con passione, e che ha avuto la fortuna di vivere le varie fasi dell’evoluzione dell’arrampicata e delle altre attività di montagna negli ultimi cinquant’anni.
Il motivo dello scritto è appunto questo, a dimostrazione che anche l’uomo comune, sempre se animato dalla giusta motivazione, può raggiungere degli obiettivi che danno un senso alla propria attività e, se si vuole, anche alla propria vita. Andando in montagna, infatti, ho sviluppato delle capacità e delle caratteristiche che mi sono tornate utili anche nella quotidianità, perché ho avuto nei confronti dell’alpinismo un approccio non meramente sportivo, ma culturale, introspettivo e contemplativo.

Aggiungo anzi che la mia vita di ogni giorno, quella lontana dalle vette, si è evoluta di pari passo con la crescita alpinistica, perché anche lì ho applicato le identiche strategie messe in atto per realizzare le mie ascensioni. La disciplina, la volontà e lo spirito di sacrificio sono componenti del mio carattere che ho sviluppato andando per monti, e la capacità di saper coniugare il tutto è stata l’arma vincente. A 61 anni posso affermare di essere un uomo che in gioventù si è prima posto e poi riuscito a raggiungere diversi traguardi in un disegno all’interno di un progetto di vita.
Sono nato a Loreto Aprutino, un paese dell’entroterra pescarese a metà strada tra il mare e le vette d’Abruzzo. L’assenza di una qualsivoglia tradizione alpinistica tra i miei concittadini era legata al fatto che la cultura dominante voleva, e vuole ancora, che la pratica della montagna e dell’alpinismo siano da sempre teatro in cui disgrazie e sventure siano gli unici protagonisti. Solo ultimamente con la nascita di una locale sezione del CAI la mentalità ha iniziato un po’ a cambiare. Tra l’altro all’epoca il mezzo di trasporto automobile era un lusso che solo pochi potevano permettersi, e a tal motivo i monti si allontanavano ancor di più.
Per tre lustri, tra la metà degli anni ’60 e la fine anni ‘70, nella stagione estiva c’era un servizio di autobus che univa Pescara a Fonte Vetica (Campo Imperatore), con fermata intermedia a Rigopiano. In quel periodo è nata la mia voglia per la montagna complice mio padre, un reduce Alpino della Seconda Guerra Mondiale. Come battesimo, infatti, il papà mi portò all’età di undici anni ad ammirare il Dente del Lupo, un campanile di roccia situato di fronte alla parete nord del Monte Camicia, che ultimamente ho arrampicato in sua memoria. L’attività vera e propria l’ho iniziata durante un campeggio nel periodo della scuola media. Durante quel soggiorno in località Rigopiano, effettuavamo escursioni sui monti limitrofi (Coppe, Siella, Tremoggia e San Vito), percorrendo senza l’ausilio di carte topografiche sentieri a malapena segnati con vernice rossa dal CAI di Penne.

Durante quelle gite già avvertivo quella sensazione di entusiasmo, di felicità e benessere che ancor oggi continuo a vivere con pienezza ogni volta che ho l’opportunità di andare per monti. Alla fine di quel campeggio riuscimmo a raggiungere in autonomia la vetta di Monte Camicia. Al tempo quella salita era considerata un’escursione ambita da molti, ma riservata a persone esperte. Mio amico, non solo in quell’indimenticabile campeggio, fu Daniele Perilli, coetaneo e compaesano animato dalla mia stessa forte visione, e con il quale ho condiviso il “sentiero” che ci ha regalato non poche soddisfazioni, non solo dal punto di vista prettamente tecnico.
La lettura del libro Le mie Montagne del grande Walter Bonatti, mi affascinò al punto che all’età di diciannove anni dell’amico Daniele, e dei miei venti, effettuammo la traversata del Monte Bianco salendo per la via normale italiana, proseguendo quindi per il Mont Maudit e il Mont Blanc du Tucul, per scendere poi al refuge du Midi. Sulla vetta l’8 agosto 1978 eravamo in sei. Oggi nella stessa giornata si possono contare più di trecento persone. La via Kuffner, lo Sperone della Brenva, la Cresta di Rochefort, sempre sul Monte Bianco, quarant’anni fa erano salite riservate all’élite dell’alpinismo. Noi le percorremmo in totale autonomia nonostante la giovane età, e Bonatti stesso, che ebbi modo d’incontrare personalmente in occasione di una sua conferenza a Pescara, ci fece i complimenti. Racconto questo episodio non per magnificarci delle nostre salite, ma per mettere in rilievo la grandezza del personaggio: una pietra miliare dell’alpinismo mondiale che si congratula con due ragazzi, perfetti sconosciuti.

Nonostante la giovane età, però non eravamo degli sprovveduti. Oltre ad allenarci sistematicamente ci documentavamo anche adeguatamente. In quegli anni in zona facemmo delle salite che per quei tempi erano all’avanguardia. Il Gravone in inverno in meno di cinque ore con partenza e arrivo a Rigopiano. Le Spalle del Corno Piccolo e il Paretone erano ambienti sconosciuti ai più. Ricordo che la prima vera arrampicata l’ho effettuata all’età di 12 anni salendo la direttissima al Corno Grande del Gran Sasso d’Italia in una giornata organizzata dal CAI di Penne per l’annuale commemorazione di Silvio Scatozza, caduto durante una gita scialpinistica nel Vallone delle Cornacchie. Sempre con il CAI di Penne, al quale mi sono iscritto all’età di 16 anni, ho frequentato un corso di roccia al rifugio Franchetti (Gran Sasso), organizzato dal CAI di Chieti. In quella occasione con il gruppo capitanato da Giampiero Di Federico ho salito da capocordata il primo Diedro Lucchesi alla Punta dei Due del Corno Piccolo. Dopo il corso ho iniziato a frequentare l’ambiente pennese e in particolare un gruppo di giovani rocciatori, i cui leader erano Antonio Crocetta e Luciano Gelsumino, dove ho avuto l’opportunità di esercitarmi e quindi di migliorare le tecniche sia di scalata che d’assicurazione. Contemporaneamente approfondivo la mia cultura in materia “studiando a memoria” i libri Un Alpinismo di Ricerca di Gogna e Settimo Grado di Messner, che ritengo i pilastri del mio pensiero.
Con l’iscrizione al CAI di Pescara ho fatto il salto di qualità. Il compianto Lino D’Angelo, guida alpina, ogni anno organizzava stage al rifugio Franchetti della durata di una settimana. In quelle occasioni ho conosciuto Fulvio Scozzese, Antonio D’Arcangelo e altri, con i quali in seguito ho continuato ad arrampicare. Quegli stage mi hanno dato la consapevolezza delle mie capacità in quanto il grande Lino mi faceva andare spesso da capocordata. Ogni estate percorrevamo diverse vie di roccia di IV e V grado, e i nostri fiori all’occhiello erano salite come il Vecchiaccio, Aquilotti ‘74 ed Aquilotti ‘75. Con l’amico Daniele, nei periodi di nostra permanenza in Val Veni conobbi Tiziano Cantalamessa di Ascoli Piceno, con il quale ho ripreso contatti alla fine degli anni ‘80. Lui fu la persona che mi ha dato la consapevolezza di avere le capacità di fare alpinismo di alto livello. Con Tiziano ho avuto l’incontro con la difficoltà ED di montagna, realizzando una delle prime ripetizioni della via Ungoliant al secondo Pilastro d’Intermesoli. Inoltre, Tiziano mi ha fatto entrare nel mondo ancor oggi poco frequentato del Paretone del Gran Sasso con la ripetizione di alcune vie ai Pilastri in tempi strettissimi, fra le quali la Diretta al Terzo Pilastro partendo con la prima corsa della funivia dai Prati di Tivo e scendendo con la stessa nel pomeriggio. Eravamo una cordata affiatata nel vero significato della parola: a lui erano riservati i tiri di corda difficili, a me quelli più facili, ma il punto di forza di entrambi era la capacità di essere veloci da secondi pur avendo in spalla il pesante zaino. Purtroppo Tiziano è morto prematuramente lasciando un vuoto incolmabile.

Intanto nella metà degli anni ‘80, dopo aver percorso molti itinerari classici di alpinismo invernale che mi avevano dato la giusta dimensione della montagna nella stagione fredda, e avendo una sicura sciata di base, iniziavo a guardare allo scialpinismo come attività fine a se stessa. Per una questione di sicurezza al fine di ridurre i rischi di traumi fisici, di valanghe e scivolate su neve dura, contrariamente a ciò che accade oggi che si pratica lo scialpinismo già dalla prima neve di stagione, la nostra attività iniziava a marzo con il manto trasformato. Nel corso degli anni ho percorso molti itinerari scialpinistici del Gran Sasso, della Maiella, dei Monti Sibillini e con diverse uscite sulle Alpi dove, per completare la mia esperienza anche in questa disciplina, presi al volo la possibilità di fare un raid: per una settimana intera sono stato in giro con sci e pelli di foca sulle Alpi Bernesi concatenando quattro tappe della Chamonix-Zermatt e due del Giro del Cervino.
Anch’io ho vissuto l’esperienza del Nuovo Mattino, e in una continua ricerca di pareti a fondovalle per emulare i grandi dell’epoca, iniziammo a scoprire le varie strutture (Voltigno, Iacovone, lo Scoiattolo, ecc.), dando nomi particolari come “Cello Torre” e simili, a voler imitare quelli più conosciuti delle Alpi (Caporal). Per far sì che quest’attività prendesse piede nella nostra regione, gli amici Fulvio Scozzese e Giorgio D’Urbano ebbero la brillante idea, e visione, di compilare la prima guida del centro Italia dal titolo Invito alle palestre di roccia, tra le prime del genere ad essere pubblicate. All’orizzonte era sorta oramai l’arrampicata sportiva alla quale mi sono dedicato un decennio, e da me vissuta per migliorare le capacità in montagna e non per raggiungere risultati prettamente agonistici. Posso affermare, senza indugio, che grazie all’allenamento in tale disciplina ho poi potuto percorrere da secondo di cordata le vie più difficili, intese in quegli anni e per la mia generazione, del Gran Sasso (via Maria Grazia Mondanelli alla Seconda Spalla del Corno Piccolo, Ichosaedro alla Prima Spalla, Zaratustra e Stefano Tribioli alla Prima Spalla del Corno Piccolo, Ungoliant al Pizzo Intermesoli). Con Antonio D’Arcangelo e Bernardo Petrucci abbiamo per un decennio “battuto” il Gran Sasso percorrendo tutte le classiche di TD e TD+ fino a salire in Sardegna l’Aguglia di Goloritze per la famosa via Sinfonia dei Mulini al Vento dei fuoriclasse Manolo e Gogna. In quell’occasione dopo aver messo i piedi a terra con l’ultima corda doppia ho avuto un momento di commozione, l’unica nel corso della mia attività, perché avevo salito una guglia ambitissima per una via considerata un mito. Era il coronamento della mia evoluzione tecnica di scalatore iniziata nel tempo degli scarponi rigidi e continuata nell’epoca dalle aderenti pedule d’arrampicata con le suole di gomma in perenne evoluzione.

Il 2003 poteva essere l’anno della fine di tutto, e non solo per quello che riguardava l’alpinismo. Sulla parete est della Vetta Occidentale del Corno Grande, nel primo tiro di corda della via SUCAI, a causa di un malore, ho fatto un volo dal quale sono uscito vivo per puro miracolo, riportando però una menomazione fisica del cinquanta per cento a seguito delle numerose fratture. Dopo il lungo travaglio fisico, riabilitativo e interiore volevo abbandonare definitivamente la montagna, ma la mia famiglia mi è stata davvero vicina esortandomi a non smettere con quella che era ed è la mia passione. Così, per ricominciare a piccoli passi e con nuovi stimoli, con la compagnia di Silvio Maresca, ho aperto la collezione dei Duemila dell’Appennino. Ad oggi mi mancano sette gite per arrivare al fatidico numero 261 che è il totale delle vette al di sopra dei 2000 metri. La voglia e la motivazione dell’arrampicata non mi è mai passata nonostante il brutto incidente. Questo perché scalare mi riesce facile, nonostante la mia corporatura, ed anche perché ho trovato nuovi stimoli in un mio progetto che è quello di completare le salite su tutte le strutture rocciose del massiccio del Gran Sasso d’Italia. A tal fine, con la guide alpine abruzzesi Andrea Di Donato, attualmente residente a Chamonix, e Leandro Giannangeli, entrambi professionisti seri e capaci, sto dando concretezza alla mia idea. Il caro Attilio Santucci, amico di cordata da lunga data, mi accompagna compatibilmente con i suoi impegni professionali in questo percorso. Un’altra costruzione in corso d’opera, e in finitura d’arrivo, è la salita di tutte le pareti in inverno nel mio Gran Sasso. Altre idee e progetti ancora m’illuminano la mente, naturalmente sempre se il Padre eterno continuerà a darmi buona salute.
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Scopro con immenso piacere, oltre che un Grande Alpinista anche un bravissimo divulgatore! Grazie Amico mio.
La giacca azzurra di piumino sulla cima del Monte Bianco è il mitico Monclair.
A diciannove anni pure io fui in vetta, raggiunta per la via normale italiana. All’epoca il rifugio Gonella era incustodito e non si scorgeva anima viva; proprio in quei giorni Messner e Habeler stavano tentando il Gasherbrum I in stile alpino. In quel fine luglio 1975 c’era il plenilunio; nella notte la luna colorò d’argento il ghiacciaio e quasi non ci fu bisogno della lampada frontale: un mondo di fiaba. La neve era perfetta, dura come un mattone. Solo io e il mio compagno di cordata, reduci dal corso roccia dell’anno precedente al CAI di Modena. Gli ultimi passi sulla Cresta delle Bosses, colmi di gioia e di emozione, e poi la vetta ci accolse nel blu di una giornata serena fino all’orizzonte.
Il Monte Bianco fu il mio primo quattromila: che tempi! 🥰🥰🥰
In quel giorno anch’io vestivo quel duvet, dello stesso colore. Oggi lo conservo come una reliquia, ma è ancora validissimo. Anzi, ora mi è venuto in mente che nella prossima salita al Giovo me lo porterò dietro a mo’ di celebrazione del tempo che fu. Se in cima mi scapperà una lacrima di commozione 😢😢😢, ebbene ne sarò contento! 😊😊😊
Significherà che dopo tanti decenni non mi sono abbrutito di fronte alle miserie del mondo e il cuore batte ancora limpido. 😇😇😇
Augh! Ho detto.
P.S. Scusate, mi sono commosso… 💘💘💘
Il mitico Pontifex….un mito delle montagne abruzzesi!
Le piu’ grandi soddisfazioni ,quelle che cambiano la vita di una persona sono sempre il frutto di azioni coraggiose complimenti gabriele.
Bella ed emozionante. Nell’epoca del “contasolochivince”, riesci a trasmettere con grande efficacia lo spirito, quello giusto, col quale approcciare alla montagna. E si passa così dal raccontare una storia – la propria – all’essere un esempio.
Alpinista “nostrano”, Alpinista “Vero”, complimenti, se ne sente la mancanza a volte!
Molto bella Gabriele, complimenti.
Passione pura per l’andare in montagna divertendosi e rispettandola. Anche io ricordo sempre con affetto i bei giorni trascorsi al Franchetti con te , Giorgio e Fulvio.
Un abbraccio forte Baffo.
Non conosco Di Falco, però usa il termine “DISCIPLINA”.
Questo è notevole nei tempi attuali: son pieni di gente vanitosa del banale.
Emoziona sentir parlare di luoghi da cui provengo anche io. E un giorno ci siamo persino incontrati, benché sia ovvio tu non possa ricordati di un vero “alpinista della domenica” come me.
Davvero emozionante leggerti.
Grandissimo Gabriele. Un abbraccio da un alpinista comune un po’ più anziano di te
Grande uomo di montagna! Mitico Gabriele!
grande PONTIFEX.
ancora tante scalate ti aspettano!
Grande Gabriele, complimenti una lunga cavalcata che ti ha portato su gran parte delle più belle montagne d’Italia, sono fiero di aver fatto la tua conoscenza.
Caro Gabriele, posso solo aggiungere che avendoti incontrato e frequentato hai contribuito alla mia passione nell’andar per Monti. Questo la dice lunga… grazie e complimenti a te per questo modo “semplice e puro” di vivere e condividere la montagna !
Complimenti Gabriele, un raro esempio di passione protratto nel tempo, che persevera nonostante anche dopo l’infortunio. A presto sui monti. Giacinto
Una sintesi straordinariamente scorrevole. Traspare una passione pura, … infettiva per il lettore. Complimenti!