Colonialismo linguistico

Colonialismo linguistico
di Antonio Zoppetti
(pubblicato su giornaledelribelle.it il 28 gennaio 2024 e in origine su comedonchisciotte il 26 gennaio 2024)

La notizia che mi ha segnalato ieri l’attivista dell’italiano Marco Zomer riguarda la “svolta” di una scuola secondaria di Torino, l’Istituto Avogadro, che ha deciso di introdurre nella sua offerta formativa i corsi in lingua inglese invece che in italiano. I percorsi di studio sono due: il liceo scientifico dove la biologia, la chimica, la fisica e l’informatica verranno insegnate in inglese; e l’indirizzo tecnico dove l’inglese sarà la lingua di apprendimento “solo” di informatica e fisica. Come se non bastasse, l’insegnamento dell’inglese già previsto e obbligatorio verrà aumentato di due ore. Il modo in cui l’articolo de La Stampa riporta la notizia è il solito, si esaltano queste decisioni in modo acritico per propagandarle, invece di analizzarle, con la volontà di giustificare e diffondere la visione anglomane che la nostra intellighenzia ha fatto sua. E così leggiamo che la scuola “guarda al futuro” (cioè, il futuro coloniale dell’Italia), perché dal prossimo anno includerà “i programmi Cambridge”. A dire il vero questi programmi servono per imparare l’inglese, non per insegnare le materie scientifiche, e andrebbe almeno specificato.

Ma il pezzo, il cui incipit è un solenne “Torino chiama Cambridge” punta a mostrare che in questo modo la scuola torinese si eleva al prestigio di quella inglese, e sottolinea la grande innovazione per l’indirizzo tecnico, perché avrebbe solo quattro precedenti in tutta Italia, mentre al liceo scientifico è forse una prassi meno rara. Le argomentazioni didattiche o pedagogiche sottostanti hanno lo spessore di una televendita di cinture dimagranti eccezionali perché vengono dall’America, a partire dai virgolettati della professoressa Elena Vietti che spiega come la “metodologia Cambridge” favorisca lo sviluppo delle tecniche di problem solving “oltre ovviamente un potenziamento della lingua stessa”. E qui infila la prima evidente castroneria, perché se vogliamo imitare il modello di formazione anglosassone dobbiamo appunto capire una cosa molto semplice: lì potenziano la propria lingua, non quella degli altri. Se Torino chiama Cambridge, va detto che Cambridge non chiama né Torino, né Parigi, né Madrid, né Berlino né alcun altro.

A Cambridge non si studiano le materie in francese, tedesco o italiano – forse alla prof sfugge questo piccolo trascurabile particolare – e nei sistemi scolastici angloamericani le lingue straniere non sono contemplate, o comunque non sono obbligatorie, e quando sono previste hanno un ruolo marginale. Ma nel processo di alienazione linguistica in atto – l’abbandono dell’italiano per passare all’inglese – non si racconta che, mentre tutta l’Europa spende una fortuna per insegnare l’inglese (lingua di fatto extracomunitaria) e formare le nuove generazioni bilingui a base inglese sin dalle elementari, gli inglesi e gli americani non hanno questi costi, visto che preferiscono che tutto il mondo impari e usi la loro lingua naturale. Ora, per chiamare le cose con il loro nome, tutto ciò avviene all’insegna del colonialismo linguistico. Non stupisce che gli anglofoni, maestri del colonialismo e anche di quello che un tempo si chiamava imperialismo, spingano in questa direzione che comporta interessi economici e strategici per loro spropositati. Quello che stupisce è che in Italia non lo si capisca o si faccia finta di non capirlo.

Colpisce il servilismo con cui ci zerbiniamo davanti alla “lingua dei padroni” e alla dittatura dell’inglese in un’alienazione culturale che distrugge la nostra lingua e cultura. Dal punto di vista didattico, la citata professoressa spiega l’intento di voler conciliare l’approccio all’istruzione anglosassone di taglio molto pragmatico con la tradizione italiana più “teorica”, ma bisogna specificare che dietro la nostra “teoria” c’è – o forse c’era – un ben diverso criterio che tende a considerare le cose da un punto di vista storico e anche critico, che è molto distante da quello per esempio tipicamente americano che in nome di questo scellerato “problem solving”, già introdotto a forza nelle scuole come criterio di valutazione degli studenti, si limita il più delle volte a fornire nozioni non sottoposte ad analisi critiche né storicizzate. E in questo passaggio a un sistema “misto” (dove però c’è solo la lingua inglese) l’inglese farà da “link” alle materie: collegamento è parola della veterolingua che si vuole cancellare, ma si potrebbe dire forse anche hub, invece di snodo o raccordo (l’itanglese nella sua ricchezza ci sta fornendo sempre più sinonimi). Come se senza questo link, le materie fossero percepire come disgiunte, e come se questo collegamento non si possa fare nella nostra lingua nativa!

Il livello di queste dichiarazioni è sconcertante, e ancora più sconcertante è come i giornali lo ripetano facendolo passare come normale. Questo conciliare i due metodi in modo appunto astratto e teorico ricorda certe caricature con cui si dice di voler essere ecologici ma senza rinunciare al suv, o di volere incentivare prodotti locali a chilometro zero ma anche la Coca Cola. Nella realtà, dietro le proposte di anglificazione della scuola l’obiettivo è solo uno: l’imposizione dell’inglese che diventa LA materia più importante e il cardine attorno al quale si vuol far ruotare l’istruzione. Lo si vede dal bocconcino più goloso dell’operazione che include appunto l’ottenere la certificazione Igcse, la ciliegina che è il vero obiettivo dell’offerta. Ma l’italiano dov’è? Che ruolo e che peso ha in questo percorso?

Come mai le nuove scuole-aziende americanizzate o cambridgizzate e il nuovo sistema scolastico che viene smantellato sfornano studenti con sempre più problemi di analfabetismo di ritorno o funzionale? Sembra che sul piatto della formazione la pietanza forte sia solo l’inglese, come se tutto il resto forse un contorno di cui si può fare anche a meno. E colpisce l’affermazione di un’altra professoressa che con orgoglio spiega che la nuova offerta anglomane non ha richiesto nuovi docenti, perché quelli in carica sono già patentati del livello C1 e C2 di inglese. Dietro questo fiorellino da mettere all’occhiello non si mette in luce la preparazione, la competenza o la bravura dell’organico, ma solo la sua conoscenza della lingua superiore. Come se fosse questo il requisito da propagandare negli immancabili “Open day” che servono a reclutare gli studenti. La dirigente scolastica dell’Istituto, nello spiegare che si tratta di una sperimentazione solo avviata, anticipa che per il momento ci si aspetta un numero di studenti e classi contenuto, e dalle adesioni dipenderà il futuro allargamento della proposta ad altri indirizzi e classi.

La mia speranza è che iniziative di questo tipo falliscano miseramente, e che non si raggiunga il “numero di Avogadro” necessario per continuarli. Più realisticamente so bene che non andrà a questo modo, perché l’anglificazione della scuola nel nuovo millennio si sta allargando in maniera preoccupante. Uno dei primi segnali è partito proprio da Torino, quando il Politecnico ha deciso di incentivare i corsi in inglese nell’anno accademico 2007-2008 attraverso l’iscrizione gratuita per il primo anno, discriminando di fatto i corsi in italiano che invece si pagavano. Pochi anni dopo, nel 2012, il Politecnico di Milano si è spinto ben oltre decidendo di estromettere la nostra lingua dalla formazione universitaria per erogare corsi solo in inglese. Anche in questo caso ci sono state vicende giudiziarie infinite, ma benché sulla carta sia stata riconosciuta una teorica “primazia dell’italiano”, di fatto l’ateneo continua a erogare corsi quasi solo in inglese. E così mentre questo modello si allarga, e recentemente anche la Bocconi di Milano ha preso la medesima direzione, oggi si abbassa l’asticella includendo anche le scuole secondarie, che sono il prossimo terreno di conquista.

Nei Paesi scandinavi, dove l’anglificazione è stata da tempo introdotta e sperimentata, si assiste a una marcia indietro perché si è visto che insegnare in inglese si trasforma in un processo sottrattivo, non aggiuntivo. Insegnare in un’altra lingua comporta la perdita e la riduzione della terminologia nella lingua nativa, induce alla semplificazione dei concetti e dei ragionamenti perché si esprimono con più difficoltà, spinge a pensare in inglese, che invece di aggiungersi alla lingua di partenza finisce per fagocitarla. Noi, al contrario stiamo andando in questa direzione suicida in modo becero, acritico e coloniale.

Le nefaste conseguenze di questi approcci sono state denunciate da autori africani come Ngugi wa Thiong’o che le hanno subite: lì, le scuole coloniali in lingua inglese hanno non solo contribuito all’abbandono delle lingue indigene, ma hanno soprattutto creato barriere culturali: chi non sapeva l’inglese non poteva accedere alle scuole che imponevano quella lingua e in quella lingua insegnavano. L’inglese ha creato una diglossia tra lingua della cultura e lingua del popolo che da noi apparteneva al Medioevo, quando il latino era la lingua appunto della scuola e della scrittura e il volgare delle massi analfabete. E noi, oggi, in nome di un supposto “internazionalismo” che viene fatto coincidere in modo surrettizio con il parlare in inglese, stiamo costruendoci da soli analoghe scuole coloniali per formare le future generazioni. Così, mentre l’itanglese diviene la lingua modello del linguaggio della scuola e del Ministero dell’Istruzione, l’inglese puro diviene la lingua della nuova cultura, in una svolta linguicista che discrimina la nostra storia e cultura.

Ma a raccontare queste cose, o per lo meno a mostrare l’altra faccia della medaglia dell’anglificazione, affinché ognuno possa fare le sue scelte in modo consapevole, non sono i giornali, né i politici, né gli intellettuali (a parte sparute eccezioni di qualche “dissidente”), sono più spesso i lettori. E Marco Zomer, agguerrito attivista dell’italiano, è riuscito a fare arrivare la sua voce al giornale, seppur in un trafiletto in cui le sue riflessioni sono state riassunte e semplificate. L’anglificazione della scuola è il nuovo terreno di conquista che nei prossimi anni emergerà e si allargherà, ma invece di produrre riflessioni serie e dibattiti, viene dato per scontato come “il futuro” ineluttabile, un futuro dove l’italiano finirà per diventare un dialetto.

Colonialismo linguistico ultima modifica: 2024-06-09T04:12:00+02:00 da GognaBlog

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31 pensieri su “Colonialismo linguistico”

  1. È sparito il says lasciando il posto al nostrano “ha detto”.
     
    Bella lì. 

  2. To climb probabilmente è traducibile più correttamente con salire, con tutte le sue possibili accezioni.
    Il “climbing rate” di un aereo è la sua velocità di salita.

    Per tornare al colonialismo linguistico, nella mia esperienza i più pronti a farsi colonizzare, quelli con cui non riesci a comunicare (sempre che sia possibile farlo) senza usare anglicismi, spesso inutili e sbagliati, quelli che malconsiderano i discorsi non infarciti di inglesismi sono gli appartenenti a quelle professioni tecnico-iniziatiche, magico-scientifiche, mistico-tecnico-esoteriche quali architetti (sopratutto d’interni), designer, stilisti, influencer, consulenti di organizzazione aziendale, economisti ecc.

  3. @27
    “[…] ci sono delle nuances linguistiche che non sono direttamente traducibili dizionario alla mano […]”
     
    Sono perfettamente d’accordo.
    Ma non sono altrettanto scettico a priori sulla sensatezza della proposta, la quale (sensatezza) va messa in relazione all’obbiettivo che si vuole ottenere (con la proposta).
    Che, mi pare, non è quello di formare dei novelli Dickens o Shakespeare, ma di fornire agli studenti una possibilità diversa di apprendimento in materie essenzialmente tecniche (dopotutto parliamo di liceo scientifico e istituto tecnico) per le quali non è necessaria una perfetta conoscenza delle sfumature del linguaggio, ma dei termini tecnici e del loro utilizzo sì.
    E, comunque, la qualità del risultato finale non potrà che essere proporzionale alla bravura dei docenti. Sulla quale, non conoscendoli, non mi esprimo.

  4. Balsamo @23. Tanto per continuare a giocare con le parole. Non credo proprio che Bonington si offenderebbe se gli si desse del climber. E’ vero che è un British mountaineer, ma in inglese il titolo del suo primo libro è “I chose to climb“. E la traduzione italiana (“Ho scelto di arrampicare”) non gli rende giustizia e suona un po’ riduttiva, proprio perché climber è molto più estensivo che arrampicatore. Climbers a parte, mi pare che il succo della faccenda (anche per rientrare sul tema principale della discussione) è che, grazie al cielo, ci sono delle nuances linguistiche che non sono direttamente traducibili dizionario alla mano, e che sono assai difficilmente controllabili da chi dentro quelle sottigliezze non ci è nato e cresciuto. Cosa che mi rende assai scettico sulla sensatezza dell’idea di chiedere ai docenti di tenere i loro corsi in una lingua che non è la loro, pena un drastico impoverimento della qualità dell’insegnamento.

  5. 20. Io trovo orribili i termini come “ministra” o “sindaca” e, per quanto donna e sostenitrice dell’universo femminile, continuo a usare le parole al maschile, poiché le sento più appropriate e, secondo me, non sminuiscono gli attori.

    Addirittura, durante un festival di corti di teatro, i presentatori, entrambi omosessuali, si riferivano alle “personagge”, convinte di rendere maggior giustizia alle protagoniste. Trovo molto più elegante le parole “personaggi femminili”, che danno ancora più risalto alle donne.

  6. 13. Appunto, Giuseppe: vogliamo soffermarci sull’accento della voce narrante? Davvero divertente!

  7. 7. Matteo, fuffologia applicata é stupendo!

     

    Giuseppe, parlo diverse lingue tra le quali anche l’inglese e posso sostenere con certezza che non è necessario studiare per anni l’inglese – insegnato malissimo nelle scuole italiane – per poter leggere manuali specifici e tenere una lezione tecnica: il livello è sempre molto basso e la lingua super appiattita, visto che deve abbassarsi a moltitudini di non-madrelingua.

  8. @21
    non ho mai letto […] che “the two mountaineers reached the summit of Everest”
     
    E’ vero che “mountaineer” è (relativamente) meno usato in favore del più generico “climber”, ma gli esempi non mancano, Battimelli. Cerca e troverai.
     
    Un paio:
    Mount Everest is an extreme environment for humans. Nevertheless, hundreds of mountaineers attempt to summit Everest each year
    Da “Mountaineers on Mount Everest: Effects of age, sex, experience, and crowding on rates of success and death
    https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32845910/
     
    Alpinism is the crucible of mountaineering sense and judgement, of picking a safe line, judging stonefall, assessing the weather, deciding whether to go on or retreat
    Da “Mountaineer” di Chris Bonington
     
    P.S.
    A Bonington, se lo chiami “climber” secondo me si offende e ti toglie il saluto 🙂

  9. Climbing, iceclimber, summiter, top, top rope, weekend, trend, hotel (ci ripugna dire albergo?), gate, hard disk, transgender, runner, street food, privacy, check in, customer care, fake news, green pass, smart working, climate change, smartphone, competition, mission, online, part time, cash, cashback, pullover, store, manager, leader, flat tax, fiscal drag, premier, brand, sold out, barcode, password, account, record, fashion, homeless, plus e media (pronunciati plas e midia, ma è latino!), ecc. ecc.
    Tutte queste parole hanno un traducente italiano. Perché non lo usiamo?
    … … …
    Se invece il traducente non esiste – come nel caso di bar o di film – non c’è nulla di male a usare quelli che vengono definiti prestiti di necessità.
    Però ciò dipende dal fatto che noi italiani non abbiamo saputo coniare nuove parole, a differenza di quanto in genere fanno francesi e spagnoli.
     
     
     

  10. Tanto per fare un po’ di crusca (all’inglese); la traduzione da dizionario di “alpinista” sarà pure “mountaineer” (ma anche “alpinist”), ma non ho mai letto su una rivista di alpinismo inglese che “the two mountaineers reached the summit of Everest”; ho sempre trovato “climbers”. Non potrei mai dire in italiano che  “ho arrampicato il Monte Bianco” , ma in inglese direi “I climbed Mount Blanc”. “To climb” è più generale che “arrampicare”, e “climber” vale tanto per l’arrampicatore quanto per l’alpinista. La migliore rivista generalista di alpinismo/arrampicata in lingua inglese (almeno una ventina di anni fa) era Climbing; e dentro c’era di tutto, dallo sport climbing al mountaineering. Insomma, è un mondo difficile…

  11. Che i neologismi ci sembrino strani o ridicoli dipende solo dall’abitudine. Ministra sindaca all’inizio mi parevano ridicoli. Ora, con l’uso, non è (quasi) piú cosí.
    Una volta si diceva comunemente calcolatore (elettronico) o elaboratore. Ora però, dopo l’arrivo dell’anglofilia, sembra ridicolo.
     
    Abbiamo un elenco interminabile di parole italiane che vengono sostituite dal traducente straniero (inglese). Perché? Per moda, per conformismo, per scimmiottamento, per senso di inferiorità. 
     
    Ditemi voi che senso ha scrivere location quando nella nostra lingua già esistono località, luogo, posto. Tra l’altro, le ultime due parole sono perfino piú corte della corrispondente inglese.
     
    E il suono è nettamente migliore. La lingua italiana è musicale, e ciò grazie a due ragioni: 1) quasi tutte le parole terminano con una vocale; 2) le sequenze di tre o piú consonanti sono rare. In tal modo, per di piú, non ci si annoda la lingua.
    (CONTINUA)

  12. Anche qui nel blog al nome del commentatore viene fatto seguire un says (=dice). Perché in inglese?“Infatti. Perché ?
    Ma, soprattutto, che diavolo significa “blog” ? 🙂

  13. @14
    Battimelli, concordo: l’insegnamento dell’inglese e l’insegnamento di una materia in inglese sono cose differenti.
    Sul fatto che sia opportuno oppure no tenere alcuni corsi in inglese, lascerei il giudizio e la scelta agli studenti.
    Purché, appunto, vi sia possibilità di scelta. Il che mi sembra acclarato dal fatto che, nel caso specifico, si tratta dell’istituzione di due nuove sezioni (una per lo scientifico e una per il tecnico) e non dell’estensione di questo metodo a tutti.
     
    Sull’uso del termine “climber” al posto di “arrampicatore” (o “scalatore”) sono d’accordo con te. In questo caso è meglio, da italiani, usare i termini italiani.
    Ma la traduzione precisa in inglese di “alpinista” (himalayano) è “mountaineer”, non “climber”. Ovvero, l’uso (generico) di “climber” per “alpinista” ne snatura il significato anche in inglese.

  14. Voi mette dire:  sei un free climber?  multipitch, free solo, fa più figo, è più ganzo.

  15. @13 Balsamo. Ma qui la questione non è se sia opportuno o meno insegnare l’inglese agli studenti di un liceo scientifico (cosa su cui non mi sembra possano sussistere dubbi), ma se sia opportuno che i corsi (di fisica, matematica, informatica etc.) in un liceo scientifico siano tenuti in lingua inglese. E c’è un’enorme differenza.
    Circa poi l’equilibrio da mantenere tra “protezionismo” e “prestito linguistico”; è ovvio cha la lingua evolve e che il prestito da altre lingue è in qualche misura inevitabile, e anche fonte di arricchimento (io ora sto usando il mouse, e non mi sembra il caso di chiamarlo il topo); il problema si pone quando il prestito si riduce a scimmiottamento provinciale, e causa impoverimento. Per restare in ambito alpinistico, non solo non c’è nessuna ragione per dire “climber” invece di “arrampicatore”, ma utilizzando il termine inglese se ne riduce e snatura il significato: perché in inglese “climber” è tanto l’arrampicatore sportivo quanto l’alpinista himalayano. Vabbè, vado a fare un southern sleeping (no, volevo dire una pennichella).

  16. Lingua italiana ? Quale lingua italiana ? 🙂
    https://www.youtube.com/watch?v=CeQxACwW2Nw
     
    Vi sono materie in cui, se non sai l’inglese, sei morto (informatica ed elettronica, ad esempio, ma, in generale tutta la ricerca – come sottolineato da Migheli).
    Quindi, che venga insegnato in un liceo scientifico e in un istituto tecnico non dovrebbe sorprendere troppo.
    Ma forse al giornaledelribelle (o a comedonchisciotte) non lo sanno 🙂
     
    P.S. Solo le lingue morte sono sempre uguali a sé stesse, quelle vive evolvono con i tempi e con l’uso.
    Certo non bisogna esagerare con il prestito linguistico, ma nemmeno con anacronistici protezionismi.

  17. Trovo terribile l’avanzata dell’inglese a discapito della nostra meravigliosa lingua italiana.
    Trovo orribile che si inventino termini a metà strada tra l’inglese e l’italiano, perdendo la capiscila di descrivere (per esempio “spoilerare”).
    Trovo assurdo che una scuola italiana offra corsi in inglese insegnati da professori che parleranno, con accento italiano, un inglese appiattito dalla non conoscenza.

  18. Sul linguaggio da usare non esistono strategie con validità universale. Dipende dal contesto e dagli interlocutori a cui ci si vuole rivolgere. Se uno vuole entrare in contatto con giovanissimi climber e non usa multipich (o altri termini della stessa serie) già imposta male il rapporto. Che dici? “via lunga attrezzata a spit ma non alpinistica”? ti ridono in faccia. Nel linguaggio generale, poi, ci sono alcuni termini che ormai sono italianizzati a tutti gli effetti. Quando, da ragazzi, volevamo invitare una ragazza a vedere insieme un film, avremmo forse detto “ti garba assistere insieme alla proiezione di un pellicola cinematografica?” Si parte male, dai… (a Torino, poi, nel ns pragmatismo siamo persino più spicci: “‘Anduma al cine?”). Viceversa in ambito scientifico/accademico, ormai non si può che esprimersi sempre più in inglese. E’ ovvio che anche quando dialoghi in italiano, es con un collega o uno studente, alla fin fine usi certi termini, che ormai fan parte dello slang (urca! intendevo dire del gergo) del settore.

  19. Antonio Zoppetti, laureato in filosofia, è autore di alcuni libri di grammatica italiana e a difesa della nostra lingua.
    Cura i seguenti siti, il primo utilissimo e il secondo molto interessante:
    1) aaa.italofonia.info, dizionario delle alternative agli anglicismi.
    2) diciamoloinitaliano.wordpress.com, dedicato al tema degli anglicismi.
     

  20. Completamente d’accordo con Gianni Battimelli.
    Usare il termine multipicht poi è semplicemente ridicolo.
    La maggioranza usa questi termini inglesi perchè se sentono più ganzi.
    Ma ganzi di che??

  21. Matteo, la faccenda è forse un po’più complicata. Certo però che non aiuta a dipanare la matassa confondere l’ovvia constatazione (Migheli) che nella ricerca scientifica di punta l’inglese E’ la lingua franca, e che dunque lavori di ricerca seri si pubblicano prioritariamente in quella lingua, con la suggestione che insegnare ai liceali la matematica in inglese sia una mossa intelligente. Tanto per cominciare, bisognerebbe avere delle ragionevoli certezze sulla qualità del controllo dell’inglese da parte degli insegnanti, cosa su cui è lecito nutrire seri dubbi. Perché a dire “from equation 2) follows easily that…” sono buoni tutti, ma insegnare richiede una capacità di eloquio un po’ più sofisticata… anche per la matematica.

  22. Io sono completamente d’accordo con Gianni e ritengo che i contesti professionali specifici che tendono a usare di più gli anglicismi e a ritenerli fondanti la credibilità professionale siano quei settori definibili come ad alto contenuto di “fuffologia applicata” [settori che in effetti sono in amplissima crescita, purtroppo!]
     
    Quanto all’insegnamento in lingua inglese, potrebbe anche essere una idea valida per corsi universitari o singole materie al liceo…anche se ho paura che in inglese una buona parte degli insegnati sia a livello di “noio vulevam savuà”

  23. Il contenuto di questo articolo può anche essere condivisibile a livello emotivo.
    A un livello razionale, però, gli studi sul divario linguistico (language gap) dimostrano che: (1) le ricerche pubblicate in lingue diverse dall’Inglese hanno estrema difficoltà ad essere lette e ancor meno citate; (2) i ricercatori la cui lingua nativa non sia l’Inglese  hanno maggiori difficoltà a fare carriera, pubblicare ricerche, partecipare a congressi, vincere progetti  ecc (Amano T, Ramírez-Castañeda V, Berdejo-Espinola V, Borokini I, Chowdhury S, Golivets M, et al. (2023) The manifold costs of being a non-native English speaker in science. PLoS Biol 21(7): e3002184. https://doi.org/10.1371/journal.pbio.3002184).
    La proposta del liceo scientifico oggetto dell’articolo può essere una risposta immediata a questi problemi, in attesa che l’uso crescente dell’AI nel campo della ricerca renda forse meno prioritario il ruolo della lingua nativa.

  24. Ci sono dei contesti specifici, specie professionali, in cui, se non usi i termini “trendy” (cioè di tendenza, almeno nel gergo di “quel” settore), vieni considerato “marginale” e i tuoi contenuti sono ritenuti meno importanti, perché si innesca una specie di pregiudizio. D’altra parte anche bar, film, tram non sono termini italiani eppure li usiamo ormai abitualmente nella conversazione quotidiana. Il tema dell’articolo però è un po’ diverso. Non si tratta di una sottile, per quanto subdola, invasione di termini inglesi nella parlata spicciola, ma di utilizzare l’inglese per insegnare materie che NON sono specifiche inglesi, abituando le nuove generazioni a usare solo più i termini inglesi (cioè perdono i corrispondenti italiani). Alcune iniziative universitarie, volte a catturare le iscrizioni di studenti stranieri, hanno seguito questa impostazione, col risultato che magari di soggetti “internazionali” poi non ce n’erano e quindi si aveva il paradosso che docenti italiani conducevano le lezioni in inglese a studenti che, alla fin fine, erano solo italiani. Questo tipo di paradossi è ridicolo, ben  più di qualche anglicismo infilato nei discorsi spiccioli.

  25. “D’altra parte chi si sognerebbe di evitare termini come target, trend, climbing?”
    Mah. Io non solo me lo sogno, ma lo faccio anche da sveglio. Dico e scrivo obiettivo, tendenza, arrampicatore (sì, lo so che “target” non si traduce esattamente con “obiettivo”, ma questa è una ragione in più per usare le diverse parole italiane che consentono, in specifici contesti, di definire un “target”). E le multipitch potete mettervele dove sapete (e mi scuso per non essere suffucientemente politically correct, anzi politicamente corretto).

  26. Sono invece contrario al zerbinaggio linguistico a tutti i costi, specie imposto dal sistema educativo. Copio dall’articolo: “… si è visto che insegnare in inglese si trasforma in un processo sottrattivo, non aggiuntivo. Insegnare in un’altra lingua comporta la perdita e la riduzione della terminologia nella lingua nativa, induce alla semplificazione dei concetti e dei ragionamenti”. Questo è grave, perché le nuove generazioni, che non maneggiano più l’italiano come le nostre generazioni, non solo non sanno più scrivere come noi, ma hanno difficoltà a comprendere testi in italiano, che non siano una semplice “lista della spesa”. questo è grave per ogni lingua, ma lo è in particolare per l’italiano che non è una lingua “qualsiasi”, ma una lingua molto forbita, colta e raffinata. una lingua che ci contraddistingue, perché è l’espressione di un cultura molto raffinata e accumulata nei secoli. Perdere il controllo della “propria” lingua è quindi l’anticamera di un piallamento mondiale, una specie di globalizzazione culturale in cui tutti parlano uno stesso linguaggio, uniforme e senza personalismi. A quel puto tanto varrebbe tornare a gesti e grugniti, come le scimmie nostre antenate.

  27. Personalmente non sono scandalizzato dall’estensione dell’uso dell’inglese, che è ormai (da decenni) la lingua “mondiale”, un po’ come nell’antichità e nel Medio Evo era il latino, cioè la “lingua comune”: si tratta di una specie di esperanto collegato alla potenza politico-militare (quella britannica ormai archiviata, ma in passato ha lasciato il segno e cmq l’inglese mondiale di oggi è in realtà la lingua degli statunitensi, non dei britannici). Anche a me capita quotidianamente di utilizzare anglicismi che sono ormai entrati nei dialoghi di tutti i giorni (specie in campo professionale). D’altra parte chi si sognerebbe di evitare termini come target, trend, climbing? Quindi questo colonialismo è inevitabile e, tutto sommato, meglio il colonialismo della lingua inglese che quello del mandarino cinese (anche da un punto di vista spicciolo: immaginatevi dover imparare gli ideogrammi…). 

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