Colpo doppio in Karakorum
[Broad Peak e Gasherbrum I (Hidden Peak) in meno di 4 settimane]
di Valery Babanov
(pubblicato su The American Alpine Journal, 2009)
31 luglio, 6900 metri. Sono nello spazio oscuro di un sogno profondo, in cui sono in piedi su una barca di legno, preso dalla rapida corrente di un fiume e sfrecciando a capofitto verso l’orizzonte. Da qualche parte lontano, lungo la riva, un ragazzino corre, agitando le mani e piangendo qualcosa. Cerco di distinguere le sue parole senza successo. Poi focalizzo tutta la mia attenzione e finalmente alcune frasi mi raggiungono. “Valera, sei vivo? Come va la testa?”
Una forza misteriosa mi costringe ad aprire gli occhi. La debole luce di una torcia e la voce di qualcuno: “Come va la testa? Fa male?”
Il velo del sogno inizia a svanire e mi rendo conto di essere in una piccola tenda a quasi 7000 metri sulla parete sud-ovest dell’Hidden Peak. La voce appartiene a Viktor Afanasiev, il mio compagno di salita. Confuso nel mio sonno, ancora non capisco cosa sta succedendo. “Sto bene, non mi fa male la testa,” gli dico. “Ieri sera ho preso un’aspirina”.
Guardo Vitya, che si sta tenendo la testa. “E tu… ti fa male la testa?”
“Un sasso è volato nella tenda. E mi ha preso in testa”. Abbassa le mani e con orrore vedo che sono ricoperte di sangue.
Improvvisamente sono completamente sveglio. Guardo l’orologio: ore 1.00. “Bene, adesso è proprio un casino”, penso. Sento una corrente d’aria fredda alla schiena e mi giro a guardare. Come occhiaie nere e vuote, due enormi buchi nella tenda mi fissano. Il vento gelido e la neve si precipitano nella nostra piccola isola della vita.
“Come ti senti ora?” Questa è la prima cosa ragionevole che ho detto da quando mi ero svegliato.
“Sai, è doloroso,” risponde Vitek, tenendosi la testa. «Ho una benda. Ecco, Valera, fasciami la testa, ma prima guarda cosa c’è. Forse provare a pulire la ferita?”
Prendo una bottiglia di tè caldo dal saccopiuma e inumidisco la benda. La ferita è nascosta dai suoi capelli, ma il cranio sembra intatto.
“Possiamo provare a scendere subito, quando inizia a fare un po’ di luce”. Esprimo ad alta voce ciò a cui stento a credere.

Ma Vitek sta pensando chiaramente. “Non ancora,” dice, “e non voglio scendere questa parete alla luce del giorno. Saremmo preda delle scariche di sassi”.
Sono d’accordo con lui e aggiunge: “Fammi provare a salire al colle a 7200 metri al mattino, e da lì, se le cose non migliorano, inizieremo la nostra discesa”.
Nella sua voce rilevo note di rammarico, e ovviamente capisco. Ognuno di noi ha vissuto per più di un anno con l’obiettivo di una nuova via sull’Hidden Peak.
Il mio desiderio di tentare nuove vie su 8000 tecnicamente complessi è cresciuto dopo la nostra prima salita della cresta occidentale dello Jannu 7710 m nell’autunno del 2007. Mentre stavo arrampicando complessi tiri di misto a 7500 metri, mi sentivo completamente capace di fare di più. Le salite delle gigantesche vette di 8000 metri lungo vie classiche non mi interessavano, ma salire una nuova via tecnicamente complessa, pur mantenendo uno stile alpino leggero, era un’altra cosa. Il gioco valeva la candela.
Per me, l’alpinismo è sempre stato un mezzo per la conoscenza di me stesso, e ora sto attraversando la prossima fase evolutiva, in una sfera dell’attività umana che massimizza l’imprevedibilità, in cui la sopravvivenza richiede la mobilitazione di tutte le riserve interiori di una persona, anche il suo intuito.
Ho visitato per la prima volta il Karakorum nell’estate del 2007 e sono rimasto sorpreso dalla sua bellezza e severità. Mi sono ripromesso di tornare e, tornato a casa, guardando le fotografie degli 8000 del Karakorum, ho tracciato nuove linee sulle vette di una bellezza ammaliante.
Il primo che ha attirato la mia attenzione è stato il contrafforte inviolato sulla parete occidentale del Broad Peak 8047 m. Non riuscivo a capire perché questa bella e logica linea non fosse mai stata scalata. Forse era per colpa del seracco strapiombante in mezzo alla parete, da cui di tanto in tanto si staccano pezzi di ghiaccio, ricordando agli alpinisti che è una parete molto “viva”. L’idea di una salita attraverso questa via è diventata gradualmente la mia passione, e poi l’obiettivo si è allargato fino a scalare non una ma tre nuove vie sugli 8000 in un’estate. Ma avremmo iniziato con il Broad Peak.
9 luglio, 4900 metri. Una mattina grigia e piovosa. Invece di fare il pieno di sonno, saliamo lentamente sul ghiacciaio, carichi di zaini da 20 chilogrammi. Siamo solo due: Viktor e io. Alle nostre spalle ci sono quasi due settimane di acclimatamento, durante le quali abbiamo raggiunto i 7100 metri attraverso la via classica sul Broad Peak: questo è stato del tutto sufficiente per un “8000 inferiore” come questo.

Durante i nostri primi giorni al campo base avevamo osservato attentamente la parete di seracchi sulla linea in programma e identificato un percorso attraverso questa barriera di ghiaccio alta 100 metri. La mia voce interiore mi diceva che avevamo scelto la strada giusta e che tutto sarebbe andato bene. Ora, nonostante il brutto tempo, abbiamo deciso di iniziare la nostra salita. Le previsioni promettono un lento miglioramento nei prossimi giorni e non vogliamo sederci ad aspettare oltre.
Il primo giorno è sempre il più difficile. Andiamo in silenzio, ognuno di noi sprofondato in se stesso. Non so cosa stia pensando il mio partner, forse le stesse cose mie: su amici e parenti che rimangono sotto; sulla montagna e sul rischio a cui ci sottoponiamo; e sulle nostre possibilità di salire fino alla vetta e ritornare.
A volte noto che il ritmo dei miei passi coincide con il ritmo dei miei pensieri. A volte si fondono e io sparisco in un vuoto profondo, praticamente intangibile, in cui tutto si dissolve – ghiacciai, vette, anche il tempo – e sto nuotando nello spazio senza inizio né fine. Tutto intorno a me sembra essere intessuto di nebbia e la vita stessa in tutta questa scena sembra essere irreale. Mi sembra che in tali momenti si tocchi l’Eternità.
Mi riscuoto da questa condizione quando inciampo su una roccia. Il ritorno alla realtà è sempre un po’ triste.
11 luglio, 6500 metri. Mattina. Getto indietro la testa e guardo verso la cima del Broad Peak. Siamo ancora in ombra, ma lassù i caldi raggi dell’alba stanno già sfiorando la vetta del monte colossale. Le poche nuvole sospese nel cielo azzurro sembrano del tutto benigne.
Negli ultimi due giorni abbiamo scalato in condizioni orribili. Era come se la montagna ci mettesse alla prova. Spesso forti raffiche di vento portavano neve pungente e freddo. E ora, come ricompensa per la nostra caparbietà, il cielo ha fatto dono del suo silenzio, mescolato a colori blu intenso.
Ogni passo ci avvicina alla massiccia barriera di ghiaccio, sospesa minacciosamente sopra la testa. Diverse volte in questi giorni enormi pezzi di ghiaccio si staccavano e ruggivano lungo un canale alla nostra destra. Non possiamo rilassarci anche se sappiamo che la nostra attuale via è al sicuro da questi proiettili. Ogni cellula del proprio corpo stanco avverte la vicinanza di un tale mostro. E domani saremo nello stesso cuore di quella muraglia ghiacciata: il nostro percorso passa direttamente attraverso di esso.
12 luglio, 7000 metri. Dall’alba il sole è coperto da un sudario e soffiano raffiche di vento forte. Sopra di noi, all’orlo superiore della fascia di seracchi di 100 metri, ci sono enormi strati di neve, nel vortice vorticoso in cui il cielo stesso scompare. È terribile immaginare di dover superare tutto questo. Dal basso, qualche giorno fa, avevamo studiato con il binocolo la barriera glaciale, e ora ci ricordiamo che avevamo trovato un unico punto debole (se così si può dire). Quando ci avviciniamo direttamente alla parete del seracco, essa appare ancora più imponente. Ma la certezza di aver trovato la strada giusta ci dà forza.

“La sosta è pronta”.
“Vado”.
Da questo momento il mondo più ampio cessa di esistere e la mia vista si comprime a due metri quadi di ghiaccio gelido. Dopo solo pochi metri di salita, ho i polpacci pieni di piombo e i polmoni faticano a pompare abbastanza aria. Ogni colpo di un attrezzo nel ghiaccio duro richiede uno sforzo incredibile. Il mio sguardo scivola oltre le mie gambe in due chilometri di spazio vuoto. Cerco di salire le parti più ripide senza esitazione, fermandomi solo quando le braccia iniziano a pulsare. Infine, nel pomeriggio, abbastanza stanchi, superiamo l’orlo della parete di ghiaccio fino ai digradanti nevai superiori. Il percorso sopra sembra essere molto più semplice.
14 luglio, ore 3.00, 7500 metri. Veniamo svegliati bruscamente da qualcosa di pesante che scuote la nostra tenda. Valanga! Immediatamente ci stringiamo nella paura che potremmo essere portati via. Per fortuna la nostra casetta resiste, ma non riusciamo più a dormire.
La neve cade ininterrottamente.
Sopra di noi ci sono enormi nevai con pendii ideali per il distacco di valanghe. Ora tutto ciò che è possibile per noi è pregare Dio che ci protegga. A turno strisciamo nell’oscurità e liberiamo la tenda con una pala e le mani guantate. Con Vitek fuori, analizzo la nostra situazione: “Sì, abbiamo commesso un grosso errore scegliendo questo posto per bivaccara. Ma chi avrebbe potuto supporre ieri sera, quando abbiamo montato la tenda, che il tempo sarebbe peggiorato così bruscamente? E non avevamo molta scelta: da tutte le parti, per diverse centinaia di metri, ci sono solo nevai in pendenza…”.
“Valera, valanga!” L’urlo di Vitya interrompe le mie riflessioni.
“Pronti!” Questo è tutto ciò che posso gestire.
Piegandomi sulle ginocchia, sostengo il tetto con la schiena. Una massa spietata preme contro di me. Ancora pochi secondi e sarei stato schiacciato.
“Vitek, sei vivo?” urlo a disagio.
Una voce soffocata mi raggiunge: “Sì, vivo!”
La notte sembra infinita. Le slavine cadono ogni 15-20 minuti. Aspettiamo con impazienza l’alba e conserviamo la speranza di sfuggire al circolo infernale in cui ci ha spinto questo tempo orribile.

Al mattino le nevicate si attenuano, ma è fuori questione salire o scendere. Troviamo un crepaccio terminale, scaviamo e speriamo in un tempo migliore. Il giorno successivo, 15 luglio, il cielo è azzurro ma gli enormi pendii del Broad Peak sono carichi di neve fresca. Siamo solo 300 metri sotto il colle, ma è troppo pericoloso salire i 45 gradi sopra di noi. Decidiamo che l’unica via possibile è quella di traversare molto a destra per raggiungere la via classica sulla cresta ovest. Se non fosse per il pericolo di valanghe non prenderemmo nemmeno in considerazione di farlo, ma non abbiamo scelta. Sfondando nella neve che a volte è sopra alla nostra cintola, iniziamo la traversata. Siamo fortunati: evitando un paio di valanghe lungo il percorso, riusciamo finalmente a raggiungere il Campo 3 della via normale a 7100 metri. Passiamo la notte qui da soli.
Dopo tutto questo, mi sembra che siamo così indeboliti e malmessi che rimane solo una strada: scendere al campo base. Siamo già su questa imponente montagna da oltre una settimana, la maggior parte sopra i 7000 metri. Ma ci convinciamo a restare ancora un giorno e a riposare. Mezzi addormentati nella tenda riscaldata dal sole, possiamo rilassarci e ricominciare a pensare alla vetta.
17 luglio. Il tempo è buono e altri alpinisti si sono uniti a noi al Campo 3, inclusi tre membri della nostra spedizione, quindi abbiamo unito gli sforzi nella neve alta per raggiungere il colle a 7800 metri. Da lì, come in un film al rallentatore, Vitya ed io avanziamo lungo il lato della vetta principale. Più saliamo in alto, più maestoso è il panorama che ci circonda. Il sole al tramonto bagna tutte le montagne di una luce magica, addolcendone i contorni come velluto.
Mi ricordo delle fotografie e delle parole che raccontano la prima salita del Broad Peak di Hermann Buhl e Kurt Diemberger nel 1957. Anche loro sono arrivati in vetta verso la fine della giornata, sotto i raggi del sole al tramonto. Diemberger ha espresso ciò che ha vissuto nel suo diario: “Quella era la perfezione stessa. Tremolando in una leggera foschia, il sole scendeva all’orizzonte. Sotto di noi era notte. Nell’oscurità era immerso il mondo delle persone. Solo qui, e solo per noi, c’era la luce…”. La mia coscienza, offuscata dall’altitudine, srotola l’intera storia innumerevoli volte. Ad un certo punto mi sembra addirittura che la figura invisibile di Buhl ci accompagni negli ultimi metri fino alla vetta.
Il sole sta quasi sfiorando l’orizzonte quando Vitya ed io raggiungiamo la cima. Abbiamo solo pochi minuti per goderne il calore e imprimere nella nostra memoria questa sensazione magica. Sappiamo che presto arriverà la notte, e abbiamo davanti a noi la discesa, piena di pericoli.
Adesso si avvicina già la fine di luglio. Abbiamo spostato il nostro campo base sotto altri due giganti di 8000: Gasherbrum I (Hidden Peak, 8068 m) e Gasherbrum II 8035 m. Il nostro prossimo obiettivo è una nuova via lungo la parete sud-occidentale dell’Hidden Peak. Il 28 luglio 2008 iniziamo la salita del lungo ghiacciaio verso la base della parete. Si potrebbe dire che questa è solo una passeggiata facile, tranne per il fatto che il ghiacciaio è rotto da giganteschi crepacci e, se non fosse stato per le bacchette di bambù posizionate dalle precedenti spedizioni, Vitya e io avremmo dovuto lavorare molto di più per trovare un passaggio sicuro. A mezzogiorno il sole è cocente. È incredibile che ci troviamo in un caldo così torrido sopra i 5000 metri.
Dopo un’ora decidiamo di allacciarci con la corda perché il ghiacciaio si sta rompendo molto. Su questo ghiacciaio un mese prima il noto alpinista francese Jean-Noël Urban cadde in un crepaccio e morì. Una morte così assurda, su un terreno pianeggiante.
Sprofondo nei miei pensieri. Vita. Morte. Stelle viventi, stelle morte. Oggi salti sul destriero del tuo successo, e domani quel successo ti mette gli zoccoli addosso. Ci sembra sempre di essere fortunati, e che gli Spiriti della montagna ci custodiscano. Ma ad un certo momento fai un passo falso, il mondo si capovolge e tu sei tra questi Spiriti. Questo è successo a molti dei miei amici: non sono tornati, sono rimasti per sempre sulle montagne. Stelle viventi, stelle morte…
29 luglio, 5800 metri. È quasi l’alba e non abbiamo ancora iniziato la parete. Per avvicinarsi alla parete sud-occidentale dell’Hidden Peak bisogna entrare in una conca stretta e molto pericolosa racchiusa da enormi pendii e ghiacciai strapiombanti. Se qualcosa cade dall’alto, quella sarà la fine, ma non abbiamo scelta: questo è l’unico approccio possibile. In questi luoghi bisogna disconnettere completamente il cervello e semplicemente indossare scarpe da corsa.
Dopo un’altra ora – uuff! – abbiamo superato il peggio del ghiacciaio, abbiamo attraversato la crepaccia terminale a 5800 metri e abbiamo iniziato a salire. In contrasto con la nuova linea sul Broad Peak, dove c’era molta arrampicata su roccia e misto, qui predomina l’arrampicata su ghiaccio. Tuttavia, la nostra attrezzatura è quasi la stessa: alcuni chiodi da ghiaccio, diversi chiodi e camme, una tenda leggera, un saccopiuma per due, un fornello e quattro bombole di gas. Ne abbiamo a disposizione per sei giorni. Come al solito, la prima persona sale con lo zaino più leggero.
Qualche ora dopo le 11 il sole illumina la nostra parete e il pendio, che dal basso sembrava tranquillo e sicuro, è rastrellato dai sassi che il primo calore libera dalla morsa della neve e del ghiaccio. Un ciottolo delle dimensioni di un pugno sfreccia oltre mezzo metro alla mia sinistra. Senza verbalizzarlo, siamo d’accordo sul fatto che mentre uno di noi sta salendo l’altro starà attento e griderà un avvertimento se qualcosa è in volo. Servono ancora almeno quattro ore di lavoro per sfuggire alla zona dei bombardamenti.
Continuo a stupirmi di quanto sia caldo nel Karakorum rispetto all’Himalaya nepalese. Siamo già più alti di 6000 metri e l’acqua scorre lungo il muro. È divertente, ma siamo difficili da accontentare: se fa caldo va male e se fa freddo va anche male.
31 luglio, 7200 metri. Saliamo sul colle sotto un caldo sole. Nonostante la sua testa malconcia, Vitek si è fatto strada verso l’alto attraverso la neve alta come se nulla fosse successo. Eppure non posso dimenticare gli eventi della notte precedente: le rocce che entravano nella tenda e il viso insanguinato di Vitya.
“Vitya, come va la tua testa?”
«Sai, Valer, non male. A volte fa un po’ male, quando comincio ad accelerare. Ma posso conviverci”. Un sorriso è visibile sul suo volto. “Spero vivamente di riprendermi completamente per la spinta finale di domani”.
Le sue parole sono come un balsamo. “Sì, andrà tutto bene”, rispondo, e ci credo davvero. Come potrebbe essere diverso?
Per il resto della giornata ci rilassiamo in tenda, godendoci il tepore, la luce e il pensiero che forse dopotutto potremmo andare in vetta. Nella tenda immobile, sprofondo lentamente nei miei pensieri: se riusciremo a finire una nuova via, avremo realizzato qualcosa di simile a quello che fecero i polacchi Voytek Kurtyka e Jerzy Kukuczka nel 1983, quando salirono un paio di nuove vie nel Karakorum in una stagione estiva. Una sull’Hidden Peak e l’altra sul Gasherbrum II. Sono già passati 25 anni dalle loro ascensioni, ma nessuno ha fatto nulla di simile su queste montagne. Allora, dove sono i progressi nell’alpinismo mondiale? O questa coppia, con il loro pensiero creativo, ha superato il loro tempo di molti anni?
1 agosto, 8068 metri. Dopo alcuni minuti in vetta, mi volto per affrontare il pendio e scendo, controllando attentamente ogni passo. Sono circa le 16.00 e il tempo è meraviglioso. Mi rendo conto di non provare alcuna emozione per ciò che avevamo realizzato. Anche i miei ricordi della vetta, che sognavo da tanto tempo, stanno rapidamente svanendo. Forse sono semplicemente stanco.
Vitya è a 50 metri sopra di me. È attento quanto me, con la faccia rivolta verso il pendio, completamente concentrato sulla discesa. Siamo slegati e le nostre vite sono nelle nostre mani. Giù, giù, giù. Ora posso vedere la nostra tenda, una piccola macchia gialla, sperduta sulle vaste distese dell’Hidden Peak.
Passano altre tre interminabili ore prima di raggiungere la tenda e posso permettermi di lasciarmi cadere su una roccia vicina e rilassarmi. L’attenzione non è più necessaria ed è piacevole sedersi senza muoversi o pensare. In questi momenti sento una liberazione interiore, dalle ansie e dalle paure, dagli attaccamenti e dalle promesse, da tutto ciò che lega le persone e limita la loro libertà. Mi dissolvo semplicemente nello spazio che ci circonda. Forse la sensazione del nirvana è simile?
(Dopo essere scesi dal Gasherbrum I, i due alpinisti speravano di aprire una nuova via sul Gasherbrum II di 8035 metri, ma hanno abbandonato il tentativo a causa del maltempo e della stanchezza accumulata, NdR).

Sommario
Zona: Baltoro Muztagh, Karakorum, Pakistan
Ascensioni: prima salita in stile alpino del contrafforte centrale della parete ovest del Broad Peak 8047 m (3.000 m, ED VI WI5 M6 90°), Viktor Afanasiev e Valery Babanov, 9-18 luglio 2008; la vetta è stata raggiunta il 17 luglio 2008. Si sono uniti alla via della cresta ovest al Campo 3 7100 m dopo circa 2.000 m di dislivello. Nuova via in stile alpino sulla parete sud-ovest degli 8068 m del Gasherbrum I (2.300 m, ED VI WI4 M6 80°), Afanasiev e Babanov, 29 luglio-2 agosto 2008; vetta raggiunta il 1 agosto 2008. Dopo aver superato la parete sud-ovest, si sono uniti alla via jugoslava del 1977 (cresta sud-ovest) a 7600 m e l’hanno seguita fino in cima.
Una nota sull’autore
Valery Babanov è nato nel 1964 a Omsk, in Russia. Ha iniziato ad arrampicare all’età di 16 anni e dalla fine degli anni ’90 ha salito nuove importanti vie in Nepal, India e Alaska, spesso in solitaria. All’inizio del 2008, ha tentato il pilastro ovest del Dhaulagiri con Nikolay Totmyanin e alla fine ha raggiunto la vetta di 8167 metri attraverso la sua cresta nord-est. Guida certificata a livello internazionale, vive a Calgary, Alberta, e Chamonix, Francia.
Ma come ! niente censura occidentale?😉
A Omsk, neanche una collina.
Nato nel 1967 a Omsk( URSS)………..vive a Calgary, Alberta, e Chamonix, Francia…..chissa’ per quali ragioni.. si vede che si trova meglio.