Cosa sono i Pfas e come il Po è diventato il fiume più contaminato d’Europa. I rischi per l’ambiente e la salute, e le possibili soluzioni.
Come i Pfas hanno contaminato l’Italia – 1
di Laura Fazzini
(pubblicato su lifegate.it il 2 maggio 2023)
“Bottiglie, etichette, imbuti. E prendiamo un cordino per evitare di tuffarci nel fiume!”, Sara Valsecchi e Stefano Polesello sorridono. Sono le ore 7 di un mattino estivo e nel parcheggio dell’Istituto sulle Acque del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) di Brugherio i ricercatori caricano due auto per una nuova missione. Destinazione: Piemonte. Una Panda bianca parte alla volta del fiume Po per raccogliere le acque che arrivano nel mar Adriatico, mentre in una Renault Kangoo verde, Valsecchi e Polesello si dirigono verso i fiumi Bormida e Tanaro che nel Po confluiscono.
Infatti il Cnr percorre in lungo e in largo l’Italia dal 2008 per cercare delle sostanze specifiche, presenti in oggetti e indumenti di vita quotidiana ma sconosciute fino agli inizi degli anni Duemila: i composti poli e perfluoroalchilici, i Pfas.
Cosa sono i Pfas
I Pfas sono composti chimici nati negli anni Quaranta negli Stati Uniti. Sono catene di atomi di carbonio, parzialmente o totalmente sostituiti con atomi di fluoro che rendono indistruttibili superfici come le padelle antiaderenti, le pelli e i materiali antifiamma per i vigili del fuoco. Sono oltre cinquemila; incolori, inodori e insapori, non vengono mai degradati dall’ambiente e si accumulano negli organismi. Per questo sono conosciuti come forever chemicals, inquinanti eterni. In Europa e negli Stati Uniti i composti a 8 atomi di carbonio, Pfos e Pfoa, sono dichiarati pericolosi e banditi dalla produzione a partire dallo scorso decennio. In Italia, però, mancano tutt’ora limiti nazionali agli scarichi industriali.
Stefano Polesello ripercorre i primi anni di lavoro, l’assenza di confronti con colleghi esperti e la responsabilità di confermare la più grande contaminazione da Pfas in Europa.
Tra il 2002 e il 2007 lo studio europeo Perforce ha monitorato le acque dei maggiori fiumi europei per individuare il principale inquinamento. L’obiettivo di Perforce è spingere le industrie a ridurre le immissioni nell’ambiente e gli Stati a monitorare la popolazione esposta. Lo studio mette in evidenza come il Pfoa (l’acido perfluoroottanoico capostipite dell’intera famiglia Pfas) sia la sostanza prevalente nelle acque fluviali e di come il Po sia il fiume più contaminato (200 nanogrammi per litro, quando negli altri fiumi europei è intorno ai 20 nanogrammi).
La contaminazione Pfas in Italia
Pfas in Piemonte: il Po è contaminato dal polo industriale Solvay
Il polo industriale di Solvay a Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria, occupa 130 ettari.
“Le analisi sulla produzione e l’uso del Pfoa ci fanno ritenere che l’impianto Solvay Solexis sia la fonte più probabile della contaminazione del Po. Vi esorto a indagare”. Era marzo 2007 e lo scriveva il firmatario dello studio Perforce, Michael McLachlan. Destinataria della mail è la multinazionale belga Solvay, che dal 2002 utilizza il Pfoa nei vecchi stabilimenti Montedison, e che ha risposto difendendo la scelta industriale.
“Non ricevendo altre risposte, ho contattato il ministero dell’Ambiente italiano”, ci racconta McLachlan. Qualche mese dopo il Cnr riceve mandato di cercare le sorgenti di questa famiglia di sostanze nei principali bacini idrici italiani, in particolare lungo l’intero fiume Po, lungo 652 chilometri.
“Sara ha sistemato la metodica di analisi in tempi record e ci siamo lanciati in quest’avventura, per nulla consapevoli di cosa avrebbe comportato”, continua nel racconto Polesello.
“Le prime volte non sapevamo neanche dove raccogliere le acque né a chi chiedere, non era chiaro dove fosse lo scarico di Solvay nel fiume”. Poi qualcuno compare: Elio Sesia, responsabile della struttura Qualità acque superficiali e sotterranee di Arpa Piemonte. “Lo studio di Perforce ci aveva allarmati, dovevamo monitorare quelle sostanze sconosciute. Tra il 2009 e il 2012 ho fatto inserire il Pfoa nella pianificazione per i corpi idrici di superficie e ho conosciuto i ricercatori del Cnr. I dati sono usciti già a fine 2009: oltre i 3.000 nanogrammi per litro”.
Tre anni dopo, nel 2012, Arpa arriva a individuare un picco di 120mila nanogrammi di Pfoa nelle acque di scarico di Solvay che vengono convogliate nel fiume Bormida, affluente del Po.
“Senza limiti di legge lo scarico Solvay può permettersi questi rilasci di Pfoa. In quegli anni non se ne sapeva nulla e l’attenzione delle istituzioni era rivolta all’inquinamento del cromo esavalente”, spiega Sesia. Per queste sostanze, dal 1967 prodotte anche in Italia dalla Montecatini, mancano tutt’ora limiti nazionali agli scarichi industriali.
Pfas in Veneto: tre intere province sono contaminate
“Tra i pochi documenti che avevamo su queste sostanze, uno ci ha portato in Veneto, dove poi abbiamo scoperto l’emergenza”, dice Polesello. Nel 2006 l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) aveva pubblicato una lista di industrie produttrici di sostanze chimiche in Europa. La sola che produceva Pfoa era Miteni a Trissino, in provincia di Vicenza, controllata all’epoca dalla società giapponese Mitsubishi.
Miteni nasce negli anni Sessanta come Rimar ed è il fiore all’occhiello della famiglia Marzotto per la creazione di sostanze chimiche da usare nei tessuti. Lo stabilimento viene costruito sopra la ricarica di una falda acquifera, perché la chimica ha bisogno di acqua per la lavorazione e il raffreddamento degli impianti, ed è più conveniente sfruttare approvvigionamenti naturali.
Oltre alla falda, Miteni utilizza il torrente Poscola per scaricare le acque di raffreddamento, trattate come pulite. Mancando leggi ambientali e informazioni sanitarie nessuno si preoccupa di cercare le sostanze chimiche, e i Pfas, come molti altri prodotti di sintesi della Rimar, invadono acque, terreni e aria di tre province: Padova, Vicenza e Verona, per 593 chilometri quadrati (oltre tre volte la città di Milano).
Quando nel 2011 i ricercatori del Cnr analizzano le acque del Fratta Gorzone, fiume che raccoglie le acque del Poscola, rimangono increduli: “Abbiamo ripetuto le analisi perché non credevamo a numeri così alti”, commenta Valsecchi. 2.000 nanogrammi per litro, contro una media di 30 nanogrammi per litro negli altri fiumi. I ricercatori si mettono a cercare queste sostanze in tutti i corpi idrici accessibili del territorio: nei fiumi, e negli acquedotti dei Comuni che attingono dalla falda.
Come è avvenuta la contaminazione da Pfas
Negli anni Sessanta in Veneto viene costruita una potenziale bomba chimica su un punto nevralgico per la rete idrica di un vasto territorio. Miteni sversa nel torrente Poscola che, oltre a proseguire verso il mar Adriatico, scambia le sue acque con la falda da cui tre province traggono l’acqua potabile.
“Miteni si situa nella zona di ricarica della falda della Val d’Agno, nel punto in cui l’acquifero alluvionale è ghiaioso-sabbioso. L’assenza di strati impermeabili in grado di proteggere la falda rende la zona a vulnerabilità elevata. Lo spandimento di Pfas si muove verso il mare”, spiega Dario Zampieri del dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova.
È una bomba chimica devastante, sottolinea Michael Neumann dell’Agenzia dell’Ambiente tedesca (Uba): “I Pfas sono sostanze molto mobili e rischiose, perché sono in grado di diffondersi ovunque”. La Germania ha una forte contaminazione da Pfas dovuta all’utilizzo di fanghi industriali nell’agricoltura e grazie allo studio Perforce nel 2007 vengono immediatamente posti limiti alle acque potabili e di scarico industriale, 100 nanogrammi per litro e se ne studia l’impatto. “Anche se una sostanza mobile non è altamente tossica, deve essere considerata fonte di preoccupazione per gli effetti di un’esposizione continua e per lunghi periodi”. In Italia i limiti sono posti solo nel 2013, solo per il Veneto e sono cinque volte superiori (500 nanogrammi per litro, ora ridotti a 330).
In Italia la contaminazione più estesa d’Europa
“Nel 2012 in una trattoria veronese ho raccolto l’acqua della caraffa per analizzarla”, ricomincia Sara Valsecchi, i ricordi si intrecciano tra Piemonte e Veneto, perché tra il 2008 e il 2013 il Cnr raccoglie mensilmente campioni nelle due sedi produttive. “Il Pfoa c’è in piccole tracce anche nel rubinetto del nostro laboratorio a Brugherio (Monza), ma quella caraffa presentava migliaia di nanogrammi di Pfas, troppo!”. Nasce così la necessità di monitorare acque prelevate da punti di erogazione pubblici.
“Le fontanelle dei cimiteri sono dei punti di prelievo ideali, perché allacciate all’acquedotto e sono ad accesso libero, ma sono mappate”, precisa Polesello. Le analisi del cimitero di Montecchio, a Vicenza, confermano l’inquinamento della rete; l’emergenza ambientale diventa allarme sanitario.
“Abbiamo comunicato i dati al ministero dell’Ambiente e aumentato i campionamenti”. La ricerca diventa maniacale. Perché il Pfoa è nell’acqua utilizzata da oltre 350mila persone? Valsecchi sottolinea l’imprevedibile: “La falda era contaminata e serviva i pozzi destinati alle case. Arpa non aveva mai campionato Pfas e pensava di aver scongiurato la contaminazione idrica alla fine degli anni Settanta”. Nel 1977 era stato infatti scoperto a Vicenza un inquinamento di Benzotrifluoruri (Btf), prodotti sempre dalla Rimar. I Comuni colpiti cambiarono la sorgente di acque per gli acquedotti che servivano le abitazioni verso Vicenza. Nelle altre direzioni, verso l’occidente veronese, i Btf non vennero trovati e quindi non si sostituì nulla.
Il risultato di cinque anni di lavoro, basato soprattutto sulla volontà personale e su un metodo di analisi in seguito adottato dalle Arpa, viene presentato a ottobre 2013. Si conferma la contaminazione più estesa di Europa, sia per quantità di Pfas sia perché contamina tutti i ricettori: falda, fiumi e acquedotto. La Regione Veneto chiede aiuto al ministero dell’Ambiente e al ministero della Sanità.
I Pfas e la salute
L’allarme sanitario in Veneto: il sangue dei cittadini è contaminato da Pfas
Nelle province venete per poter continuare a utilizzare i pozzi vengono posti filtri a carboni attivi (comprati dalla società Chemviron, con sede a Legnago nel Veronese) a maggio 2013, dopo la consegna ufficiale dello studio del Cnr al ministero dell’Ambiente e quindi alla Regione Veneto.
A gennaio 2014 Luca Lucentini, del dipartimento Ambiente e Sanità dell’Istituto superiore di sanità (Iss), conferma come quei filtri siano la prima risposta all’emergenza, inviando un parere alla Regione Veneto in cui si indicano i limiti di performance per i Pfas nell’acqua di rubinetto: “Abbiamo prontamente eseguito una analisi di rischio sanitario sulla base delle informazioni scientifiche aggiornate al migliore stato delle conoscenze. E abbiamo raccomandato come indispensabile e urgente l’adozione di tecnologie di rimozione dei contaminanti nella filiera idro-potabile, insieme all’identificazione e controllo delle sorgenti di contaminazione e al cambiamento delle fonti di approvvigionamento – soluzione questa configurabile nel medio periodo”.
Nel corso del 2013 i comunicati ufficiali alla popolazione sono tranquillizzanti, i sindaci dei Comuni si spendono perché l’acqua del rubinetto venga utilizzata senza timore.
La Regione Veneto divide la zona contaminata per colori (rossa A e B, arancione e gialla) e nel 2015 vengono raccolti i primi campioni di sangue su parte della popolazione, soprattutto sugli agricoltori e allevatori che esportano i prodotti. A inizio 2016 Iss invia i risultati alla Regione Veneto: il Pfoa arriva a 750 nanogrammi per litro nel sangue degli agricoltori e tutte le persone hanno valori che superano la quantità media di 8 nanogrammi per litro.
Se in Germania il ministero dell’Ambiente aveva audito nel 2007 le produttrici di Pfas (viene intervistata anche Miteni) per definire valori soglia ed eventuali rischi sanitari, in Italia questo primo campionamento si traduce in una delibera della Regione Veneto a fine 2016 per uno screening sanitario dei residenti in zona rossa, 23 comuni dove l’acqua è contaminata sia in falda sia in acquedotto. Pochi mesi prima l’Agenzia Internazionale per la ricerca sul cancro indica il Pfoa come possibile cancerogeno.
Dagli anni Settanta la famiglia Marzotto e le altre produttrici, come Dupont e 3M, analizzano il sangue degli operai per capire i rischi sanitari del Pfoa e Pfos. Nel 2000 otto aziende mondiali si riuniscono negli Stati Uniti e coordinano un piano annuale di analisi, per l’Italia è coinvolto il medico di Miteni Giovanni Costa e dal 2002 Giuseppe Malinverno per Solvay. Dal 2009 i Pfas sono correlabili a patologie come pressione alta, colesterolo, disfunzioni tiroidee e preeclampsia.
Come viene affrontata l’emergenza sanitaria
Francesco Bertola è un ematologo, presidente della sede di Vicenza di Isde Medici per l’ambiente: “Le analisi che i cittadini della zona rossa sono chiamati a fare sono indispensabili per certificare la presenza dei Pfas nel sangue, e attuare una sorveglianza sanitaria sulla popolazione, ma una vera e propria campagna preventiva richiederebbe di più”.
Isde fin dal 2013 parla apertamente alla popolazione del rischio d’esposizione: “I Pfas interferiscono con l’azione degli ormoni e danneggiano il sistema endocrino. Quando nel 2017 la Regione Veneto ha iniziato a campionare la fascia adulta, mi sono chiesto perché non iniziare con chi ha un problema ormonale o le donne incinte? In questi ultimi anni diversi studi scientifici, statunitensi ma anche veneti, hanno confermato la correlazione tra Pfas e pressione alta, colesterolo e preeclampsia. Ma non ci sono comunicazioni dirette alle vittime di queste patologie”, insiste Bertola, che porta avanti uno studio indipendente destinato ai giovani maschi per prevenire tumori ai testicoli, grazie agli attivisti come le Mamme No Pfas, nate nel 2017 e diventate protagoniste della lotta ai Pfas.
“La gravità di questa emergenza sanitaria è anche legata all’accesso alle analisi del sangue. La Regione Veneto le limita ai residenti della zona rossa nati in determinati anni. A chi abita in zona arancione, ad esempio, se ne sta ancora discutendo. E non li si può fare da nessun’altra parte in Italia”, sottolinea Bertola. In Italia ancora scarseggiano strumenti e metodologie per trovare i Pfas nel sangue. A dicembre 2021 il Policlinico di Milano valida il metodo per misurare nel siero trenta diversi Pfas (su cinquemila), fra cui il perfluorurato cC6O4 di Solvay. Solvay che, nel 2021, vieta l’acquisto dello standard analitico necessario per eseguire i monitoraggi, ad eccezione degli enti pubblici di ricerca controllo ambientale: il Policlinico è quindi il solo ora a poterlo cercare nel sangue, in tutto il mondo.
Silvia Fustinoni è responsabile dell’unità di Tossicologia ambientale e industriale presso la Fondazione Irccs Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico: “I Pfas sono classificati come sostanze chimiche pericolose, sono ubiquitari nell’ambiente e, molti di essi, sono biopersistenti”.
Dal 2014 Solvay ha scelto il Policlinico come clinica del lavoro; nel dipartimento interessato opera Giovanni Costa, il medico interno di Miteni che dagli anni Settanta studia i perfluorurati. Due studi sulla presenza di alcuni Pfas prodotti da Solvay nel sangue dei lavoratori Solvay in Italia sono stati recentemente pubblicati, a firma della dottoressa Silvia Fustinoni e del dottor Dario Consonni, attuale epidemiologo di Solvay.
“Il cC6O4 ormai qui è ovunque, lo troviamo nelle uova degli uccelli selvatici che abitano sul Bormida, ma anche nei terreni agricoli vicino allo stabilimento di Solvay”, spiega Valsecchi mentre etichetta le provette di acqua raccolta dallo scarico. “Ho deciso di cercarlo nei campioni che avevo prelevato nel 2011 in Veneto, e l’ho trovato”, continua insistendo sugli anni.
Il cC6O4 è il sostituto del vietato Pfoa
Nel 2011, presso il Registro europeo per le sostanze chimiche (Echa), Solvay iscrive un nuovo perfluorurato, il cC6O4 appunto, insieme alla Miteni. Le due aziende devono sostituire il Pfoa, dichiarato pericoloso nel 2006 dalla comunità scientifica statunitense, e dopo due anni di prove registrano il sostituto, che è considerato meno pericoloso per il corpo umano. La prima fase di produzione comincia però già nel 2009 in Solvay a Spinetta Marengo, spedendo la resina ottenuta in Veneto alla Miteni per la fase finale. Ciò in violazione della Direttiva Seveso, l’attuazione della norma europea per prevenire e controllare i rischi di incidenti rilevanti connessi a sostanze classificate pericolose, e che quindi obbliga le industrie che producono sostanze pericolose a denunciarne la lavorazione alle istituzioni.
All’epoca né Solvay né Miteni domandano di includere la produzione del cC6O4 nelle Autorizzazioni Integrali Ambientali. Di questa sostanza si inizia a parlare ufficialmente solo nel 2018, quando Miteni ne fa autodenuncia a seguito delle indagini aperte dal Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri di Treviso (Noe).
Nell’audizione alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle ecomafie, il 28 gennaio 2020, il direttore dello stabilimento Andrea Diotto dice invece che Solvay produce il cC6O4 dal 2013. Nell’audizione di aprile 2021, Claudio Coffano, tecnico della provincia di Alessandria e responsabile delle autorizzazioni ambientali per le industrie, indica invece il 2017. Avviato nel 2009, brevettato nel 2011, il cC6O4 è stato quindi prodotto senza autorizzazione fino al 2020: un decennio in cui Solvay arriva a produrne 40 tonnellate l’anno.
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#3
Mi leggerò con calma il position paper dell’ISDE, scaricabile al link proposto da Mazzi. Invito anche voi a farlo. Mi sembra molto interessante. Grazie.
MS
Ah ! la belle vie de l’homme des cavernes !
Gli PFAS sono Interferenti Endocrini e come teli interagiscono a dosi infinitesimali. Gli interferenti endocrini (EDC) sono sostanze in grado di alterare il sistema endocrino, influenzando negativamente diverse funzioni vitali quali lo sviluppo, la crescita, la riproduzione e il comportamento sia nell’uomo che nelle specie animali (http://www.minambiente.it/pagina/gli-interferenti-endocrini).
Le applicazioni commerciali più note, sono probabilmente il rivestimento antiaderente per il pentolame da cucina (Teflon®) e la produzione di indumenti impermeabilizzati (per esempio, Gore-Tex®).
Come medico dell’ISDE sono anni che ripeto che alcune sostanze non possono avere limiti di legge poichè la loro stessa presenza è causa di numerose patologie (https://www.isde.it/wp-content/uploads/2019/05/2019.04.09-Position-Paper-PFAS.pdf ).
Non è più la dose che fa il veleno, ma è l’informazione contenuta nella molecola che fa il veleno.
Le principali vie d’esposizione alle PFAS sono l’ingestione di acqua potabile contaminata, i cibi contaminati e la polvere di casa.
ISDE ritiene che debba essere resa obbligatoria per legge la dichiarazione in etichetta della presenza degli interferenti endocrini nei prodotti di uso comune soprattutto di quelli di origine alimentare. È inoltre indispensabile proibire l’utilizzo di acqua destinata a uso umano contenente PFAS alle donne gravide, ai bambini, negli asili nido, nelle scuole pubbliche di ogni ordine e grado e nei luoghi pubblici, accelerando altresì la messa in opera dei nuovi acquedotti, la sola misura in grado di mettere veramente in sicurezza la salute dei cittadini.
Come evitare gli interferenti endocrini (EDC):
1. Cerca di capire e conoscere gli EDC a cui tu o la tua famiglia potreste essere esposti
2. Evita se puoi l’esposizione a prodotti di consumo che contengono EDC
3. Non acquistare e non cuocere alimenti avvolti in plastica,
4. Scegli per la cura personale e per la pulizia prodotti non profumati
5. Sostituisci le pentole antiaderenti con pentole in acciaio o rivestite in ceramica.
Queste precauzioni sono particolarmente importanti in caso di gravidanza.
Mi sembra incredibile che si continui a dar la colpa a fantomatici virus se persino l’acqua è divenuta da tempo fonte di inquinamento.
Saluti.
Il recente DLGS 23 febbraio 2023 n° 18, recepimento della Direttiva Acque Europea 2020/2184 introduce nella Parte B (=Tabella B) relativa alle massime concentrazioni ammesse perchè un’acqua sia potabile due nuovi parametri:
* PFAS totale a 0,5 microgrammi/litro (ovvero 500 nanogrammi/litro)
* Somma di PFAS a 0,1 microgrammi/litro (ovvero 100 nanogrammi/litro).
Il precedente DLGS 2 febbraio 2001 n° 31 non prevedeva gli PFAS tra gli inquinanti che comportavano la revoca della potabilità.
Questi parametri si applicano alle acque potabili, quelle – per intenderci – distribuite dagli acquedotti e non alle massime concentrazioni ammissibili negli scarichi industriali, per i quali il riferimento se non erro è il DLGS 3 aprile 2006 n° 152. Vedere anche:
https://www.arpa.veneto.it/++api++/temi-ambientali/acque-interne/sostanze-perfluoro-alchiliche-pfas
Saluti.
MS