Si è svolto nell’Abbazia di Maguzzano, nel Comune di Lonato (BS), il Convegno Nazionale 2024 del Club Alpino Accademico Italiano.
Il tema era: “La conservazione del patrimonio alpinistico nel rispetto dell’avventura e dell’esperienza vissuta”.
Questo è il breve resoconto non puntale del convegno, da parte del moderatore Claudio Inselvini (che si autodefinisce “provato”).
Conservazione o valorizzazione?
(alcune idee emerse al Convegno di Maguzzano)
di Claudio Inselvini
(pubblicato su clubalpinoaccademico.it il 6 dicembre 2024)
Foto: Alberto Rampini
Inizio con una frase di Gian Fausto Bona: “Sono venuto come giornalista (BresciaOggi) e mi sono ritrovato appassionato partecipante”.
Dopo i saluti di Luca Grotti, presidente del CAI ospitante (CAI Sezione di Desenzano), prima del convegno vero e proprio il Presidente Generale Mauro Penasa ha fatto il punto sulle numerose iniziative che il CAAI sta perseguendo dopodichè si è proceduto alla nomina per acclamazione dei soci onorari: Gianni Battimelli, Giuseppe Miotti ed Andrea Zannini.
Si è inteso impostare il convegno partendo da qualche riflessione, seguita da una serie di temi cardine che i relatori sono stati chiamati a sviluppare in quanto fortemente qualificati per l’ambito di loro pertinenza.
I temi affrontati sono stati preceduti da una serie di considerazioni quali:
Cos’è il patrimonio?
È l’insieme di esperienze e testimonianze, ed anche un bene che viene dal passato e deve essere mantenuto e manutenuto. Nella sua accezione figurativa il patrimonio è quanto rappresenta un ambito specifico di disponibilità associato all’economia o alla cultura o ad esperienze presenti e passate di una collettività ovvero è il complesso di elementi materiali o astratti posseduti da una comunità. Questo implica che il patrimonio appartiene a tutta la comunità.
Noi quindi, da un punto di vista dell’alpinismo, definiamo patrimonio “La disponibilità di linee scalabili già tracciate, ovvero di luoghi e situazioni in cui si può vivere l’esperienza della scalata seguendo tracciati già noti, ma anche l’esistenza di un mondo alpinistico ancora da esplorare che sarà patrimonio delle future generazioni”.

Una volta definito cosa vuol dire patrimonio alpinistico, viene naturale porsi domande come: chi è il proprietario del patrimonio alpinistico? si può assumere che il ‘proprietario’ di un singolo itinerario sia il primo salitore, ma dopo la sua morte? Richiodare ma anche schiodare, in buona sostanza modificare ciò che in origine era stato ‘costruito’ in un itinerario è sempre scorretto oppure la rivisitazione in chiave attuale, specie se di itinerari abbandonati, può essere una valorizzazione? Le attrezzature obsolete presenti in parete vanno sostituite? se sì, con quale criterio?
Ma anche moltissime altre domande, quali: cosa vorranno vivere le generazioni future in termini di avventura o sicurezza?
In realtà, come viene fatto notare nell’introduzione, il tema è un piccolo avamposto alpinistico di un tema molto più grande che riguarda il modo in cui vogliamo vivere, ossia la scelta fra il privilegiare (o credere di privilegiare) la sicurezza rispetto al privilegiare l’avventura o anche l’esperienza personale e non ‘protetta’ che ognuno può fare della vita.
I relatori hanno cercato di sviluppare, per quanto possibile fare in un ristretto slot di tempo, i temi a loro assegnati. Vediamoli.
Il primo intervento è stato dedicato all’etica ferrea. Uno degli esempi più noti è senz’altro la Val di Mello. Matteo De Zaiacomo, Presidente dei Ragni di Lecco, ha fatto un excursus sulla Valle, e sulla attività che lui stesso ha svolto sulle tracce di personaggi storici quali Tarcisio Fazzini, facendo una considerazione che merita attenzione, ovvero quella legata all’attrezzatura obsoleta ed affaticata presente su alcune salite (ad esempio spit da 8 mm). Risulta chiaro, dice Matteo, che i miei predecessori si sono trovati a ripetere vie con uno stato dell’attrezzatura in parete decisamente migliore rispetto a quella presente ora. Va da sé che questa considerazione già pone una grande domanda: l’esperienza vissuta da coloro che potevano scalare con attrezzatura fresca (spit appena piantati o chiodi nuovi) quanto è diversa da quella di coloro che si debbono affidare a protezioni debilitate dal tempo? Sempre Matteo ha fatto alcune considerazioni sull’incidente accaduto ai tre ‘finanzieri’ precipitati nella primavera nel 2024. Da signore quale è, è stato delicato e privo di giudizio. Apprezzabile atteggiamento.
Sempre in ambito etica ferrea, Matteo Rivadossi ha parlato del Manifesto della Val Salarno. E’ questa una valle granitica di pregio, incastonata nelle valli dell’Adamello; il ‘Manifesto’ è un documento redatto dagli scalatori storici della valle, fra cui ricordiamo i fratelli Marco e Paolo Preti, di certo fra i protagonisti del ‘Nuovo Mattino’ ed il mai eguagliato Mario Roversi, autore di uno dei primi 8a italiani, che i nostalgici ancora citano come maestro di eleganza. In questo manifesto appunto si auspica un uso ridotto (forse anche ridotto a zero) del trapano, ma soprattutto si richiama al rispetto di quelle regole che hanno sempre ‘governato’ le aperture in Valle. Nel suo colorito intervento Rivadossi ha anche illustrato quello che vorrà essere il metodo di ‘richiodatura’ delle vie storiche tramite l’estrazione dei vecchi spit e la sostituzione dei medesimi con altri spit nuovi.
Heinz Grill ed Ivo Rabanser sono invece coloro che hanno portato il parere di chi le vie le vuole valorizzare rendendole più fruibili, facendole riscoprire tramite proprio un aggiornamento dell’attrezzatura delle stesse. Ivo, che nasce incendiario per morire pompiere, come spesso accade alle persone di intelligenza vivida, è dell’idea che la morte delle guide CAI Touring e la pubblicazione ormai totale di sole guide di arrampicate scelte porti a dimenticare molti itinerari, che invece se ‘rinnovati’, sempre con parsimonia, (che Ivo è pur sempre lui), possa portare ad una migliore e più distribuita frequentazione delle pareti.
Ivo non è potuto intervenire di persona al convegno ed ha raccontato il suo punto di vista tramite un videomessaggio.
Heinz Grill, più che dire perché, ha detto cosa. Ha raccontato di alcune linee ‘rinnovate’ delle Alpi, fra cui la parte alta della Micheluzzi al Piz Ciavazes, ed una via al Castello delle Nevere. Il suo stile è sempre rispettoso dell’etica della parete e tende a ricercare eventuali possibilità di creare varianti su roccia migliore o di maggiore interesse alpinistico. V’è da dire che la sua capacità di lettura della parete è fenomenale, e spesso le linee ‘toccate’ dalla sua mano ne traggono grande vantaggio. Grill ha anche sottolineato l’importanza di confrontarsi, prima di intervenire, con il primo salitore. Sempre coloriti i suoi interventi, dove la relativa padronanza della lingua lo fa sempre sembrare una persona alla caccia di parole sfuggenti.
Beppe Villa ha invece raccontato il punto di vista delle guide alpine, dei professionisti. Certo Beppe è un professionista sul generis, una guida alpina sempre alla ricerca di itinerari poco noti per sé e per i suoi clienti, quindi il suo punto di vista è ’viziato’, in senso buono, dal suo pensiero puro ed accademico. Nella sua esposizione ha parlato del grande lavoro che sta compiendo Michel Piola, richiodando le sue vie, ma si è anche scagliato con veemenza (relativa è ovvio, Beppe è pur sempre un signore) si è scagliato dicevamo contro quella logica secondo lui aberrante di voler posizionare corde fisse su strutture come il Dente del Gigante, logica che porta in parete persone non adeguate al luogo, non adeguate come preparazione si intende…
Un lungo coffee break, gentilmente gestito ed orchestrato dalle persone del CAI Desenzano, ha riattivato animi ed idee, caso mai ve ne fosse bisogno..
Tommaso Lamantia ha parlato del delicato tema del soccorso in parete. E della prevenzione.
Del resto possiamo certamente dire che la vita è uno degli elementi che compongono il patrimonio alpinistico da salvaguardare. Specie se parliamo della vita dei soccorritori.
Come alpinista, è indubbio che Tommaso prediliga le situazioni di avventura, tuttavia, come soccorritore, vede bene anche soste a fix, laddove le linee classiche siano molto frequentate.
In una situazione fuori dai microfoni, aveva anche evidenziato che, se non son presenti soste fix, in caso si debba effettuare un soccorso, vengono magari create per necessità soste a fix, ben più fuori armonia di quelle che possono essere già presenti all’interno della via.
Ed ecco finalmente il momento dedicato alle nuove generazioni. Marco Cocito, Aspirante Accademico del Gruppo Occidentale, dopo avere un po’ raccontato di sé e del suo stile, ha chiuso il suo intervento auspicando, per il futuro, una dimensione più legata all’avventura che alla ‘sicurezza’ presunta degli spit in parete. Di Lucia Bertazzi invece vorremmo riportare una riflessione fatta a posteriori: “pensavo come la montagna sia divenuta sempre più oggetto di consumo e come questo non sia sostenibile. In una società che ci chiede di consumare, agire, competere, primeggiare, l’atto più rivoluzionario che si possa fare credo sia quello di fermarsi. Fermarsi e chiedersi più spesso perché. E chiedersi se quella cosa che voglio fare, nel nostro caso chiodare o richiodare ad esempio, sia davvero necessario, e se sì, perché farlo in quel modo e non in un altro“.
Infine, ma non ultimo lo scrittore, traduttore e letterato Luca Calvi ha deliziato la platea con un lungo (ma è parso breve) percorso fra la storia dell’alpinismo, le sue origini, le sue evoluzioni ed implicazioni sociali, il fluire degli eventi legati a nazionalismi o sovranismi che dir si voglia, ricordando che l’alpinista in una cresta non vede un confine, e in un passo vede un luogo che collega due valli, insomma ha fatto riferimento ad una montagna che è fatta per unire e non separare.
E’ seguito poi un vivace dibattito, che ha sancito il fatto che tutta l’assemblea dei presenti ha molto a cuore la conservazione del patrimonio alpinistico, ma anche che tirare delle somme e dare una linea precisa di comportamento è quanto mai difficile ed arduo.
Si ritorna quindi all’invito posto all’inizio del convegno ovvero: amici ed accademici, organizziamo momenti di confronto sempre più diffusi, sempre più profondi.
“Un adeguato e piacevole dibattito, amichevole e pregno di spunti, per il quale segnaliamo gli interventi di Alessandro Gogna e di Andrea Giorda, ha fatto poi da traghettatore per un trasferimento invero nebbioso presso un agriturismo della zona dove il CAAI ha saputo dare il meglio di sé in termini di convivialità, a conclusione di un convegno realmente interessante che ci auspichiamo vedersi tradurre in una pubblicazione con gli atti del convegno stesso, soprattutto per la continuazione della discussione tra le nuove generazioni che si sono mostrate presenti e attente, lasciando così in eredità il miglior viatico possibile per il futuro del Club Alpino Accademico Italiano (da planetmountain.com)”.
In chiusura si vuole sottolineare la presenza in sala di giovani non accademici; il convegno era infatti aperto a tutti, così come dovrebbe a nostro giudizio ogni incontro che affronti temi comuni a tutto il mondo alpinistico.
Scopri di più da GognaBlog
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.
Su questo come su mille altri temi, ci sono due dibattiti in uno, più un terzo fenomeno collaterale che gira intorno. Il primo dibattito è quello che coinvolge tutti, dove tutte le opinioni, anche le più sconclusionate, sono legittimate a esprimersi, ma tenendo presente che ogni opinione ha peso specifico pari a UNO (cioè NON ci sono opinioni più “meritevoli” solo perché proiettate verso il futuro). Il secondo dibattito è quello interno all’ambiente degli Accademici, i quali devono esser liberi nel poterlo fare in assoluta serenità e con il massimo rispetto (degli estranei) verso il loro status e la loro indipendenza. Poi c’è un terzo movimento (chiamarlo “dibattito” è dargli troppo lustro) che strumentalizza qualsiasi argomento pur di dare addosso al CAAI perché vede nel CAAI uno dei pilastri istituzionali di un mondo che detesta. Contro questi individui non c’è argomentazione che tenga e occorre solo marginalizzarli. il CAAI (come il CAI nel suo complesso) può avere mille difetti, ma è un tassello importantissimo della storia alpinistica italiana e va preservato da tutti gli attacchi prevenuti e insensati.
in alpinismo ci sono due regole primarie: rispettare quello che fanno gli altri; cercare di sopravvivere. La prima è etica, la seconda è umana e istintiva.
caro tarpone, quanto a tromboneggiare, pontificare e giudicare, non mi sembri secondo a nessuno.
Ma perché questi tromboni del CAAI non la smettono di parlarsi addosso e vanno ad arrampicare?
Patrimonio, etica, futuro e passato, interessano solo a loro. Che per fortuna sono tre gatti in croce. Tutti gli altri (che sono moltissimi di più), fanno e poi vanno a casa.
Caro il mio Rattone, credo che tu stavolta abbia buttato la palla in tribuna, senza peraltro spiegare cosa intendi.
Voglio dire che l’argomento in questione è il proverbiale campo delle cento pertiche e l’unico modo di affrontarlo sia quello della pacatezza e della mediazione per trovare un accordo quanto più condiviso possibile.
‘zzo vuol dire chiedersi se il primo salitore ha chiesto il permesso? Certo che no: ha aperto una via, ha fatto alpinismo, ha contribuito a creare il “patrimonio” come definito nell’introduzione.
Può averlo fatto bene o male, in modo meritorio o discutibile, può aver fatto una bella via o una ciofeca e di questo si può discutere, ma ha fatto qualcosa che prima non c’era. Hai assolutamente ragione, “non tutte le liste della spesa sono poesie”, ma questo non significa ispo facto che perciò tutte non hanno senso.
La religione non c’entra nulla e le vie che hanno segnato “nuovi inizi” (che tu decidi essere le uniche degne) a che varrebbero se non ci fossero anche “le noiose riproduzioni scolastiche”?
In realtà sono proprio le ripetizioni/ricreazioni/variazioni di un tema a generare il bisogno (e la possibilità) di un nuovo inizio.
[disclaimer: non sto sostenendo nemmeno l’opposto, che tutte abbiano senso, che vada tutto bene e men che meno che ogni sasso debba essere per forza costellato di vie/chiodi/spit]
Quello che invece io non ho capito è la tua posizione, cosa intendi con “culto dei morti” e come secondo te è possibile superarlo o semplicemente non esserne vittime?
Detto questo vorrei sottolineare che l’enfasi posta da tutti nel discorso mi pare abbastanza esagerata e che comunque l’avventura, la sfida e il gioco rimangono sempre anche dove meno te le aspetti.
Oggi per festeggiare l’anno nuovo su richiesta di mia figlia siamo andati ad arrampicare. Via senza pretese (come me) che avevo già fatto, chiodatura mista e da integrare, gradi umani a venti minuti dall’auto.
Sennonché il muretto con partenza in aderenza, fessurina e chiodo il 15 dicembre U.S. è diventato un muretto con partenza in aderenza e senza fessurina e chiodo) per un naturale processo orogentico.
E il VI+ è diventato qualcosa che mi ha fatto tribolare un po’ più del dovuto, diciamo così…però trovo che l’anno sia iniziato bene! 🙂
“Etica” e “Patrimonio comune”, pur normalmente sottointendendo qualcosa di definito e concreto, in ambito alpinistico indicano tentativi per lo più abortiti, di mettere un ordine in un insieme – che gli alpinisti non sono né gruppo né comunità- anarchico di personalità esuberanti.
È raro che un alpinista a fine corsa si sottragga dall’obbligo di pontificare sull’etica; di tromboneggiare su come dovrebbero essere le cose che lui non riesce più a fare: insomma di dare lezioni.
Il fatto è che il desiderio di primeggiare, che altrove ha una misurazione, in montagna è difficile da dimostrare : è necessario trovare regole di ciò che è bene e male che prende l’aulico nome di riflessione etica.
Al più basterebbe una sorta di deontologia, di regole condivise per stabilire una primaria.
La qual cosa svuoterebbe però il cote romantico nel quale si culla il perdigiorno alpino.
Negli anni 80/90 nelle nostre nuove ,a parte le soste e qualche chiodo di segnavia tiri interi risultavano così ad occhi frettolosi sprotetti,si faceva un ovvio ma faticoso uso di nuts e simili per un ottica e etica che purtroppo ora per molti e’ senza significato.
a chi si dovrebbe chiedere? Alla comunità alpinistica? al proprietario della parete? La richiesta di permesso come dovrebbe essere formulata?
Ratman Lei con simpatia resta decisamente in po troppo …violento? nelle sue icastiche valutazioni.Ma le viene facile,in questa assise(?)dato che non esiste l aspetto moderatore o correttore di un gestore che comunque dovrebbe possedere una linea valutativa,che farebbe del blog,anche una tendenza una linea di valore o valori.Ma se ne guarda bene,a parte sortite censorie,La controprova sono gli argomenti i più disparati e decisamente alla Signorini,clinmbprg..o similia.Va altresì detto che il suo intervenire,non è mal posto,iconoclastico,e off line,ci stà,smuove lo stagno,poichè di questo trattasi,non si affoga ,se non raramente nell acqua bassa e stagnante.Un amichevole riflessione,perseveri,ma voli alto con i termini,usi metafore,non violente,si può far del male anche dolcemente,si guadagna in stile e ironico procedere.Auguri di un ottimo 2025
#comandamentali
# commento 2
Scusate
Tema più che mai attuale. Il passaggio dal cartaceo al digitale compromette e perde molto delle tracce di vie già aperte. Patrimonio impossibile da censire con assoluta precisione ed interezza.
Negli anni 80/90 nelle nostre nuove ,a parte le soste e qualche chiodo di segnavia tiri interi risultavano così ad occhi frettolosi sprotetti,si faceva un ovvio ma faticoso uso di nuts e simili per un ottica e etica che purtroppo ora per molti e’ senza significato.
La mancanza di un regolamento ,di un arbitrato e regola fissa è fra le bellezze e i motivi che mi hanno avvicinato e fatto innamorare di questo non-sport, è questo secondo me quello che rende insondabile e misterioso se non unico l alpinismo;l assenza di tavole comanamentali!Questo risvolto fa sentire pero’ purtroppo libero chiunque di lasciare un proprio segno giusto o sbagliato che sia anche sopra ad altri.
Mi associo totalmente al commento 3 di Carlo.Concludo dicendo che la O nel titolo potrebbe diventare E con le dovute cure e cautele come è auspicabile fare con ciò che si ama di più…in questo caso la montagna e le sue meraviglie ed emozioni racchiuse dentro le pareti.
Una domanda che bisognerebbe porre ai “primi salitori” è: hai chiesto il permesso a qualcuno?
No, perché se il “patrimonio” è di tutti, c’è da chiedersi perché uno lo ha utilizzato pretendendo in seguito che tutti poi seguissero le sue regole di uso: insomma creando la religione del primo salitore.
Tolte alcune vie veramente nuove, vie che per stile, arroganza, visione, forza hanno segnato nuovi inizi, indicato nuove possibilità- e credo non ce ne siano molte, come non sono molti i capolavori musicali, letterari e pittorici – le altre spesso sono come i quadri seriali che tappezzato le pinacoteche: noiose riproduzioni poco più che scolastiche.
Ora, poiché c’è meno roccia che tela o carta , proporrei una visione più laica delle mille salite tutte uguali, un approccio più modesto anche dei salitori: insomma non tutte le liste della spesa sono poesie.
Questo approccio più critico è modesto sarà inascoltato per via del fatto che in questo ambiente impera il culto dei morti – non della memoria di coloro che non ci sono più – ma della contemplazione egotica, della proiezione di se in un futuro dalle dimensioni ridicole.
Insomma fate le vostre autocelebrative ascensioni ma poi basta: è tempo che i morti seppellisce i loro morti, oppure vivi e lascia vivere.
io personalmente credo che l’approccio dei primi salitori faccia parte integrante di ogni via. Se i primi salitori sono stati dei chiodatori a manetta, la via nasce così e così rimarrà. Se, invece, la via nasce con altri presupposti, cioè in parole semplici “poco protetta”, dovrebbe rimanere tale per sempre: chi la vorrà affrontare dovrà riconoscersi nella stessa filosofia dei primi salitori, altrimenti si rivolga ad altri vie di arrampicate. Il patrimonio alpinistico è tale, cioè è una ricchezza culturale prima ancora che tecnica, proprio perché è diversificato. Chiodare tutto nell’ottica della sicurezza dei ripetitori significherebbe far diventare “tutte uguali” le vie e questo riduce la ricchezza del patrimonio alpinistico.
In ambito alpinistico la parola etica subisce una deformazione riduttiva come la parola alpinismo: l’etica dell’alpinismo sarebbe in realtà un sistema di regole da rispettare nello sport dell’arrampicata. Come nello sci nel calcio o nel ciclismo, per esempio.
Se l’alpinismo diventa uno sport, agonistico s’intende, cioè una forma di alienazione che al rapporto con la montagna sostituisce la ricerca della prestazione tecnica, non ha più senso parlare di etica. L’etica dovrebbe condurre al contrario al rifiuto dello sport e proporre valori alternativi nel rispetto dell’ambiente naturale e dei sentimenti umani. Il sentimento della bellezza soprattutto.