Cose rischiose sul San Lorenzo

Cose rischiose sul San Lorenzo
(via nuova single push sulla seconda vetta più alta della Patagonia)
di Jordi Corominas
(pubblicato su The American Alpine Journal, 2009)

Oriol Baró ed io avevamo intenzione di scalare altrove nell’autunno del 2008, ma a causa di problemi con i permessi siamo stati costretti a cercare un nuovo obiettivo. Esaminando il nostro archivio di progetti in attesa, abbiamo deciso di andare in Patagonia: così abbiamo iniziato a cambiare la prenotazione dei biglietti aerei e a mandare e-mail agli amici. Due giorni prima della nostra partenza, Rolando Rolo Garibotti ci ha inviato un paio di foto delle pareti inviolate del Cerro San Lorenzo. Il dado era tratto.

Il Cerro San Lorenzo 3706 m da sud-est, nei pressi delle sorgenti del Rio Lacteo. Per raggiungere la parete nord-est (all’estrema destra) Oriol Baró e Jordi Corominas hanno risalito i pendii nevosi del centro-destra della foto per raggiungere una sella della cresta est dove hanno bivaccato prima della salita. Foto: Jordi Corominas.

Abbiamo trascorso due giorni a Buenos Aires, prenotando i nostri voli per la Patagonia e cercando mappe della regione per capire esattamente dove si trovava questa montagna. Abbiamo scelto di volare a El Calafate, dove avevamo amici che potevano aiutarci a organizzare il nostro viaggio al San Lorenzo, a circa 200 km a nord del Fitz Roy, al confine cileno-argentino.

Con i suoi 3706 metri, il San Lorenzo è la seconda vetta più alta della Patagonia, dopo il San Valentin in Cile. La via normale del San Lorenzo, aperta nel 1943 da padre Alberto De Agostini e due compagni, si svolge sugli ampi ghiacciai del versante cileno. Sul versante argentino della montagna, invece, le pareti sud-est e nord-est della vetta si innalzano ripide per ben oltre mille metri. Su questo versante era stata completata solo una via: la cresta est, salita da un team sudafricano nel 1986. La parete nord-est, di 1.500 metri, che speravamo di salire, aveva visto un tentativo deciso da parte di un duo francese negli anni ’90 che ha scalato tre quarti della parete, dopo diversi altri tentativi. Ma a parte questo e il poco che potevamo desumere dalle foto, non sapevamo nulla della parete.

A Calafate abbiamo finito la nostra spesa e abbiamo trovato un amico, di soprannome Pelao, che era disposto a portarci a nord fino al Parco Nazionale Perito Moreno con il suo fuoristrada: in questa zona c’è ben poco in termini di trasporto pubblico. Dopo una giornata di boulder in riva al lago e un barbecue argentino, ci siamo congedati dagli altri nostri amici e ci siamo diretti verso la famosa Highway 40, che attraversa tutta l’Argentina da nord a sud. Metà asfaltata e metà sterrata, con interminabili rettilinei attraverso vaste praterie deserte, la strada ci portava verso il nostro obiettivo. Infine, abbiamo virato su una strada laterale verso il parco nazionale e abbiamo percorso 100 km di sassi, fango e neve per raggiungere una delle aree protette meno visitate dell’Argentina. Temevamo da un momento all’altro di finire bloccati in qualche buca di fango scivolosa, sì da far terminare la nostra spedizione ben prima del previsto.

Il rifugetto degli alpinisti nella foresta, a quattro ore di cammino dalla rotabile. Foto: Jordi Corominas.

Verso il tramonto l’attraversamento di un fiume ha reso impossibile il viaggio con il veicolo e siamo stati costretti ad accamparci in mezzo alla strada, poiché ovunque c’era pantano. Era il 24 settembre e, visto che l’inverno era appena finito in questa parte del mondo, c’era ancora molta neve intorno. Guardando il tramonto dal nostro campo improvvisato, ci è dispiaciuto non aver portato gli sci per scendere sui pendii circostanti.

Abbiamo trascorso i due giorni successivi a trasportare carichi al nostro campo base; avevamo portato cibo a sufficienza per quasi un mese, perché sapevamo che in Patagonia si è costretti spesso ad aspettare parecchio senza scalare. Con il tratto dal veicolo al campo base abbiamo guadagnato appena 40 metri di dislivello, ma in compenso, dopo aver guadato le acque frizzanti del fiume alimentato dai ghiacciai, ci sono volute quattro ore per attraversare una pianura interminabile. Il campo base era una capanna costruita da alpinisti in legno e plastica all’interno di una piccola foresta di lengas e ñires, due specie di faggi nodosi caratteristici della Patagonia australe. La capanna aveva persino un caminetto per riscaldare l’interno, a testimonianza del tempo in attesa di chi ci aveva preceduti. Abbiamo piantato la tenda molto lontano, fuori dagli alberi, sperando di catturare quel minimo di calore che il sole fornisce in questo periodo dell’anno.

Il 27 settembre ci preparammo a salutare Pelao e a portare il nostro ultimo carico di rifornimenti al campo base. Durante il test del telefono satellitare è arrivato un messaggio di Rolo: le previsioni del tempo per i prossimi tre giorni sembravano buone! Immediatamente ci siamo agitati e abbiamo iniziato ad avere fretta. Cosa fare? Abbiamo salutato in fretta Pelao e abbiamo terminato l’ultima corvée per il campo, quindi abbiamo trascorso il pomeriggio a preparare i nostri zaini. In Patagonia nessuna occasione può essere sprecata; non c’era modo di sapere quando le buone condizioni sarebbero potute tornare.

(1) la via della cresta est (Sudafricana), di Bakker, Doddi, Fatti e Mueller (1986). (2) la linea di Nordafricana (Baró e Corominas, 2008). Foto: Michael Kennedy. Nell’inserto, la freccia mostra il punto più alto raggiunto da Baró e Corominas dopo aver salito la parete nord-est. Foto: Jordi Corominas.

Il giorno seguente albeggiava sereno, ma ancora ventoso e freddo. Potevamo vedere la montagna ma non la parete nord-est. Alla fine del ghiacciaio Lacteo, abbiamo attraversato un lago che fortunatamente era completamente ghiacciato: in estate si sarebbe stati costretti a traversare il bordo su morene instabili e scomode. Il lago era ricoperto da enormi blocchi di ghiaccio, intrappolati come prigionieri dal freddo. Siamo saliti fino alla base della cresta est del San Lorenzo, dove abbiamo piantato il nostro campo alto su una dorsale di roccia e neve a circa 2000 m. Da qui non riuscivamo ancora a vedere il nostro percorso, quindi siamo saliti un po’ più in alto sulla cresta per trovare la strada sul ghiacciaio alla base della parete nord-est. Questa parete è estremamente complessa, piena di torri rocciose, nevai e canaloni, alcuni dei quali non portano da nessuna parte, e non siamo riusciti a raggiungere un punto dal quale poter vedere chiaramente la nostra linea.

Abbiamo impostato la sveglia per partire molto presto ma non siamo riusciti a sentirla suonare: tale è l’inconveniente di un orologio da polso nascosto nel profondo del saccopiuma. Finalmente, verso le 3 del mattino, siamo partiti. Ci sono volute un paio d’ore per farci strada sulla neve crostosa fino alla crepaccia terminale. Al buio, abbiamo scelto il canalone che sembrava più evidente. Verso l’alba, però, ci siamo resi conto che non eravamo dove avremmo voluto essere. Dopo una breve discussione abbiamo deciso di scendere, anche se così facendo potevamo perdere la nostra unica possibilità di scalare la montagna. In fondo alla parete, abbiamo finalmente avuto modo di studiarne la struttura, e abbiamo potuto decidere dove doveva andare la via migliore, anche se gli ultimi tratti, che scomparivano alla vista sopra una seraccata, rimanevano un mistero.

Il 30 settembre abbiamo iniziato il nostro secondo tentativo, lasciando la tenda a mezzanotte con attrezzatura da arrampicata, cibo, acqua, alcuni indumenti extra e un fornello. Dato che avevamo già esaurito la maggior parte del bel tempo previsto, era giocoforza salire senza fermarci a bivaccare. Con la pista attraverso il ghiacciaio già tracciata, abbiamo raggiunto rapidamente il piede della parete e, dopo un altro breve consulto sulla via migliore, abbiamo optato per la via di minor resistenza. C’era un’altra possibilità a sinistra (che, come vedremo durante la discesa, aveva un paio di tratti verticali), ma fortunatamente abbiamo resistito alle sue tentazioni e abbiamo optato per risparmiare energie, dato che ancora non avevamo visto cosa ci aspettava nella zona superiore della parete.

Abbiamo scalato una divertente parete verticale in un crepaccio, poi quattro tiri di neve e ghiaccio per raggiungere un’ampia rampa di neve ripida e compatta dove abbiamo potuto arrampicare in simultanea. Una serie di traversi diagonali a sinistra ci hanno poi portato nel canalino centrale della parete, dove sono tornate le difficoltà e abbiamo ripreso a farci assicurazione. Ci muovevamo velocemente, ma la notte stava svanendo altrettanto rapidamente. All’alba eravamo sulla seraccata che avevamo visto dal basso, che conduceva in due tratti di discreta difficoltà alla parte nascosta della parete. Tra noi e la vetta c’erano ancora seicento metri. Nonostante il fatto che presto avremmo potuto godere di un po’ di tepore del sole, sapevamo bene che lo stesso calore avrebbe presto convogliato su di noi valanghe di neve e blocchi di ghiaccio. Fortunatamente, uno strato di nebbie vorticose stava velando i raggi del sole e la temperatura è rimasta fredda.

Baró conduce la cordata dopo aver raggiunto la via Sudafricana sulla cresta est. Foto: Jordi Corominas.

Quello che abbiamo scoperto sulla parte alta della montagna è stato scoraggiante: un labirinto di torri e canalini, bersaglio di detriti di rocce marce che il vento aveva scaricato. Abbiamo continuato a risalire sottili canalini di ghiaccio, rocce in decomposizione e fango ghiacciato in mezzo a un continuo bombardamento. In alto si vedevano i funghi sommitali, pencolanti e minacciosi. O la fortuna o l’intuizione ci hanno fatto muovere costantemente verso l’alto, trovando e seguendo canalini non troppo difficili e con uscite gestibili. Alla fine un lungo traverso siamo sbucati sulla cresta est, dove abbiamo salito due tiri su buon granito, incontrando un paio di chiodi lungo la via Sudafricana (In realtà Corominas e compagno hanno seguito la variante diretta finale alla cresta, aperta da Annibale Borghetti, Casimiro Ferrari, Danilo Valsecchi e Maurizio Villa in occasione della loro salita integrale alla cresta, 1987, NdR).

Dopo un’ultima torre di roccia, siamo saliti in cima al primo fungo di neve sulla cresta sommitale. Erano le 15.00. Eravamo a circa 100 metri dal punto più alto della cresta. Il nostro piano era di traversare la vetta e di scendere per la via normale; avevamo sperato di salire quella via prima di tentare la parete nord-est e segnare la via con il nostro GPS. Ma a causa della nostra fretta di approfittare del bel tempo, non avevamo fatto alcuna ricognizione prima della nostra salita. Ora potevamo vedere le nuvole scure di un fronte temporalesco che si avvicinava dall’Oceano Pacifico. Non avevamo alcun desiderio di ritornare sulle nostre tracce lungo la pericolosa parete nord-est, ma non volevamo nemmeno scendere una via sconosciuta durante una tempesta. E così abbiamo fatto dietrofront all’ultimo fungo di neve e abbiamo iniziato la lunga discesa del nostro percorso.

Ci è voluto il resto del pomeriggio e tutta la notte successiva per completare le 35-40 doppie. Sulla prima di queste, le corde hanno staccato un sasso instabile che è caduto sulla mia testa da una decina di metri. Il colpo è stato sufficiente a rompere il mio casco e lasciarmi con il collo dolorante per i successivi 15 giorni. Per lo più ci siamo calati in doppia con ancoraggi tipo Abalakov, ma abbiamo anche usato alcuni chiodi e un paio di picchetti da neve. Avevamo con noi tre corde, nel caso in cui una avesse dovuto essere sacrificata durante le calate: e meno male, visto che abbiamo finito per utilizzare più di 50 metri della corda di riserva  per poter costruire gli ancoraggi. Verso l’alba, forse a causa della crescente stanchezza, abbiamo iniziato ad avere dubbi sull’itinerario da seguire per la discesa, ma alla fine abbiamo terminato le doppie proprio dove avevamo programmato. Siamo arrivati ​​ai piedi della parete con le prime luci del 1 ottobre, sotto continue docce di spindrift, le prime avvisagli della bufera che stava arrivando.

Corominas sale gli ultimi metri della via. La vista spazia a sud-est verso la pampa argentina. Foto: Oriol Baró.

La nostra traccia attraverso il ghiacciaio era già stata cancellata dalla neve portata dal vento e con la più totale malavoglia siamo stati costretti a tracciare ancora una pista. A pochi metri dal nostro accampamento alto, abbiamo dovuto fermarci e sederci per un po’ sotto la neve che soffiava, aspettando che le fitte nuvole si schiarissero abbastanza da permetterci di localizzare la nostra tenda. Alla fine la vedemmo, sferzata dai venti di burrasca che ora soffiavano forte. Abbiamo fatto i bagagli e, diverse ore dopo, esausti e fradici ma ancora contenti, abbiamo raggiunto il nostro campo base nel mezzo di una vera e propria tempesta patagonica. Finalmente potevamo fermarci, bere e rilassarci.

Abbiamo trascorso la settimana successiva di maltempo rinchiusi e tremanti nella capanna mentre aspettavamo di scappare via dalla montagna. Per tutto il tempo abbiamo sognato i nostri amici a El Calafate e il barbecue che ci saremmo goduti al nostro ritorno.

Sommario
Zona: Patagonia Centrale, Argentina

Ascensione: salita in unico tentativo della parete nord-est del Cerro San Lorenzo 3706 m per la via Nordafricana (1500 m, ED1), Jordi Corominas e Oriol Baró, 30 settembre-01 ottobre 2008. Si unisce alla via Sudafricana (1986) della cresta est e la segue per due tiri fino a finire in cima al primo fungo di neve della cresta sommitale, circa 100 m ad est della vetta vera e propria. I due uomini hanno sceso la loro via di salita, tornando al loro bivacco sotto la parete 30 ore dopo la partenza.

Una nota sull’autore
Nato nel 1958, Jordi Corominas vive nei Pirenei spagnoli, dove lavora come guida alpina. La sua prima salita della parete ovest del Siulá Chico in Perù con Oriol Baró è stata descritta nell’AAJ 2008.

VERSIONE INGLESE
Risky Business on San Lorenzo
A single~push new route on Patagonia’s second-highest peak.
by Jordi Corominas

Oriol Baró and I had intended to climb elsewhere in the autumn of 2008, but due to permit problems we were forced to look for a new objective. Poring over our file of projects in waiting, we decided to travel to Patagonia and started rebooking plane tickets and emailing friends. Two days before our departure, Rolando “Rolo” Garibotti sent us a pair of photos of San Lorenzo’s unclimbed faces, and the die was cast.

We spent two days in Buenos Aires, booking our onward flights to Patagonia and looking for maps of the region to sort out exactly where this mountain was located. We opted to fly to El Calafate, where we had friends who could help us organize our trip to San Lorenzo, about 200 kilometers north of Fitz Roy on the Chilean-Argentinean border.

At 3,706 meters, San Lorenzo is the second-highest summit in Patagonia, after San Valentin in Chile. San Lorenzos normal route, established in 1943 by Father Alberto De Agostini and two companions, climbs up broad glaciers on the Chilean side. On the Argentinean side of the mountain, however, the southeast and northeast faces of the peak rise steeply for well over 1,000 meters. Only one route had been completed on this side: the east ridge, climbed by a South African team in 1986. The 1,500-meter northeast face, which we hoped to climb, had seen one strong attempt, by a French pair in the 1990s that climbed three-quarters of the face, and several probes around the base. But other than this and the little we could glean from photos, we knew nothing about the face.

In Calafate we finished our food shopping and found a friend, nicknamed Pelao, who was willing to drive us north to Perito Moreno National Park in his 4WD, for in this zone there is little in the way of public transportation. After a day of lakeside bouldering and an Argentinean barbeque, we took leave of our other friends and headed up the famous Highway 40, which crosses all of Argentina from north to south. Half pavement and half dirt, with interminable straightaways through vast, uninhabited grasslands, the road carried us toward our objective. Finally, we veered onto a side road toward the national park and traveled 100 kilometers of rock, mud, and snow to reach one of Argentina’s least-visited protected areas. We feared at any moment that we would end up stuck in some slippery mud hole, our climbing ambitions dashed before even reaching the mountain.

Toward dusk a river crossing made further travel by vehicle impossible, and we were forced to pitch camp in the middle of the road, since everywhere else was a quagmire. It was September 24, and with winter having just ended in this part of the world, there was still plenty of snow around. Watching the sunset from our improvised camp, we were sorry we hadn’t brought along skis to descend the surrounding slopes.

We spent the next two days ferrying loads to our base camp; we’d brought enough food to last nearly a month, for we knew that one might have to wait a long time to climb in Patagonia. The walk from the vehicle to base camp gained just 40 meters in elevation, but, after fording the brisk waters of a glacial-fed river, it took us four hours to cross an interminable plain. Base camp was a hut built by climbers from wood and plastic inside a small forest of lengas and ñires, two species of the gnarled beech trees characteristic of austral Patagonia. The hut even had a fireplace to warm the inside, proof of the ample time those before us had spent waiting. We pitched the tent a ways off, out of the trees, hoping to capture some of the minimal heat the sun provides at this time of year.

On September 27, we prepared to bid farewell to Pelao and carry our last load of supplies to base camp. While testing the satellite phone, a message from Rolo arrived: The weather forecast for the next three days looked good! Immediately our nerves started to act up and we began to feel rushed. What to do? We said a hurried good-bye to Pelao and completed the final ferry to camp, and then spent the afternoon preparing our packs. In Patagonia no opportunity can be wasted; there was no telling when good conditions might return.

The following day dawned clear, but still windy and cold. We could see the mountain but not the northeast face. At the toe of the Lacteo Glacier, we crossed a lake that fortunately was completely frozen—in summer one would be forced to traverse around the edge on slippery, awkward moraines. The lake was covered with huge blocks of ice, trapped like prisoners by the cold. We climbed onto the toe of San Lorenzo’s east ridge, where we pitched our high camp on a spine of rock and snow at around 2,000 meters. From here we still could not see our route, so we climbed a bit higher up the ridge to find a way onto the glacier at the base of the northeast face. This face is extremely complex—filled with rock towers, snowfields, and gullies, some of which lead nowhere—and we could not reach a point where we could see our line clearly.

We set the alarm to wake us very early but failed to hear it go off—such is the inconvenience of a wristwatch tucked deep inside the sleeping bag. Finally, around 3 a.m., we departed. It took us a couple of hours to break trail through crusty snow to the bergschrund. In darkness, we started up the gully that appeared most obvious. Toward dawn, however, we realized that we weren’t where we wanted to be. After a brief discussion we decided to descend, although in doing so we might lose our one chance to climb the mountain. At the bottom of the face, we finally had a chance to study its structure, and were able to decide where the best route must go, although the final reaches, which disappear from sight above a frozen cascade, remained a mystery.

On September 30 we began our second attempt, leaving the tent at midnight with climbing gear, food, water, some extra clothing, and a stove. Since we had used up most of the good weather in the forecast, we would have to ascend without stopping to sleep. With the trail across the glacier already in place, we reached the foot of the wall quickly, and, after another short debate about the best route, we opted for the path of least resistance. There was another variation to the left (which, as we would see during the descent, had a couple of vertical sections), but fortunately we resisted its temptations and opted to save our energy, given that we still had not even seen what waited near the top of the face.

We climbed a fun, vertical crevasse wall and then four pitches of snow and ice to reach a wide ramp of steep, compact snow where we could simul-climb. A series of diagonal traverses to the left then put us in the central gully of the face, where the difficulties returned and we began to belay again. We were moving fast, but night was vanishing just as quickly. At dawn we were on the frozen waterfall we had seen from below, which led in two sections of reasonable difficulty to the hidden part of the face. Six hundred meters still lay between us and the summit. Despite the fact that we would soon enjoy a bit of warmth from the sun, we were not looking forward to it hitting the face above us and sending down avalanches of snow and ice blocks. Luckily, a layer of swirling mists veiled the sun’s rays and the temperature remained cold.

What we discovered on the upper reaches of the mountain was discouraging: a labyrinth of towers and gullies, down which the wind playfully tossed debris from rotten rock walls. We continued up slender gullies of ice, decomposing rock, and frozen mud amid a continuous bombardment. Above, we could see the summit mushrooms hanging threateningly. Either luck or intuition kept us moving steadily upward, finding and following gullies that were not too difficult and had manageable exits. Eventually, a long traverse brought us to the east ridge, where we climbed two pitches on good granite, encountering a couple of pitons along the South African route.

After a final rock tower, we climbed atop the first snow mushroom on the summit ridge. It was 3 p.m. We were about 100 meters away from the high point on the ridge. Our plan had been to traverse over the summit and descend the normal route; we had hoped to climb that route before attempting the northeast face and mark the way with our GPS. But because of our haste to take advantage of the good weather, we had done no reconnaissance before our ascent. Now we could see the dark clouds of a storm front approaching from the Pacific Ocean. We had no desire to follow our tracks back down the dangerous northeast face, but neither did we want to descend an unknown route in a storm. And so we turned our backs on the final snow mushroom and began the long descent of our route.

It took us the rest of the afternoon and all of the following night to complete the 35 to 40 rappels. On the first of these, the ropes knocked loose an unstable rock that fell some 10 meters onto my head. The blow was enough to crack my helmet and leave me with an aching neck for the next 15 days. For the most part we rappeled from V-threads, but we also fixed some pitons and a couple of snow pickets. We had carried three ropes in case one had to be sacrificed during the rappels—and, as luck would have it, we ended up using more than 50 meters of the newest cord to help construct rappel anchors. Toward dawn, perhaps as a result of mounting fatigue, we started to doubt the best route of descent, but finally we finished the rappels just where we had planned. We reached the foot of the wall with the first light on October 1, amid showers of spindrift from the blizzard that was now arriving in force.

Our tracks across the glacier had already been erased by wind-blown snow, and with a total lack of will we were forced to break trail again. Only a few meters from our high camp, we had to stop and sit in the blowing snow for a bit, waiting for the thick clouds to clear enough for us to locate our tent. Finally, we saw it, whipped by the gale-force winds now blowing across the spur. We packed up our gear and, several hours later, exhausted and soaked but still content, we reached our base camp in the midst of a full-blown Patagonian storm. Finally we could stop, drink, and relax.

We spent the next week of bad weather cooped up and shivering in the hut while we waited for a ride out of the mountains. All the while we dreamed of our friends in El Calafate and the barbeque we would enjoy upon our return.

Summary:

Area: Central Patagonia, Argentina

Ascent: Single-push ascent of the northeast face of Cerro San Lorenzo (3,706m) by the route Nord Africana (1,500m, ED1), Jordi Corominas and Oriol Baró, September 30-0ctober 1, 2008. The joined the 1986 South African route on the east ridge for two pitches and then stopped on top of the first snow mushroom on the summit ridge, about 100m east of the true summit. The two men rappelled their route of ascent, returning to their bivy below the face 30 hours after leaving.

A Note About the Author:

Born in 1958, Jordi Corominas lives in the Pyrenees of Spain, where he works as a mountain guide. His first ascent of the west face of Siulá Chico in Peru with Oriol Baró was featured in the 2008 AAJ.

Cose rischiose sul San Lorenzo ultima modifica: 2022-08-30T05:43:00+02:00 da GognaBlog

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5 pensieri su “Cose rischiose sul San Lorenzo”

  1. Figo, grazie Luca! Come sai, queste sono le cose che a me piacciono.
    Ma sul piergiorgio c’è anche una tua gringos locos, giusto? Quando ci racconterai come è andata lassù, visto che l’espertone di lame di granito che si staccano al solo sguardo e di aderenza da vibrazione tetanica sui piedi eri tu, allora, se non ricordo male…

  2. Aggiungo altro aneddoto del nostro blitz al San Lorenzo. Sul Cerro Hermoso salimmo per una via nuova scoprendo in seguito di aver conquistato (senza bandierina di vetta) l’ultima cima inviolata delle tre che compongono l’Hermoso. La dedicai alla mia figlioccia di allora, la Cumbre Silvia. Passano un po’ di anni e mi scrive la famiglia Rocca, che aveva perso Agostino Rocca, manager della siderurgia, in un incidente aereo l’anno prima, in cui perse la vita anche il più famoso alpinista argentino, Fonrouge, quello della Supercanaleta al Fitz Roy. I Rocca cercavano un cima da dedicare al defunto ma mi opposi a “vendere” la mia cima e cambiarle nome, forse l’avrei fatto solo se mi avessero chiesto di dedicarla a Fonrouge, il padre dell’ alpinismo leggero in Patagonia. C’è un bel post qui sul gognablog che lo racconta.
     
    I Rocca anni dopo invece finanziarono i Ragni di Lecco e ottennero la via dedicata a Agostino, quando Barmasse e Brenna finirono la via del Casimiro Ferrari sulla parete del Piergiorgio. ps non aprirei mai una via con un nome già “pagato” 😀

  3. I Sar hanno 2 Winchester malandati dalla mira sbilenca, però quando sparano agli alpinisti che gli attraversano il loro territorio diventano ugualmente convincenti. 
    Convince il fischio delle pallottole. Ciao Luca.

  4. Bellah Luca.
    Ben più avvincente il tuo “breve” che non quello dello spagnolone (non me ne voglia Corominas: saper scrivere non è come saper andare in montagna).
     

  5.  
    Provata qualche anno prima di Corominas e Baró, con il collega guida Diego Fregona, a ottobre 2002 confidando nella presenza di neve invernale che avrebbe ricoperto la linea scelta per tentare la parete. Approcciammo da Lago Posadas e la Valle del Rio Oro, che ancor oggi (?) i più evitano per la presenza dei burberi e lunatici proprietari, la famiglia Sar. Mi giocai l’entrata gratis nella valle tenendo le orecchie basse e regalando il mio gameboy della Nintendo a uno dei figli, giocandomi però il tetris che sarebbe stato il passatempo per le lunghe attese patagoniche… Il campo base dal nostro lato era meraviglioso, con pozza di acqua termale a fianco della tenda. Dopo una via nuova di acclimatamento sul vicino Cerro Hermoso, provammo la parete dopo che la lenta risalita del barometro indicava l’arrivo di una bella finestra di bel tempo … una finestra che però voleva dire disgelo primaverile (duró ben 10 gg) e ce ne accorgemmo subito attaccando la parete, 100 metri a sinistra della via scelta da Corominas. Primi due tiri con una pioggia di sassolini continua, poi un terzo tiro con i primi palloni da football da schivare … più sopra 1500 metri di decomposizione pronti con armadi e vetture di media cilindrata. Ci ritirammo con pochi rimpianti, il troppo è nemico del tanto 😀 … e se uno che si è fatto la Magic Line al K2 in solitaria la reputa così rischiosa, la nostra rinuncia è stata meno pesante di altre … 

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