“Io sono le montagne che non ho scalato (Nives Meroi)”.
Sabato 3 settembre 2022, dalle 21.30 alle 22.30, Nives Meroi racconterà al pubblico del Campo Base Festival di Oira (VB) come in natura la forza più formidabile sia la solidarietà tra le persone.
Una delle più forti alpiniste del mondo, la seconda donna della terra ad aver scalato tutti i quattordici ottomila senza l’uso di ossigeno né portatori d’alta quota. La prima ad aver compiuto il concatenamento di tre Ottomila (Gasherbrum I, Gasherbrum II e Broad Peak). La prima italiana in vetta al Nanga Parbat e al K2.
Nives Meroi
di Paola Malacarne
(pubblicato su enciclopediadelledonne.it)
Nives, dal latino le nevi, come lei stessa dirà «Ce l’ho addosso!»
“Amo la neve all’arrivo al campo base quando stende sulla pietraia una tovaglia liscia e le nostre tende spuntano come tazze rovesciate. Amo la neve profumata di prima colazione, neve al caffè, al cacao. Poi subito la odio quando ci affondo i passi che devo tirar fuori a strappo, quando nasconde la bocca dei crepacci…”.
Considerata tra le maggiori alpiniste donne della storia, ha scalato, insieme al marito Romano Benet, anch’egli alpinista, tutti i 14 Ottomila senza l’uso di ossigeno supplementare e senza alcun aiuto di portatori d’alta quota, prima coppia in assoluto a riuscire nell’impresa.
Erri De Luca, nel definirla la più forte in assoluto proprio in virtù di questa modalità di arrampicarsi, riconosce, nella rinuncia all’uso dei portatori, una delle qualità della scalatrice: il rispetto per la vita, propria e altrui.
“Noi non vogliamo pagare a qualcuno il salario della sua pelle, prendergli in affitto l’esistenza. Non potremmo salire tranquilli. Noi paghiamo i portatori fino al campo base, fino a dove è in gioco solo la fatica, non la vita”.
Nata il 17 settembre 1961 a Bonate Sotto in provincia di Bergamo, Nives Meroi vive in Friuli, a Fusine Laghi. Quando è ancora piccola, la famiglia – una famiglia normale in cui nessuno pratica sport – si trasferisce a Tarvisio e qui, come tanti ragazzi del luogo, d’inverno pratica lo sci e d’estate l’atletica. Frequenta il liceo linguistico a Udine e sogna di tradurre libri. Durante il periodo scolastico usa il fine settimana per andare in montagna. Ed è su quelle montagne del Friuli, montagne difficili come le più note Dolomiti, ma meno frequentate e per questo meno attrezzate, che nasce il desiderio di sperimentare. Le Alpi Giulie costituiscono una scuola di formazione severa che insegna a praticare un alpinismo esplorativo in cui è necessario cercare da soli la via, consapevoli dei propri mezzi e delle proprie capacità: la conoscenza profonda di sé diventerà il presupposto fondamentale per affrontare più tardi le grandi montagne dell’Himalaya.
In quell’epoca nasce il sodalizio con Romano Benet, che diventerà suo compagno fisso di cordata, con cui inizierà a realizzare quel modo di procedere improntato alla ricerca che sarà la loro cifra. Nel 1989 si sposano e, come viaggio di nozze, compiono una spedizione in Sudamerica, sulla Cordigliera bianca, una sorta di allenamento prima di intraprendere la via alle vette più alte. Inizia così la carriera alpinistica himalayana tentando, nel 1994, di aprire una variante alla via dei Giapponesi sul versante nord-nord-ovest del K2 ( con Filippo Sala, NdR). L’itinerario si interromperà a 8450 m poiché arrivati sopra a uno sperone, che credevano collegato alla vetta, si accorgono che era invece staccato da un abisso. Nives, che è la prima donna al mondo a tentare questo versante, ricorderà questa esperienza come una bella lezione di umiltà e rispetto: “Gli dei volevano che accettassi il fallimento senza scoraggiarmi, perché quando si tentano nuove vie, queste presentano sempre una possibile sconfitta”.

Nel 1995, Nives e Romano realizzano una nuova via sulla parete nord del Bhagirathi II 6450 m scendendo, sempre lungo una via nuova, sulla parete sud (In seguito salgono anche la cima lungo la via normale, NdR).
(Nel maggio del 1996, raggiunta la quota di 8000 metri lungo la via Mallory al versante nord dell’Everest, Nives Meroi e Romano Benet sono costretti a rinunciare a causa delle avverse condizioni del tempo, NdR).
Nel 1998 raggiungono la vetta del Nanga Parbat 8125 m in sole nove ore dall’ultimo campo, riuscendo in un’impresa tecnicamente e fisicamente eccezionale (Nives diventa la prima donna italiana, e nona donna al mondo, a raggiungere la vetta del Nanga Parbat, NdR).
Nel 1999 è la volta della cima dello Shisha Pangma 8046 m e, solo dieci giorni dopo, quella del Cho Oyu 8202 m. Un’accoppiata velocissima che dà la cifra del loro valore (l’impresa è condotta assieme a Luca Vuerich: raggiungono la cima dello Shisha Pangma il 12 maggio e il 22 maggio, sono sulla cima del Cho Oyu. Nives diventa così la donna italiana con il maggior numero di ottomila conquistati e si conferma una delle più forti himalayste a livello internazionale, NdR).
(Nel 2000 Nives Meroi, Romano Benet, Luca Vuerich, assieme ad un forte gruppo di alpinisti tarvisiani, tenta la salita dell’inviolato versante nord del Gasherbrum II: uno degli ultimi “problemi” himalayani. Ostacolati da condizioni meteorologiche particolarmente avverse, sono costretti a desistere a quota 6500 metri, per l’alto rischio di valanghe e cadute di seracchi; gli alpinisti riescono comunque ad effettuare una notevole attività esplorativa coronata dalla salita di cinque vette inviolate di oltre 6000 metri, con elevate difficoltà tecniche, NdR).
(Nel 2001 Nives Meroi, Romano Benet e Luca Vuerich progettano di salire il Mazeno Peak 7120 m per la parete nord, oltre 3000 metri di dislivello, con elevate difficoltà di roccia e ghiaccio: questa era una delle più grandi e spettacolari pareti himalayane ancora inviolate, da tentare di salire in stile alpino. In seguito agli attentati dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle ed al conseguente precipitare della situazione politica internazionale sono costretti ad interrompere la spedizione e rientrare immediatamente in Italia, NdR).
Nel 2003 arriva un trittico d’eccezione con la salita in successione di Gasherbrum II 8035 m (19 luglio), Gasherbrum I 8068 m (26 luglio) e Broad Peak 8047 m (8 agosto). Il tutto in venti giorni, un tempo da record: mai nessuna donna aveva realizzato una simile impresa (una sola cordata al mondo, guidata da Erhard Loretan, prima di loro aveva realizzato queste salite in 15 giorni, NdR).
(Nel 2004 è la volta del Lhotse 8516 m. Il 16 maggio Nives Meroi, Romano Benet e Luca Vuerich ne raggiungono la cima lungo la via normale. Come sempre, “by fair means”, la salita è stata effettuata in soli tre giorni, senza campi prefissati, senza l’ausilio di ossigeno né di portatori d’alta quota.
Dopo il Lhotse, il gruppo si sposta in Cina per tentare la salita del K2, in occasione del cinquantesimo della prima salita. Insieme ad altri alpinisti provenienti dall’Italia si dirigono al versante nord, ma purtroppo, per le proibitive condizioni atmosferiche, dopo due mesi devono desistere e ritornare in Italia.
Il 5 maggio 2005 Romano, Nives e Luca raggiungono la quota di 8157 metri sul Dhaulagiri 8167 m, salendo fino ad un’anticima della montagna, di dieci metri più bassa della cima principale!
Ostacolati dalle proibitive condizioni atmosferiche, che per tutta la stagione pre-monsonica hanno imperversato sulla catena himalayana, i numerosi tentativi effettuati per superare i pochi passi mancanti restano vani.
Il 17 maggio 2006 Romano e Nives riescono a percorrere quell’ultima manciata di metri della cresta sommitale dove l’anno precedente si erano dovuti fermare per la presenza di pericolose cornici di neve. Luca, che solamente due giorni prima della partenza per la cima si è ammalato, è purtroppo costretto a rinunciare alla salita, NdR).
(Il giorno dopo il rientro dalla cima del Dhaulagiri la spedizione si trasferisce all’Annapurna 8047 m, il primo ottomila salito nella storia, nel 1950, da una grande spedizione francese. La via dei primi salitori non presenta grandi difficoltà tecniche, si svolge però su pendii carichi di neve che rendono molto pericolosa la salita, impossibile a volte per le continue valanghe che cadono sul percorso. Il 25 maggio Romano, Nives e Luca, scampati al crollo di un seracco a quota 6600 metri, considerate le pericolose condizioni di tutta la parete, decidono di rinunciare alla salita e rientrano al campo base, dove li attende Leila, NdR).
E poi una salita da incorniciare: quella del K2 8611 m. Sono le ore 13 del 26 luglio 2006 quando i due toccano la vetta della «Montagna degli Italiani» lungo lo storico Sperone degli Abruzzi.
(Partiti dal campo base il 22 luglio, con soli tre bivacchi salgono e scendono questa meravigliosa montagna, come sempre “by fair means”, con lo stile leggero e pulito che ormai li contraddistingue: senza ossigeno, senza portatori d’alta quota e senza campi prefissati (settima salita femminile e prima italiana, NdR).
Con questa salita, Nives raggiunge “quota nove”, il massimo delle vette oltre gli 8000 metri fino a quell’anno raggiunte nella storia da una donna.
(Il 17 maggio 2007 è la volta dell’Everest 8850 m. Nives: “Leila, siamo a 10!… ma che fatica”. Rapidamente la cronaca: sveglia alle 10 p.m. (ora locale) e partenza a mezzanotte e mezza. Il tempo non è affatto bello, tira vento e soprattutto fa molto, molto freddo. Alle 10 circa di mattina l’arrivo in vetta. “Siamo andati su lentamente, con fatica – spiega Nives – abbiamo pagato quella notte in più a 8100 m. Il gelo poi… le dita delle mie mani sono bluastre, quelle dei piedi non lo so, vedrò stasera quando arriveremo al campo. Ad ogni modo stiamo bene, vogliamo solo scendere di quota il più in fretta possibile”, NdR).
(Nell’autunno 2007 Nives e Romano decidono di tentare la salita del Makalu 8463 m; completamente soli sulla montagna, dopo ripetuti tentativi sono costretti a rinunciare a causa delle avverse condizioni meteo e della grande quantità di neve in parete. Nell’inverno 2007/08 ci riprovano, questa volta nella stagione più fredda. Rinunciano per il vento troppo forte. Nel 2008, in autunno, Nives Romano e Luca raggiungono la cima del Manaslu 8163 m dopo solo tredici giorni dal loro arrivo al campo base
Nel 2009 affrontano la salita del Kangchenjunga. Nives è in corsa per diventare la prima donna ad aver raggiunto tutti i 14 Ottomila. Ma inspiegabilmente Romano appare affaticato, non è in grado di continuare la salita. Poco prima della vetta, lui le dice di andare e che l’aspetterà lì. S’impone una scelta, ma senza esitazioni, lei gli risponde: “Non ti farò aspettare” e scende, rinunciando alla gara per il record. L’episodio, che la vedrà impegnata per due anni nella cura del compagno, affetto da una grave forma di aplasia midollare (due trapianti di midollo osseo, i trattamenti di chemioterapia e numerose trasfusioni, NdR) lo tengono lontano dall’attività per più di due anni, ispirerà a Nives un modo diverso di concepire l’impresa di scalare le montagne. Annuncerà il suo ritiro dalla competizione con queste parole:
“L’alpinismo di oggi perde le proprie caratteristiche… ovvero esplorazione di sé stessi in contesti diversi. Il fatto che l’alpinismo himalayano femminile sia diventato una corsa con come unico obiettivo il risultato mi ha fatto decidere di non giocare più”.
Il passaggio a questo nuovo rapporto con la montagna e la vita è espresso dal suo racconto:
“[…] Io non mi ero ancora liberata di quel senso di sporcizia, quella puzza che mi sentivo addosso per avere preso parte allo spettacolo. Noi abbiamo recitato una parte, siamo stati al gioco della corsa femminile agli Ottomila perché era l’unico modo per trovare degli sponsor e riuscire a ripartire ogni anno”.
Poi, dopo la quindicesima vetta, quella della vita, come lei stessa la chiamerà, il cammino himalayano riprende e nel 2014 (dopo un altro tentativo nel 2012, NdR) sono in vetta agli 8586 metri del Kangchenjunga. Nel 2016 (12 maggio, NdR) arriva il Makalu. Infine, nel 2017 (11 maggio, ore 9 locali, NdR), ecco la cima dell’Annapurna con la quale Nives completerà il «grande tour» delle 14 cime (Si tratta della seconda donna nella storia a compiere questa impresa senza l’uso di ossigeno supplementare e la terza in assoluto. I due, inoltre, sono i primi in assoluto ad aver compiuto l’impresa in coppia, NdR).
Giunta al termine di questa lunga scalata di cime, ecco delinearsi lo scopo che muove i suoi passi: il desiderio di bellezza, quella che nasce da un alpinismo onesto, pulito, leggero, non violento, che sposta l’obiettivo dal quanto al come. Con questi aggettivi, che Nives sintetizza nell’espressione “andare in montagna”, si qualifica il percorso che la porta ad assumere un personale modo di vivere e interpretare l’alpinismo. È qui che inizia a delinearsi un modus femminile di vivere l’alpinismo cui fa seguito l’uso di una diversa terminologia.
L’uso di espressioni quali «attacco alla cima», «conquista della vetta» non appartengono al suo sentire:
“Quando arrivo in cima a una montagna, il mio non è mai uno sguardo di conquista, è uno sguardo che abbraccia. Non la vivo come una sfida alla natura, ma come una ricerca di un’armonia di me all’interno dell’ambiente. È una forma di appartenenza. … Lassù io sono Nives la pietra, Nives la neve… Sono un’alpinista, però con l’apostrofo e quell’apostrofo è la mia bandierina di donna che faccio sventolare lassù… Per i maschi una cima è un desiderio esaudito, per me è il punto di congiunzione con tutto il femminile di natura”.
Nives, che su iniziativa del Presidente della Repubblica nel 2010 è stata nominata Commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica italiana “Per gli eccezionali traguardi raggiunti nell’alpinismo di alta quota, un’attività che era rimasta a lungo prerogativa maschile”, si chiede se sia possibile andare in montagna da donne, aprendo così una nuova modalità. Ed è questa la sua sfida.
«Ogni volta ho sottolineato il mio apprezzamento per Nives, perché la ritengo, proprio per lo stile, la più forte delle donne che hanno chiuso la corona delle 14 montagne più alte della Terra (Reinhold Messner)».
Nives Meroi (integrazione)
a cura della Redazione
Nella sua famiglia nessuno pratica sport. Si avvicina all’alpinismo intorno ai 15 anni e a 17 sale le prime vie. Studia al liceo linguistico, vuole fare la maestra e sogna di tradurre libri. A 19 anni incontra Romano Benet, e iniziano ad arrampicare insieme. Diventano compagni di cordata e poi anche di vita: si trasferiscono a Fusine Laghi, in Friuli Venezia Giulia. Non hanno figli. Prima di dedicarsi esclusivamente alle spedizioni (“dove ogni passo diventa uno sforzo di volontà” come dice lei stessa), Nives Meroi lavora in un’agenzia immobiliare. Il nido dove preparano le loro imprese è una baita alle porte di Tarvisio, dove praticano arrampicata sportiva e alpinismo in estate, scialpinismo e cascate di ghiaccio d’inverno. Lui gestisce un negozio di articoli da arrampicata, lei scrive libri dedicati alla natura e alla montagna. La loro fiaba ha avuto inizio più di trenta anni fa: un inno alla ricerca della bellezza di paesaggi sconfinati.
Nives Meroi ha percorso, in cordata con il marito Romano Benet, alcune tra le vie più difficili delle Alpi, come la prima invernale del Pilastro Piussi al Piccolo Mangart di Coritenza (1987) e la prima invernale alla Cengia degli Dei al Gruppo dello Jôf Fuârt (2001). Inoltre hanno scalato cascate di ghiaccio estreme, come Riofreddo (300+300 m, IV/5), Spada di Damocle (210 m, IV/5), Psihoanaliza alle pareti di Bretto (135 m, II/6). Hanno ripetuto le vie ‘classiche’ sulle Alpi Giulie e le Dolomiti, intrapreso vie su neve e sci alpinistiche dalle montagne di casa ai Tauri, al Monte Bianco e vie ‘moderne’, con difficoltà fino al 7c.
Nel 2014, assieme a Vito Mancuso, Nives Meroi pubblica il suo primo libro, Sinai. La montagna sacra raccontata da due testimoni d’eccezione, Fabbri. ISBN 978-88-915-0318-3.
Nel 2015 Nives pubblica Non ti farò aspettare. Tre volte sul Kangchendzonga, la storia di noi due raccontata da me, Rizzoli. ISBN 978-88-170-8034-7.
Nel 2016 Erri De Luca pubblica, Sulla traccia di Nives, un dialogo tra Nives e lo scrittore suo amico, lo scalare le montagne dal punto di vista di una donna che per conquistare le cime non usa ossigeno supplementare né i portatori d’alta quota che spesso si vedono accompagnare gli scalatori.
Nel 2019 Nives Meroi pubblica Il volo del corvo timido. L’Annapurna e una scalata di altri tempi, Rizzoli. ISBN 978-88-171-0891-1
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“L’alpinismo di oggi perde proprio le caratteristiche del gioco come lo intendiamo noi, ovvero esplorazione di se stessi in contesti diversi. Il fatto che l’alpinismo himalayano femminile sia diventato una corsa con come unico obiettivo il risultato mi ha fatto decidere di non giocare più (Nives Meroi)”.
Il girotondo degli Dei
(icone di un’invernale)
di Nives Meroi
La sera prima di partire
Finalmente si parte: domani 28 gennaio 2001, con un mese di ritardo sul programma.
L’idea era bella: festeggiare con un Capodanno particolare una “salita” particolare, la prima invernale alla “Cengia degli Dei”.
Poi come sempre, i soliti contrattempi: malanni di stagione… problemi di lavoro…
Ma domani si parte: sveglia alle cinque, per risalire il lungo vallone che porta alla forcella di Riofreddo, punto di inizio del “girotondo” che in tre giorni sempre lì, speriamo, si concluderà.
Circa sette chilometri da percorrere in orizzontale, seguendo la serie di cenge che intorno ai 2.200 metri di quota, gira tutt’intorno la parete dello Jôf Fuart, fino a raggiungere quella della Riofreddo, passando per l’Innominata e le Madri dei Camosci.
Tecnicamente facile, secondo i criteri d’oggi: al massimo 4°grado; ma le sue caratteristiche sono altre: la difficoltà di orientamento, la roccia friabile proprio nei tratti impegnativi, l’impossibilità, a parte qualche passaggio, di procedere in cordata. Certo, non i gradi che caratterizzano gli exploit dei giorni nostri, né la ricerca dell’estremo; solo il fascino romantico di un’avventura diversa dal solito: orizzontale circolare.
L’anello di cenge
“M’è venuto varie volte il pensiero che si potrebbe combinare un anello di cenge intorno a tutta quell’immensa isola di roccia formata dallo Jôf Fuart, coi baluardi della Cima de lis Codis e l’intera catena delle Madri dei Camosci. La cengia delle cenge: la Cengia degli Dei. L’idea è forse fantastica, ma la realizzazione sarebbe grandiosa… ”.
Nata dal sogno romantico di Julius Kugy, che così scriveva nei primi anni del ‘900, trovò la realizzazione ad opera di Emilio Comici, che nel 1930 insieme a Mario Cesca, ne effettuò il primo giro completo.
“… se Kugy ha dato il nome e l’idea, a Comici è dovuta l’attuazione di un sogno (dove) solo alla sua valentia e decisione di alpinista è stato possibile forzare passaggi dove questi mancavano… ”. Un alpinismo diverso, intriso dei concetti di superuomo e volontà di potenza propri dell’epoca. Ma Comici semplicemente alpinista, che pur con un approccio diverso si avvicina a questo sogno, attratto anch’egli dal fascino mistico di queste “Vie Eterne”, tracciate dalla natura perché gli dei vi possano camminare.
L’odore del freddo
“E’ da tirare la blu!”. E’ questo il momento della doppia che meno “prediligo”; c’è sempre quell’attimo col fiato sospeso, quel diavoletto che potrebbe metterci la coda e incastrare la corda da qualche parte.
… Silenzio… ”Non viene!”. Riproviamo tutti insieme… Il timore si materializza in un ostinato allungamento. Niente da fare… A questo punto altro silenzio: quello degli abissi insondabili. Evitiamo di guardarci in faccia, aspettando che qualcun altro si decida e inizi a risalire la corda per andare a sbloccarla.
Dopo poche centinaia di metri sulla Riofreddo abbiamo già sbagliato cengia e siamo dovuti scendere per riprendere quella giusta. Ci si può perdere su una via di 800 metri, figurarsi qui, lungo questo sistema di cenge, a volte ampie e ghiaiose, ma più spesso strette ed esposte, altre volte si interrompono e allora le devi cercare, e salire o scendere per riprenderne la traccia.
Aggiungiamoci poi la neve, che d’inverno ovviamente ricopre le cenge; è un problema visivo, prima che materiale; un bianco spiazzante che confonde le certezze stampate sulle pagine della relazione.
Stop – pausa. Si cambia metodo: presi i principali punti di riferimento è meglio credere all’intuito e “guardare con gli occhi” di Kugy, e di Comici, e dei camosci, che per primi ne percorsero alcuni tratti.
La doppia incastrata, la ricerca della via, ci hanno completamente assorbito per l’intera mattinata; di colpo mi rendo conto che abbiamo girato l’angolo della Riofreddo e siamo ora sul versante nord. E’ una consapevolezza che nasce improvvisa, che nasce da dentro; non è un’analisi oggettiva: non perché il sole non ci illumina più, né per il colore diverso della luce, o per le dita gelate, è per l’odore del freddo.

La telefonata
Le cinque del pomeriggio; oltrepassata la Gola Nord-est, cerchiamo un posto per bivaccare e ci fermiamo.
Un piccolo slargo della cengia è sufficiente; riponiamo il materiale assicurandolo alla parete, e ci prepariamo per la notte.
L’atmosfera è quasi astratta; dimenticati i passaggi, le doppie, gli avvenimenti di oggi, ancora lontani quelli di domani; questo è il momento vuoto della giornata, quando il tempo non tende più a niente.
Strana quest’avventura: camminare e arrampicare lungo un anello di cenge; quelle che generalmente guardiamo come possibili vie di fuga o assaporiamo come piacevoli interruzioni alla tensione della salita.
In genere il viaggio è in verticale; è salire fino a una cima che possiamo conquistare, violare, o anche rifiutare, ma che già sappiamo, perderà di significato non appena raggiunta, condannando l’alpinista, moderno Sisifo, a ridiscendere al piano per far risalire il macigno verso una nuova meta.
E qui allora?! Arrampicare seguendo una via che anziché raggiungere una vetta, ci gira intorno con un sistema di cenge. La Via Eterna: un girotondo che non finisce mai. Estrema espressione non dell’assurdità del gioco, ma della nostra necessità di definirlo.
Perché in realtà Sisifo era felice, sapeva che il macigno era soltanto suo. E forse questo basterebbe: accettarlo, per riprendere in mano il proprio destino e far tacere gli idoli.
Improvviso, il trillo del telefonino… ”Ciao… Sì, tutto bene… No no, un bel posto comodo… A domani, allora… Sì, alla stessa ora.”
Di fronte, gli ultimi raggi di sole tingono le cime di toni rossi sempre più cupi; qui, ci avvolge l’azzurro malinconico di un crepuscolo invernale, quasi penombra: quella delicata luce della sera che invita a sognare.
Gli dei devono essere proprio piccoli!
“Fagli un paio di foto!”, mi dice Romano. Luca si sta calando in doppia per raggiungere il traverso friabile ed esposto, che sostituisce il famoso pendolo di Comici, dopo che l’enorme frana del 1979 ha stravolto la fisionomia di questo tratto di parete.
Un posto incredibile. Enormi pilastri ti pendono sopra la testa, sembra quasi che stiano su per magia; e a guardar giù, un salto nel vuoto fino alla base della parete, 400 metri più sotto.
Premo il pulsante – non scatta.
“Furba, eh?!…”. Romano è un po’ acido.
Finito Romano, continua Luca: ”… Potevi almeno togliere la batteria e metterla in tasca…Tocca sempre a me fare foto… Anche in spedizione… ”.
… Uomini! Sempre pronti a sottolineare anche il più piccolo sbaglio… e che fastidio quando si coalizzano… D’istinto potrei ucciderli con uno sguardo. Ma devo stare zitta, hanno ragione loro: ‘sta notte ho dimenticato la macchina nello zaino e col freddo si è scaricata la batteria.
Esauriti i commenti, ci troviamo riuniti sul terrazzino della doppia che riporta alla Cengia.
“Ah! Qui, prima o poi viene giù tutto”. Ammiro questa razionalità maschile che consente loro di mantenersi freddi e distaccati in qualunque situazione; io, spesso in balia delle emozioni, quasi mi rattristo e anche un po’ mi preoccupo, al pensiero che l’incantesimo possa d’improvviso svanire, facendo precipitare giù, un’infinità di metri cubi di roccia.
Proseguiamo lungo le cenge, attraversiamo canali e scavalchiamo speroni fino a girare l’angolo, per affacciarci sul versante della Val Spragna, affascinante e selvaggia.
“Gli dei devono essere proprio piccoli, per riuscire a passare qui!”. Luca è euforico e la sua fantasia galoppa, ma a pensarci bene ha proprio ragione. Non possono essere altissimi, se già noi dobbiamo strisciare carponi trascinando lo zaino.
Il cielo si è fatto minaccioso, la parete è spazzata dalle raffiche di un vento freddo e ostinato che ha portato fin qui un muro grigio di nubi compatte.
Il rito del tè
Riparata da un profondo tetto, la cengia qui è pulita, ricoperta di ghiaia sottile. Sola, una piccola chiazza di neve sembra lì apposta per rifornirci d’acqua.
Sono le 17; ci sistemiamo per un’altra lunga notte invernale.
Con gesti lenti, senza fretta, ciascuno prepara il suo letto: toglie i sassi più grossi e con ampie bracciate sparpaglia la ghiaia per pareggiare il fondo, quindi srotola il materassino e fa una prova – no, il solito spuntone sotto la schiena. Qualche colpo di martello e finalmente è a posto.
Tolti gli scafi, indossiamo il piumino e siamo pronti per la “cena”.
Bisogna preparare un muricciolo di sassi per il vento e una base stabile su cui poggiare il fornello per preparare il tè. L’atmosfera è tranquilla; al caldo infilati nei sacchi a pelo, ritroviamo quel ritmo misurato e pacificante che lo fa quasi sembrare un rito.
Il vento, là fuori, soffia sempre più frenetico; domani, o forse già ‘sta notte inizierà a nevicare.
Andare in montagna d’inverno è sempre un’esperienza impegnativa; il tempo si dilata, tiri che d’estate sali in pochi minuti, possono richiedere ore perché ogni appiglio deve essere ripulito dalla neve, anche il materiale addosso ti rallenta: il vestiario è ingombrante, gli scarponi non ti danno sensibilità, lo zaino è pesante, e poi c’è il freddo, le poche ore di luce, i lunghi bivacchi.
Ma non è una forma estrema di masochismo, è che d’inverno la montagna ha un fascino perfetto e ora, più che mai, ti dà la sensazione, o l’illusione, di farne parte.
Ma quanto manca alla “Mosè”?!
Lo so, è una domanda stupida e a rischio; ma sto solo cercando di prendere tempo e rimandare di qualche minuto, il momento inevitabile e crudele di saltar fuori dal sacco per tuffarci nella bufera di neve.
“Come fai a non saperlo, con tutte le volte che sei venuta da ‘ste parti!”.
Gli uomini ahimè, non concepiscono queste domande “indirette”, dove la risposta non dovrebbe essere espressa in metri, ma in… minuti: “Sì, ancora un attimo, ma poi bisognerà alzarsi”. Ogni domanda deve essere diretta, pertinente ed espressa con proprietà di linguaggio.
Mi è andata male. Dai, pronti, via.
La Forcella Mosè vuol dire la fine delle difficoltà; dall’altra parte, sul versante sud, la cengia si allarga pianeggiante fino alla forcella di Riofreddo, il punto di inizio del nostro “girotondo”.
Ma arrivare fin là è ancora piuttosto lungo e impegnativo. La cengia continua irregolare, a volte si assottiglia friabilissima o si interrompe del tutto per riprendere più sotto, altre volte è larga ma ricoperta da un profondo strato di neve desolatamente inconsistente in cui annaspi, annaspi, fino a quando tocchi la roccia.
A volte succede che la neve semplifichi i passaggi, ma in genere li complica. Cambia consistenza su ogni versante e secondo l’esposizione al vento: prima scricchiola sotto i ramponi, giri l’angolo e ti trovi immerso fino alla vita.
L’attenzione deve essere continua, il singolo passo calcolato; a parte qualche breve tratto, proseguiamo sempre slegati.
Manca poco, gli ultimi duecento metri facili e siamo in forcella.
Sbucare sulla Mosè è come aprire il finestrino della macchina mentre viaggi in autostrada. Raffiche improvvise e violente che ti tolgono il fiato.
Un’occhiata al pendio a sud: non è male, sembra che non ci sia rischio di valanghe.
E allora, via di corsa: in un paio d’ore arriviamo alla Riofreddo, riprendiamo gli sci e giù a rotoli fino alla macchina e per finire un altro girotondo… di birre però.

Il cerchio si chiude
Quando Kugy intuì il meraviglioso enigma di queste tetre pareti, ebbe la sensazione di aver rubato alle Alpi Giulie uno dei loro più belli e gelosi segreti. Disse che fu pervaso dai “brividi d’un romanticismo degli abissi che s’impone come favolosa violenza”.
Per noi, figli dell’epoca degli exploit, l’invernale alla Via Eterna è un piacere assolutamente egoistico, quasi un lusso un po’ snob.
Ma da questo presente gratuito riemerge lieve il nostro passato. Il tempo di percorrere le “Vie degli Dei” e non siamo più il romantico alpinista di inizio 900 e il free climber del 2000, ma due epoche insieme.
Campo Base Festival
DAL 2 AL 4 SETTEMBRE 2022
Campo Base esplora i temi del rapporto tra uomo e natura, della cultura della montagna a ogni latitudine, delle attività sportive. il festival propone pratiche di riconnessione con l’ambiente naturale per affermare la centralità della natura nell’esperienza umana. Vogliamo stimolare un pensiero che possa essere valido per il presente e capace di immaginare futuri possibili per coloro che verranno. Campo Base si svolge in Val d’Ossola, un territorio con valli e montagne meravigliose, ricche di cultura e saperi e Tones Teatro Natura è appunto il nostro campo base con il campeggio che ne è il fulcro, con la sua comunità temporanea e il punto di partenza per esplorare il territorio e la cultura locale, fare ecologia sul campo e praticare attività sportive. Pensatori, scienziati e i protagonisti dello sport e dell’esplorazione, sono chiamati al festival per condividere le loro esperienze, aprirci a percorsi di senso, stimolare riflessioni. Le arti e le creazioni degli artisti sono per noi “sismografi” di futuri possibili, oltre che strumenti per sintonizzarci verso nuove percezioni e importanti catalizzatori di energie.
PROGRAMMA VENERDì 2 SETTEMBRE 2022
>19.00 – 20.00 Aperitivo di benvenuto insieme The Outdoor Manifesto e Ci Sarà Un Bel Clima
>20.15 – 20.30 Benvenuto del curatore del festival Alessandro Gogna
>20.30 – 21.15 Luca Mercalli ed Emanuele Coccia riflessioni sui temi dell’ambiente, della cura dei luoghi e dell’abitare
>21.15 – 22.00 Tamara Lunger si racconta riflettendo sui valori della montagna e dello sport
>22.00 – 23.00 Klub Taiga Live
>23.00 – 02.00 Oko Dj
PROGRAMMA SABATO 3 SETTEMBRE 2022
> 09.00 – 12.30 Escursione con Giorgio Vacchiano – Le storie del bosco
> 09.00 – 17.00 Escursione con Franco Michieli – La vocazione di perdersi
> 09.30 – 12.30 Passeggiata con il forager Alessandro Di Tizio – Profumi selvatici buoni da mangiare
> 14.30 – 16.30 Percorso per piccoli e famiglie – Tracce con Pacharama
> 14.30 – 17.30 Esplorare l’ambiente alpino e sé stessi quasi a piedi nudi – Move Freely con Robert Fliri l’inventore per Vibram delle famose scarpe fivefingers
> 15.00 – 16.00 Workshop Ridai vita alla tua tenda – A cura di Ferrino
> 20.00 – 20.45 Federica Mingolla e il suo amore per l’arrampicata
> 20.45 – 21.30 Luca Schiera (Ragni di Lecco) e la sua avventura in Patagonia
> 21.30 – 22.30 Nives Meroi e il grande valore della solidarietà in montagna
> 22.30 – 00.30 Il cinema, la natura, la montagna
> 22.30 – 08.30 Escursione notturna con Matteo Nasini – Corale errante
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LE ATTIVITA’ SPORTIVE DI CAMPO BASE
CON OSSOLA OUTDOOR SCHOOL
sabato 3 settembre 2022
> 09.00 – 12.00 oppure 12.00- 15.00 Parapendio
> 09.00 – 12.30 oppure 13.30 – 18.00 Sentiero attrezzato esposto
> 09.30 – 13.30 oppure 14.00 – 18.00 Canyoning
> 15.00 – 19.00 Arrampicata sportiva in falesia
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PROGRAMMA DOMENICA 4 SETTEMBRE 2022
> 09.00 – 12.30 Escursione Oira e le sue frazioni alte con il Cai Seo di Domodossola
> 09.00 – 12.30 Escursione sonora Superpaesaggio
> 09.00 – 17.00 Camp ragazzi
> 09.30 – 12.30 Dimostrazione con Federica Mingolla – L’arrampicata Trad
> 12.30 – 18.00 Festa di Campo Base – Pranzo e musica con Davide Tomat, Coro Valgrande e Amaro&Rovina
A CAMPO BASE PUOI CAMPEGGIARECON LA TUA TENDA O CON QUELLA COMUNITARIA.
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Nell’ultima foto c’è così tanta storia… Bello avervi seguito fin qui.
Scappalavoglia.
Riportiamo qui le informazioni e le regole per campeggiare al CampoBaseFestival dal 2 al 4 settembre 2022
Accesso
Per accedere all’area campeggio ogni campeggiatore deve avere con sé il proprio pass per il campeggio, collegato a un pass di 3 giorni (biglietto CAMPO BASE 3 GIORNI + CAMPING) o di 2 giorni (biglietto CAMPO BASE 2 GIORNI + CAMPING).
Il partecipante con un biglietto giornaliero non potrà entrare nel campeggio. Il campeggio ha una capacità limitata, una volta esaurita non saranno ammessi campeggiatori extra.
Politica di ingresso
Si prega di presentare il biglietto e un documento d’identità valido all’ingresso del campeggio ogni qualvolta venga richiesto dal personale dell’organizzazione.
Check-in
Il check-in presso il campeggio sarà consentito dalle 15:00 alle 20:00 di venerdì 2 settembre e dalle 10:00 alle 13:00 di sabato 3 settembre.
Check-out
Il check-out dal campeggio dovrà avvenire entro le 20:00 di domenica 4 settembre.
Tende
È possibile, tramite richiesta anticipata, noleggiare una tenda fornita dall’organizzazione. Per info e costi scrivi a info@campobasefestival.it.
il noleggio include esclusivamente la tenda non è incluso il tappetino e il sacco a pelo.
Servizi
all’interno dell’area sono presenti docce da campeggio e un bagno mobile.
si possono inoltre utilizzare i servizi presenti nello spazio di tones teatro natura (a 3 minuti a piedi).
Automobili e scooter
Il campeggio si trova nelle immediate vicinanze di Tones Teatro Natura ad Oira, frazione di Crevoladossola. Se venite in macchina potrete trovare un’area riservata al parcheggio che è la stessa usata dal pubblico del festival.
Rifiuti e rispetto del luogo
Chiediamo a tutti di rispettare il luogo e di aiutarci mantenendo pulita la zona del campeggio. Ciascuno è responsabile dei rifiuti prodotti e di conferirli negli appositi bidoni predisposti nell’area dedicata. Campo Base Festival è attivo nelle politiche di sostenibilità di Tones Teatro Natura. Prendi visione delle linee guida nella sezione sostenibilità.
Cose che non puoi portare
Bottiglie di vetro e contenitori, armi, fuochi d’artificio, sostanze illegali, impianti elettrici o utensili ad alto consumo energetico. Portare bevande alcoliche nell’area del campeggio non è consentito: gli organizzatori si riservano di negare l’ingresso e/o di confiscare liquori.
Sicurezza antincendio
Per motivi di sicurezza antincendio, chiediamo ai campeggiatori di non portare mobili in legno o componenti infiammabili simili come candele, lampade a olio e generatori elettrici a gasolio o altro propellente nell’area del campeggio. È vietato l’uso del fuoco aperto nell’area del campeggio. L’area è dotata di estintori che saranno utilizzati dal personale in caso di emergenza.
Perdita di proprietà e lesioni
Gli organizzatori non si assumono alcuna responsabilità per beni rubati o persi, né sono responsabili per eventuali lesioni o infortuni in loco. Si prega di tenere presente che il festival è circondato da aree ripide e montuose, la prudenza è un obbligo. Tutti i minori di 18 anni devono essere accompagnati da un genitore o tutore legale.
Il campeggio con la propria tenda è gratuito?