Il 13 aprile 2017 GognaBlog pubblicava la curiosa e lunga storia di una via sulla Parete delle Aquile nei Dirupi di Balma Fiorant in valle dell’Orco. Il titolo era: E rimase Incompiuta.
Ora la storia viene ripresa perché, dopo 43 anni, è giunta alla conclusione ad opera della fuoriclasse Federica Mingolla che, nel maggio 2023, l’ha completata prima e percorsa in libera poi, dedicandola all’amico scomparso Adriano Trombetta con il nome: e Ti Vengo a Cercare.
Da Incompiuta a E ti vengo a cercare
(una storia lunga 43 anni)
di Ugo Manera
Se si parla dei Dirupi di Balma Fiorant pochi sanno di cosa si tratta né dove si trovano, se invece nominiamo il “Caporal”, l’universo degli arrampicatori sa benissimo dove collocarlo sia geograficamente che nel contesto storico; ebbene, sono la stessa cosa, solo che il primo è un nome locale che identifica l’insieme di dirupi tra i quali si colloca la parete del Caporal ed il secondo, invece, è l’appellativo alpinistico da me coniato nell’ottobre 1972 sull’onda dell’entusiasmo conseguente alla prima ascensione di quel magnifico scoglio. Balma Fiorant comprende, oltre al Caporal, altri importanti dirupi che successivamente presero nomi altisonanti come: “Parete delle Aquile” e “Parete dei Falchi”.
Non sto a ripetere la storia della scoperta del Caporal, già più volte raccontata, ma mi soffermo un attimo sulle “Aquile”. Come per il più celebre Caporal, anche la denominazione “Parete delle Aquile” fu opera mia quando, con Corradino Rabbi e Claudio Sant’Unione, tracciammo la prima via su quel formidabile dirupo. Sopra di noi, per tutto il giorno, volteggiarono due grandi aquile, avevano il nido in uno stretto camino che noi evitammo per non arrecare loro disturbo. Quando successivamente mi accinsi a stendere la relazione della nuova via la scelta del nome della parete fu praticamente obbligata.
Negli anni che seguirono il 1972, in quell’angolo della Valle dell’Orco, divenuto ormai celebre tra gli arrampicatori, la mia attenzione fu costantemente monopolizzata dall’apertura di nuovi itinerari, spesso in competizione con altri scalatori. Sulla Parete delle Aquile aprimmo tre itinerari di cui almeno uno di grande respiro: la via del Plenilunio; ma non ci bastava, cercavamo altre linee sempre più ardite. Con Isidoro Meneghin individuai una possibilità nella zona più ripida della parete lungo una linea di diedri rossastri tra grandi strapiombi. All’apparenza sembrava veramente un osso duro, per cui ci armammo del miglior materiale tecnico a nostra disposizione ad eccezione del punteruolo perché avevamo scelto di non praticare fori nella roccia, e partimmo per un tentativo, era il 1980.
Carichi di ferraglia, salimmo il disagevole canalone che porta sotto la parete e dopo un passaggio delicato raggiungemmo un terrazzo erboso alla base di un diedro obliquo dall’aspetto ostico che saliva verso gli strapiombi giallo-rossastri. Attaccai io, ma subito mi trovai in difficoltà perché l’accenno di fessura sul fondo era completamente cieco. Dovetti ricorrere a tutta la mia esperienza di chiodatore usando micro lamette di acciaio trattato e prendendomi qualche rischio, ma riuscii a raggiungere la sommità del diedro ove sostai alla base di uno strapiombo rosso scoraggiante. Sullo strapiombo Isidoro si impegnò in una lotta senza quartiere, la roccia per giunta non era salda, mi pare ancora di vederlo appeso sulle staffe nel tentativo di fissare qualche cosa alla roccia, con il casco appeso all’imbragatura (sopportava malvolentieri il casco in testa), lanciando esclamazioni ad ogni metro guadagnato. Piantò delle “rurp” nelle rughe della roccia e si sollevò sui gradini più alti delle staffe, con delicatezza per non far crollare castello e castellano. Qualche scheggia si staccò e rimbalzò vicino a me, poi finalmente riuscì a piazzare un buon chiodo Cassin (che lasciammo a testimonianza del nostro passaggio).
Ancora metri di estrema precarietà su ancoraggi fantasiosi ed aleatori e riuscì a vincere lo strapiombo rosso, trovò un punto ove piazzare la sosta, prese fiato e mi urlò: “Non ho mai fatto artificiale così difficile, credo si possa dare tranquillamente A4”. Lo raggiunsi togliendo il materiale infisso con estrema facilità, poi toccò a me affrontare un tratto altrettanto difficile su ottima roccia seppure pressoché priva di fessure: altri numeri su micro lame di acciaio e invenzioni varie, poi giungemmo sotto una fessura strapiombante sporca di licheni. Percorremmo tutta la fessura dapprima larga poi sempre più sottile fino ad uscire su una placca inclinata e compatta. La parete finiva con questa placca lunga 15 o 20 metri. Non appariva difficile, ma era totalmente priva di fessure, nessuna possibilità di fissare ancoraggi senza praticare fori nella roccia. Ricorremmo a tutte le nostre risorse, ma non ci fu nulla da fare, senza i chiodi a pressione non si passava e noi, volutamente, li avevamo da tempo esclusi. Dopo vari inutili tentativi ci dichiarammo sconfitti e ripercorremmo a doppie in discesa la nostra via che per pochi metri rimase “incompiuta”.
Passarono gli anni, ma il ricordo di quella lotta con la Parete delle Aquile rimase in me ed ogni tanto raccontavo delle nostre fatiche a qualche amico. Nel 1998 accompagnai Maurizio Oviglia a rivisitare alcune pareti in preparazione di Rock Paradise, la raccolta di ascensioni scelte nel Gran Paradiso. Lo convinsi ad una puntata alla Parete delle Aquile per vedere se la via Incompiuta poteva essere trasformata in una via di arrampicata libera di elevata difficoltà. Dopo tanta fatica a causa dei sacchi pesanti e, alla base della parete, l’emozione di aver posato gli stessi su due vipere, ci rendemmo conto che tale itinerario non si prestava all’arrampicata libera seppure estrema, ritenemmo poco saggio perciò usare il trapano e piazzare dei fix dove si doveva poi comunque salire in artificiale; meglio perciò lasciare la via così, allo stato originale, per chi volesse cimentarsi ancora con l’artificiale estremo di una volta. Abbandonammo l’Incompiuta al suo destino ci rivolgemmo ad altri progetti.
Passarono oltre 20 anni e nel 2004 mi ritrovai in numerosa compagnia sulle rocce del Caporal per girare le riprese del documentario Cannabis Rock. Il gruppo era composto dal sottoscritto e da Piero Pessa in veste di attori, e da cineoperatori assistiti da due guide: Enzo Luzi ed Adriano Trombetta. Le riprese furono effettuate sulla via del Sole Nascente, per due giorni lavorammo con il bel tempo ed in grande allegria; al termine delle riprese, in cima al Caporal, sostammo ad ammirare e commentare le pareti che ci circondavano. La Parete delle Aquile spiccava proprio di fronte con le sue strutture evidenziate dalle ombre pomeridiane, raccontai ad Adriano delle vie che vi avevo aperto soffermandomi sulla storia dell’“incompiuta” e manifestando il mio rammarico per non averla completata. Gli indicai dove passava la via, poi scendemmo a valle.
Passò l’estate ed un giorno, diretto ad arrampicare a Freissinières nel Briançonnais, passando sotto le pareti, mi sentii chiamare, alzai gli occhi e scorsi Adriano Trombetta appeso sotto un grande strapiombo mentre provava un tiro di elevata difficoltà; mi urlò che era andato a provare la via Incompiuta alla Parete delle Aquile, ma non era riuscito a passare. Molto incuriosito attesi il suo ritorno a terra e mi feci raccontare del suo tentativo. Conquistato dal mio racconto sulla cima del Caporal, era andato a provare la nostra via con un amico.
Aveva superato la prima lunghezza di corda in arrampicata libera dove io ero salito in artificiale, si era preso qualche rischio perché non riuscendo ad infiggere chiodi, era partito in libera sulla placca allontanandosi dal fondo del diedro e per almeno dieci metri non era riuscito a piazzare protezioni. Alla seconda lunghezza di corda però erano stati respinti. Adriano non era riuscito a raggiungere il vecchio chiodo Cassin da noi lasciato 24 anni prima e che rappresentava l’unico ancoraggio sicuro che Isidoro era riuscito a piazzare in quella lunghezza. Trombetta era ridisceso e, deciso a ripetere il tentativo con materiale più sofisticato, aveva lasciato una corda fissa sulla prima lunghezza di corda.
Tra Adriano e me c’erano 40 anni di differenza e sentire raccontare da lui, talento emergente dell’alpinismo torinese, di uno scacco subito su una mia via, fece balenare in me un lampo di orgoglio e mi vidi proiettato all’indietro a battagliare con Isidoro su quelle rocce. D’istinto proposi al giovane amico di andare a ripetere il tentativo insieme, precisando però che il mio ruolo sarebbe stato quello di “spalla”, non essendo ormai più in grado di fare il protagonista su quelle difficoltà.
Detto fatto, qualche giorno dopo salivamo carichi di pesanti sacchi di fianco al Caporal, nel canalone che porta alla Parete delle Aquile. Quante volte avevo salito quella pietraia tanti anni prima; sempre con qualche progetto nuovo in testa, verso avventure che mentre salivo lentamente mi ritornavano in mente nei minimi particolari. Ricordi avvolti in un sottile velo di nostalgia.

Giungemmo alla base della parete nel punto che io ben ricordavo, la corda lasciata da Adriano penzolava lungo il diedro della prima lunghezza e noi la risalimmo con gli autobloccanti; Adriano si sistemò in dosso il materiale da scalata e si avviò verso il passo che lo aveva respinto. La roccia in quel tratto, oltre ad essere strapiombante e priva di fessure, è anche friabile, il mio giovane amico ne staccò dei pezzi mentre cercava di fissare qualche cosa per progredire; io attento ad arrestare eventuali cadute per la possibile fuoriuscita di ancoraggi precari, osservavo anche i materiali che impiegava: i “cliff” e le “rurp” li usavo anch’io ai miei tempi, le ancorette invece non le avevo mai impiegate; ciò che notavo di molto diverso erano le staffe: io usavo staffe con tre gradini, raramente quattro, e cercavo di salire quasi sempre anche sul primo gradino; ora vedevo che le staffe moderne hanno molti gradini, questi sono ravvicinati ed Adriano evitava di salire su quelli più in alto. Oggi nell’artificiale moderno si usano spesso ancoraggi più aleatori che ai nostri tempi, per cui le sollecitazioni debbono essere più soft, cosa non garantita dalla nostra tecnica molto più rude. Il tempo scorreva, il mio compagno saliva lento ed ogni tanto invece di Adriano mi sembrava di rivedere Isidoro con il suo casco appeso alla cintura ad imprecare perché la roccia lo respingeva.
Adriano superò il punto che lo aveva fermato nel suo primo tentativo, raggiunse il nostro vecchio chiodo ancora saldo, e sempre costretto al massimo dell’impegno, riuscì ad ultimare la difficile lunghezza. Io lo raggiunsi passando con difficoltà da un ancoraggio all’altro e ricuperando tutto il materiale tranne il nostro vecchio chiodo.
Un tratto poco difficile ci consentì di raggiungere lo strapiombo che difende l’accesso alla fessura finale; due vaghi diedri privi di fessure lo solcano, qui la roccia è perfetta, mancano solo le fessure, mi ricordavo che in questo tratto mi ero dovuto impegnare al massimo per riuscire a salire. Anche Adriano faticò molto per infiggere qualche cosa in quelle rughe superficiali, ma comunque salì e raggiunse la base della fessura finale. Giunto anch’io in sosta, costatammo che il tempo era volato ed era ormai tardi; decidemmo di ripiegare lasciando delle corde fisse per poi ritornare a completare l’opera. Avevamo con noi il trapano per la placca che ci aveva fermato nel 1980, per cui attrezzammo le soste con fix, vi fissammo le corde che dovevano rimanere in parete e ritornammo alla base.
Le cose, però, non andarono secondo le nostre intenzioni: Adriano si infortunò ad un ginocchio, subì un intervento che lo costrinse ad un periodo di inattività, così non ritornammo più. Sulla Parete delle Aquile rimasero le nostre corde ormai inutilizzabili e la via continuò ad essere incompiuta. Non mi sentivo neanche troppo dispiaciuto per questa conclusione, in fondo avevo rivissuto una vecchia avventura in chiave moderna ed il punto interrogativo restava ancora lì; forse qualcuno troverà la voglia di andare a cancellarlo.
Recentemente la storia dell’Incompiuta si è arricchita di un nuovo capitolo. Due giovani istruttori della scuola Gervasutti, molto bravi, Fabio Ventre e Mirko Vigorita, hanno effettuato un nuovo tentativo nel 2020. Ci sono ancora appese le nostre corde deteriorate e inutilizzabili. Anche questo recente tentativo è andato fallito, sono stati respinti dal secondo tiro di artif. Mi auguro che abbiano ancora voglia di ritentare perché il problema diventa sempre più intrigante.
Nella primavera 2023 ricevo una telefonata da Federica Mingolla, talento assoluto dell’alpinismo moderno, mi comunica di aver completato la via Incompiuta alla Parete delle Aquile e mi chiede se non sono contrario al piazzare qualche “spit” perché vuole salirla in arrampicata libera. Rispondo che non ho nulla in contrario, ma che sono pronto a fare il tifo per la buona riuscita del tentativo.
Federica era legata da grande amicizia e da un debito di riconoscenza nei confronti di Adriano Trombetta. Era stato infatti Adriano a seguirla ed a motivarla nel passaggio dalle gare di arrampicata all’alpinismo delle altissime difficoltà. Completare l’opera di Trombetta sull’Incompiuta alla Parete delle Aquile le sembra un doveroso omaggio nei confronti dell’amico scomparso e di Isidoro Meneghin, anch’egli caduto in montagna tanti anni prima.
Federica conclude la via, ma l’impresa per lei non è ultimata, vuole salirla in “libera”. Ritorna in parete per pulire e superare i singoli passaggi, poi il 4 maggio 2023, con Matteo Sella, la sale in libera e in continuità. Ne è pienamente soddisfatta ed ha già in mente un nome per la nuova versione della via: E Ti Vengo a Cercare, è il titolo di una bella canzone di Franco Battiato. E’ andata, infatti, su quelle rocce anche per cercare ancora un contatto con il suo grande amico scomparso.
Federica Mingolla
Federica Mingolla è torinese, nata il 6 novembre 1994. Fin da bambina si dedica allo sport e per 10 anni pratica il nuoto. A 15 anni inizia con l’arrampicata sportiva indoor e molto presto si dedica alle gare. E’ straordinariamente dotata e animata da determinazione e grande volontà, presto comincia a mietere successi. Nell’ambiente delle gare nascono amicizie e conosce persone che l’aiutano ad accrescere la sua già eccezionale determinazione e voglia di migliorarsi.
Il mondo delle gare non soddisfa, però, il desiderio di scoperta che è innato in Federica, pur girando il mondo per le gare le sue conoscenze non si spingono molto oltre l’ambiente delle palestre e dei muri di arrampicata. Matura un grande desiderio di trovarsi in ambienti naturali di montagna a di svolgere attività a contatto della natura. Il mondo dell’arrampicata sportiva indoor è troppo limitativo per lei.
L’occasione si presenta nel 2014 con un “viaggio esplorativo” di arrampicata organizzato da Marzio Nardi ed Adriano Trombetta per atleti di punta dell’arrampicata sportiva. Il luogo prescelto è la Valle dell’Orco e Federica rimane affascinata da questo luogo. In quella valle, celebre per le vie di molti tiri, Adriano la conduce a provare un “monotiro” da lui stesso attrezzato: Legittima Visione al Dado. E’ però un monotiro straordinario, salito in libera una volta sola dal fuoriclasse Sean Villanueva.
Federica rimane affascinata dalla Valle dell’Orco e vi ritornerà numerose volte ponendosi sempre degli obiettivi di livello molto elevato.
Tra Federica ed Adriano nasce un rapporto di amicizia particolare, Adriano è una persona visionaria, diventa la stella polare che indica a Federica la via da seguire per realizzarsi e scoprire quali sono i suoi effettivi desideri. Le fa capire cosa vuole fare nella vita (almeno quella parte di vita che intende dedicare all’alpinismo).
Insegna alla ragazza il corretto uso delle protezioni veloci e, da persona visionaria, la guida alla realizzazione di quelle “visioni” che non sono alla sua portata. La convince che se non trova più un completo appagamento nelle gare di arrampicata non deve farle più. Non ci sono problemi, non deve fare ciò che non le piace più.

Negli anni a seguire l’attività di Federica sulle pareti decolla, Dalla Valle dell’Orco alle Dolomiti, dal Monte Bianco alle montagne del Pakistan. Le sue realizzazioni sono ormai numerosissime malgrado la giovane età e sono noti a tutti gli scalatori appassionati; tra i molti exploit: La via Attraverso il Pesce in libera in Marmolada (2014), La via della Cattedrale, sempre sulla Marmolada (2017), Chimera Verticale in Civetta (2017), Bella Vista sulla parete nord della Cima Ovest di Lavaredo (2022), Incroyable sul Pilastro Rosso del Brouillard, Monte Bianco, Il Giovane Guerriero sulla parete est delle Grandes Jorasses, Manitua sulla parete nord delle Grandes Jorasses.
Federica ha portato l’alpinismo torinese ad un livello che non era più stato raggiunto dai tempi di Marco Bernardi all’inizio degli anni ’80. La sua filosofia di scalata è la più moderna: le scalate sono completamente realizzate quando il percorso viene effettuato in “libera” e l’impiego del trapano è lecito solo quando diventa impossibile il collocare protezioni veloci.
Federica è avviata alla professione di guida alpina, professione che certamente le ruberà una parte del tempo dedicato alla scalata estrema, ma che, se affrontata con passione, è prodiga di soddisfazioni. Certamente gli impegni professionali non freneranno la sua attività ad alto livello, magari proiettata in futuro verso le montagne lontane.
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La scelta di avere una staffa con tanti gradini, più ravvicinati, secondo me, permette una progressione tra un gradino e l’altro meno scomposta, più fluida e delicata, sollecitando meno l’ancoraggio dove è attaccata la staffa. Questo sopratutto con ancoraggi precari, ad esempio ganci, piombi. Ancora meglio sarebbe usare le staffe a coppia, (4 staffe a testa) cioè una doppia staffa per ogni ancoraggio. Parto con un piede sul gradino di una staffa, poi metto l’altro piede sul gradino superiore non di questa staffa, ma su quello più alto dell’altra staffa, e via così, avvicinandomi all’ancoraggio. Questo permette una progressione tra un gradino e l’altro , ancora meno scomposta, sollecitando meno l’ancoraggio.
Non vorrei fare il professorino pignolo:
ma il 1° gradino è quello più in basso, dove metti il 1° piede, il 4° gradino è quello più vicino al moschettone.
Io avevo fatto un barcaiolo sul moschettone, per poter avere il 4° gradino un poco più alto .
Con la speranza di una risposta, faccio una domada tecnica ad Ugo Manera. Perchè preferivi le staffe a 3 gradini invece che 4?
Io le ho sempre usate a 4 gradini (metallici) e autocostruite. Adesso, come Adriano, anche io ce le ho in fettuccia con molti gradini.
Gran posto chi lo conosce sa che è per palati fini. Manera é stato per lungo tempo un attore di primo piano nel panorama alpinistico occidentale e personalmente, al netto di un “Io” molto pronunciatio provo grande piacere nel leggerlo.
Sempre densi, i racconti di Ugo Manera.
Più che un viaggio esplorativo “un viaggio nel tempo”. Giusto epilogo ad una storia d’ arrampicata ed intuizione su una parete estrema che attendeva da 40 anni una soluzione senza forzature
Ma va , gia la via che diventa ” e Ti vengo a cercare……!!
Notevole la fuga dei pronomi personali dalla letteratura alpinistica.
L’io rimasto si guarda attorno e si mette comodo.