L’intervista immaginaria

L’intervista immaginaria
di Giovanni Widmann

Buonasera a tutti e grazie per la vostra partecipazione a questa serata. Oggi ospitiamo alcuni tra i più grandi e famosi alpinisti delle ultime generazioni. Chiederemo loro di dirci qual è il significato più profondo della loro attività, quali motivazioni li hanno spinti ad intraprendere le loro imprese e in che senso, se è vero che l’alpinismo è anche una scuola di vita e non soltanto uno sport come altri, la sua pratica li ha cambiati – migliorati? – come uomini.

Intervistatore
Si dice spesso che la montagna è maestra di vita, che tempra il carattere e insegna doti quali il coraggio, la tenacia, la resistenza. Con ciò l’alpinista dovrebbe essere una persona fuori dal comune, speciale, dotata di virtù particolari? Condividete l’opinione tradizionale secondo cui l’alpinismo non può essere ridotto a una pratica soltanto sportiva al pari di altre e le montagne non possono essere concepite unicamente come “terreno di gioco” (“playground”), secondo la famosa espressione di Leslie Stephen? Quanto invece conta l’approccio esplorativo, non soltanto rivolto verso l’ambiente esterno ma anche introspettivo, verso il proprio Sé, un “alpinismo di ricerca” secondo la definizione di Alessandro Gogna?

Nima Rinji Sherpa (qui in vetta all’Annapurna) è il più giovane alpinista ad aver scalato tutti gli Ottomila. Con il suo curriculum, il diciottenne nepalese vuole dare il buon esempio. Foto: AFP.

Marco Confortola
«Ho individuato alcune costanti che ho ritrovato in tutte le montagne che ho salito, “lezioni” e “storie” che possono essere applicate o rappresentare fonti di ispirazione in qualsiasi momento della vita. Perché in fondo salire una montagna è anche questo: una metafora perfetta dell’esistenza. Delle difficoltà, delle rinunce e dei sacrifici che comporta. Delle strategie, della forza d’animo e della passione che richiede. E della soddisfazione che regala dopo una grande fatica».

Hervé Barmasse
«Forse il senso della vita è proprio il percorso attraverso cui esploriamo noi stessi, il mondo, incontriamo la natura e gli altri esseri. Un percorso in cui non sono ammessi errori e ripensamenti. Dopotutto smettere di sbagliare, di imparare, di cambiare significherebbe non vivere, trascinarsi verso la fine senza un fine. Uno stallo pericoloso che non permette nessun processo di crescita».

Intervistatore
L’alpinista, praticando la sua attività in ambienti estremi, è continuamente esposto a rischi e pericoli di vario genere e mette a repentaglio la propria vita. Ha senso questo? In fondo la sua attività, che consiste nella conquista di una cima, è di per sé “inutile”, secondo la celebre e provocatoria espressione di Lionel Terray. Cosa significa misurarsi coi propri limiti?

Barmasse
«Non abbiamo più il raggio di scelta dei pionieri e non l’avremo mai più. D’ora in poi per sentire il profumo di avventura saremo sempre più obbligati a togliere per avere. Meno tecnologia, meno aiuti dall’esterno, più isolamento. L’esatto contrario di ciò che siamo e che l’abate Gorret sapeva che saremmo diventati: “I figli vuoti del troppo pieno”».

Reinhold Messner
«L’arte del grande avventuriero è quella di sopravvivere. Il più grande non è quello che si abbandona, una, due o tre volte all’azzardo e poi ci rimette inevitabilmente la pelle, ma chi sa andare ai limiti estremi e sopravvivere. Sotto questo aspetto, saper rinunciare non significa soltanto poter continuare a vivere per qualche anno, significa anche provvedersi di istinti più sicuri quando è in gioco la sopravvivenza. E questo rende liberi per altre, più sensate cose, per nuovi inizi. Il rischio è bensì una condizione fondamentale dell’avventura, ma non l’obiettivo. Senza il rischio l’avventura è inimmaginabile. Ma il problema non è quello di soggiacere al pericolo. L’imperativo è: farcela! La saggezza consiste soprattutto nel conoscere e nel rispettare, più che le potenzialità, i limiti umani. E si diventa consapevoli di questi limiti soprattutto in occasione dei fallimenti. È come un volare a ritroso. Che rende umani. Essere saggi non significa però essere passivi. Solo chi non osa mai nulla non commette errori».

Barmasse
«Gli errori si pagano a caro prezzo. Su un diario sgualcito, il primo maggio del 2001 appunto tre regole: 1. Non sopravvalutare mai le tue capacità. 2. Non sottovalutare i pericoli. 3. Se decidi d’infrangere volontariamente queste due regole sei responsabile delle tue azioni e ne pagherai le conseguenze. E poi aggiungo una nota, un promemoria scritto a matita e in stampatello: impara ad ascoltare!».

Intervistatore
Quanto conta nell’alpinismo estremo la tecnica e quanto le doti personali, siano esse fisiche e psicologiche? Immagino che anche l’esperienza e la cultura della montagna siano determinanti. Massimo Mila sosteneva che l’alpinismo è conoscenza in quanto unisce pensiero e azione:

Messner
«L’esperienza si accresce in noi proprio quando falliamo. La ripetuta constatazione di avere dei limiti, soprattutto di fronte alle forze della natura, è importante. Le esperienze ai limiti estremi non sarebbero possibili se non fossi limitato. Limitato nelle mie energie, limitato nelle forze, limitato nel coraggio, limitato anche nell’esperienza».

Barmasse
«“Ma soprattutto devi usare la testa”, diceva mio padre toccandosi le tempie. Poi aggiungeva: “È esattamente come quando scali in montagna: è la testa che fa la differenza. Novantanove per cento testa, uno per cento tecnica».

Simone Moro
«Non arrivare in cima non è un fallimento, ma semplicemente il rinvio del successo. La capacità di trasformare lo sbaglio nell’ingrediente che ti può far vincere implica accettare l’errore non come un fallimento esistenziale, ma come una fase di passaggio».

Intervistatore
Il mondo dell’alpinismo non sempre ha dato prova di possedere quelle virtù morali così spesso declamate formalmente, e talora retoricamente – carattere, passione, sacrificio, lealtà, disinteresse, purezza, ecc. – quando invece dietro i grandi exploit troviamo storie di invidie, gelosie, rivalità, competizione esasperata in vista dell’affermazione personale, sete di successo e di celebrità, narcisismo… A questo proposito, fin dalla sua nascita l’alpinismo è connotato da polemiche e controversie. Paccard contro Bourrit e Balmat per il primato della prima ascensione sul Monte Bianco (1786); il caso Bonatti nella conquista italiana del K2 del 1954; la messa in discussione della conquista del Cerro Torre da parte di Maestri e Egger nel 1959; la pluridecennale polemica sulla responsabilità di Reinhold Messner nella tragica morte del fratello Günther sul versante Diamir del Nanga Parbat nel 1970, e gli esempi potrebbero continuare. Trovo interessante la posizione di quegli scalatori che nel tempo hanno condotto un’opera di desacralizzazione e demitizzazione dell’alpinismo, spazzando via molte incrostazioni ideologiche e venature retoriche che hanno impedito una reale comprensione del fenomeno e hanno prestato il destro a strumentalizzazioni e mistificazioni, come la presunta e naturale vocazione alla trascendenza dell’alpinista, per cui l’ascesa sarebbe una forma di ascesi e di catarsi e la vetta simboleggerebbe il numinoso. Mi viene in mente quanto scrisse Lionel Terray circa lo stato d’animo che aveva provato dopo la conquista dell’Eigerwand, sfatando l’idea che di fronte ad eventi di portata eccezionale debbano corrispondere sentimenti e emozioni altrettanto straordinari: «Ma tutto ha una fine, anche queste rocce marce, seguite da un pendio di neve; la vetta è di sicuro vicinissima. Ma la fatica pesa sulle nostre membra; così, malgrado il desiderio di far presto, avanziamo lenti. Improvvisamente usciamo sulla cresta di Mittellegi che la nebbia ci teneva nascosta. Adesso è proprio vero, abbiamo vinto l’Eigerwand. Nessuna emozione violenta mi prende, né l’orgoglio di aver realizzato l’invidiabile impresa, né la gioia di aver nel sacco una vittoria difficile. Su questa cresta sperduta nella nebbia non sono che una bestia stanca e affamata. Provo solamente la soddisfazione animale di sentire che ho “salvato la pelle”».

Moro
«I sogni senza dubbio riflettono parte della propria anima e trovo che sia grandioso quando riescono a essere educativi e fonte di ispirazione. Ma per potersi concretizzare non possono restare desideri nebulosi. Devi decidere di farne un determinato uso, altrimenti finiscono per restare vagheggiamenti senza capo né coda che rimarranno per sempre chiusi nel cassetto. Invece bisogna dargli una struttura. Devi lavorare sul “tuo brand” e allocare il tuo prodotto: devi venderlo. Quando uso questi termini vedo tanti sognatori storcere il naso. Ma è così».

Marianna Zanatta [collaboratrice di Simone Moro]
«Simone fin dagli inizi ha avuto chiaro che spettava a lui il compito di vendere se stesso, la sua storia, il suo sogno, e farsi comprare, se voleva vivere di quello!».

Bernard Amy
«Da noi si dice: l’ultimo stadio dell’attività è l’inattività… Le narrerò come finì la storia di uno scalatore di nome Chi Ch’ang: gli abitanti della provincia accolsero Chi Ch’ang proclamandolo il miglior alpinista del paese. E attesero con impazienza le sue imprese, a conferma della sua maestria. Ma Chi Ch’ang non fece nulla per soddisfare la loro attesa. Non aveva neppure riportato a casa le pedule che aveva con sé nove anni prima, quando affermava che sarebbero state gli attrezzi per la sua gloria. E a chi lo sollecitava a una spedizione, rispondeva con tono annoiato: “L’ultimo stadio della parola è il silenzio. L’ultimo stadio dell’arrampicatore è il non arrampicare”. Si racconta che poco prima di morire, andò a trovare un amico nella sua ricca dimora. Nel momento in cui varcava la soglia, indicando il portale fatto di blocchi di pietra squadrati, chiese al suo amico: “Dimmi, ti prego, di che materiale è fatto l’ingresso, che roba è?” E poi, vedendo gli scarponi del suo ospite nel corridoio: “Che strane scarpe! A che cosa servono?” L’amico, stupefatto, capì che Chi Ch’ang non stava scherzando. Si volse verso il Maestro e con voce tremante non poté dirgli che: “Devi essere davvero il più grande Maestro di tutti i tempi per aver dimenticato che cosa è la pietra e quali sono gli armesi per la scalata!”. Ecco la storia di Chi Ch’ang, che voleva essere il miglior arrampicatore del mondo. Mi lasci aggiungere questo: gli alpinisti delle vostre montagne hanno spesso tentato di definire la scalata. Hanno parlato di sport, di droga, di evasione, di fuga, di religione, di filosofia, di etica o di morale. Alcuni, quelli che hanno capito qualcosa di più, hanno rievocato un’arte di vita. La verità è un po’ in ciascuna di queste parole, un po’ al di fuori di esse… Ponetele su di una circonferenza: l’alpinista deve allora esserne al centro. Sta ad ognuno di mettervele. O meglio, sta ad ognuno di mettervi il proprio alpinismo… Sì, ogni arrampicatore, lui solo, deve mirare al centro…»

Intervistatore
Molto istruttivo questo apologo. Credo che la saggezza orientale possa illuminare molto più della cultura occidentale intorno alle ragioni profonde dell’andare in montagna. Gentili signori, a questo punto permettetemi di fare una considerazione personale. L’individualismo che caratterizza l’uomo occidentale ha influenzato anche le motivazioni di quella parte non proprio trascurabile della società che ha scelto la montagna come teatro dei suoi interessi e della sua affermazione, anche quando è declinata nei termini di una fuga dai ritmi ossessivi delle realtà urbane in cerca benessere, di autenticità e di libertà. Ma così la montagna rischia di non essere veramente compresa. Si affermano le proprie ragioni e si trascura la ragione della montagna. Già, perché in fondo, come avvertiva Eugenio Montale, «la più vera ragione è di chi tace». Ringrazio i miei ospiti e il pubblico per la partecipazione e vi lascio con queste riflessioni della filosofa Caterina Resta: «Il peso si avverte solo quando si vuol trattenere: allora davvero ne siamo schiacciati. Ma per chi apprende l’inesorabile legge del passare, del lasciar-andare più lieve si offre la terra al suo passo che l’asseconda, legge dell’incessante mutamento che anima il tutto». Grazie ancora e arrivederci.

Fonti
Bernard Amy, Il più grande arrampicatore del mondo e altri racconti, CDA, Torino, 1987
Hervé Barmasse, La montagna dentro, Laterza, Bari-Roma, 2015
Marco Confortola, Le lezioni della montagna, Sperling Kupfer, Milano, 2021
Reinhold Messner, Spostare le montagne, Rizzoli, Milano, 2021
Simone Moro, Devo perché posso, Bur, Milano, 2020
Caterina Resta, Il peso, la leggerezza e la danza del mondo, in Filosofia del peso, estetica della leggerezza, (a cura di Grazia Marchianò), Rubbettino, 1997
Lionel Terray, I conquistatori dell’inutile. Dalle Alpi all’Annapurna, Hoepli, Milano, 2024

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L’intervista immaginaria ultima modifica: 2025-03-10T05:30:00+01:00 da GognaBlog

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3 pensieri su “L’intervista immaginaria”

  1. L’intervistatore, scegliendo domande, interlocutori e risposte, se l’è cantata e suonata. Buon per lui. Ma se spera che questa manifestazione di mitomania abbia consenso, secondo me si sbaglia.
     
    D’altronde un vecchio amico ha scritto un libro in cui dialoga allo stesso modo con personaggi del calibro di Hemmingway, Sinatra e attrici bellissime sdraiate al sole, ma si tratta di storie immaginate che hanno del grottesco.
    Ma finché uno non fa male a nessuno…

  2. Curiosa operazione dove, come talvolta accade, l’intervistatore – che vuole dimostrare di saperne almeno quanto l’intervistato- formula domande lunghissime che non orientano ad una risposta chiarificatrice del punto di vista che dovrebbe interessare, quello appunto dell’intervistato .
    Poteva essere una interessante silloge di punti di vista su alcuni temi, ma è risultata una operazione di macelleria di citazioni.

  3. Nella bibliografia puoi aggiungere il libro di Erri De Luca, E disse, Milano, Feltrinelli, 2011 e il libro di Vito Mancuso e Nives Meroi, Sinai. La montagna sacra raccontata da due testimoni d’eccezione, Fotografie di Romano Benet, Milano, Fabbri, 2014. Due viandanti che non hanno bisogno di grandi imprese eroiche o sportive per scoprire le ragioni spirituali dell’alpinismo: basta salire sul monte Sinai a soli 2285 metri.

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