Dagli al “caiano”

Dagli al “caiano”
(pubblicato su Lo Zaino n. 18 e su lozaino.it)

E’ fuori di dubbio che in questi due ultimi decenni la considerazione che i giovani hanno del Club Alpino Italiano sia assai diminuita rispetto al secolo scorso, nel migliore dei casi rarefatta in un indifferente distacco. Ciò a dispetto dell’accresciuto numero dei soci, giusto vanto del Sodalizio. Sarebbe però interessante avere una statistica sull’età media del socio del CAI: io credo che si scoprirebbe che è aumentata di parecchio.

Si è cominciato con le critiche  per nulla velate che apparivano sui forum più in vista: è lì che è stato affibbiato, con evidente significato dispregiativo, il nomignolo di “caiano” a quel socio CAI che acriticamente segue le direttive e soprattutto le vetuste mode di un attempato modo di intendere associazionismo e modo di andare in montagna. Se ci si prende la briga di visitare un po’ di profili facebook, con annessi e connessi post e commenti, si vede che la parola “caiano” è ormai diventata d’uso comune: a certuni sembra che l’essere iscritto al CAI sia una nota di demerito. E non è più uno scherzo.

Tutto questo può apparire assai impietoso e inaccettabile a chi ha creduto e crede nel CAI, un’associazione alla quale ha dato e dalla quale spesso anche ricevuto. In questi individui, la conseguenza più immediata è l’allontanamento da ogni tentativo di comprendere almeno qualche perché.

Eppure gli esempi storici che c’insegnano che questo genere di processi è del tutto normale non mancano di certo: ne cito, per brevità, solo due.

1) All’inizio del secolo XX, specialmente subito prima del primo conflitto mondiale, nacquero parecchie associazioni che, a vario titolo, si distaccavano radicalmente del Club Alpino Italiano, rivendicando altri scopi e altri modi di andare in montagna: che diventava quindi anche “operaia” e non soltanto appannaggio di nobiltà e borghesia.

2) Posteriormente ai moti del 1968, le acque dello stagno furono assai agitate dal Nuovo Mattino, che abbatteva il mito della vetta e della conquista ad ogni costo, ma anche dall’articolo di Reinhold Messner L’assassinio dell’impossibile, che rivendicava senza mezzi termini la necessità di un ritorno immediato all’arrampicata libera e quindi l’abbandono, da parte dell’istituzione CAI, del modo di celebrare le imprese, fino a quel momento impostato sulla conquista (senza badare al come si conquistava).

E’ un dato di fatto che il CAI, da almeno una quarantina d’anni, ha dato ben poca importanza nelle sue pubblicazioni e nella sua attività culturale all’alpinismo nuovo, ai giovani. Se si escludono le serate organizzate dalle Sezioni del CAI in onore di nomi nuovi, accanto a quelli vecchi, non rimane nulla. La mia opinione è che se si trascura l’alpinismo dei giovani, ci sarà (come in effetti è stato) un generale loro allontanamento (anche di coloro che non scalano ma sono appassionati di montagna) da un’associazione che mai potrebbero sentire consona ai loro bisogni.

Aggiungiamo la frammentazione dell’alpinismo che si è verificata, con una serie di discipline assai diverse che non sto neppure a elencare. Nessuno, a livello generale, ha seguito con attenzione l’evoluzione di questo fenomeno, neppure il Club Alpino Accademico, che più di tutti avrebbe dovuto farlo. Tanto è vero che oggi il CAAI è tra le associazioni a più alta età media dei soci.

Non sostengo che il CAI avrebbe dovuto inseguire tutte queste singole discipline: al contrario avrebbe dovuto (come ha fatto, in qualche caso controvoglia) scortare e favorire il passaggio a organizzazioni più dedicate, intavolando però con loro una seria collaborazione.

Ricordo i Festival di Trento degli anni Settanta, ma anche degli Ottanta: erano pieni zeppi di vita, pochi eventi ma tanti invitati, il fior fiore degli alpinisti da tutto il mondo. Si facevano due convegni, non di più, accanto alla regolare proiezione dei film in concorso. Ma quelle riunioni sono risultate memorabili in più occasioni, con lo scontro appassionato di persone che ci credevano. Oggi un normale Festival di Trento ha anche fino a cento eventi, piccoli e grandi: ma in nessuno si verifica l’accensione di quella scintilla che nel passato portava i protagonisti, dopo essersi massacrati nelle discussioni pubbliche, a fare vere amicizie a suon di birre fino alle tre del mattino e a programmare imprese e scalate assieme. Nessuno di questi eventi ci fa battere le mani fino a spellarcele, tutti in piedi. Altro che “social”! Oggi si preferisce invitare il grande personaggio, quello che fa rumore sui giornali e presso il grande pubblico: e ci si dimentica della base (costituita guarda caso dai giovani): e senza la base che soffia sul fuoco non c’è fiamma, non c’è passione.

Non escludo affatto che il CAI possa recuperare il terreno perduto: si tratta di comprendere i perché, fare autocritica e ascoltare con pazienza. Si tratta di capire che il futuro è in mano ai giovani e che, se vogliamo aiutarli, non è accettabile l’arroccamento su posizioni prestabilite e ufficiali, considerate le uniche possibili.

Non deve cadere nell’errore che basti dotarsi di strumenti social alla moda (LinkedIn, Instagram, Twitter) per mettersi al passo con i tempi. Il cambiamento dovrà essere radicale, al posto di qualche piccola battaglia ego-riferita dovrà essere soffio vitale nelle pieghe di qualunque riunione del CdC, nelle assemblee, nei consigli di Presidenza, nella rivista del CAI, nei comunicati, nei rapporti con le associazioni ambientaliste, ecc.

Nessun giovane ha mai contestato il Bidecalogo ma, guarda caso, questo prezioso strumento è tra i più disattesi nella pratica quotidiana di CAI e Sezioni!

Sarà una via molto difficile e parecchio esposta a errori e fallimenti. Però l’alternativa è la fine del CAI: prima si verificherebbe la progressiva dispersione dell’autorevolezza culturale fino all’annullamento, in seguito la frammentazione totale in un arcipelago di Sezioni, e infine il crollo delle adesioni.

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Dagli al “caiano” ultima modifica: 2022-12-22T05:34:00+01:00 da GognaBlog

160 pensieri su “Dagli al “caiano””

  1. Scusami la cajana sapientis  patientia domesticus era lunga da scrivere..e sempre un po dimenticata ,avercene!
    A proposito di groppi 8 all infinito…

  2. Prova a leggere qualche mio romanzo già pubblicato, per esempio Chiamami Jack, e verificherai che le cognettate NON sono assolutamente il mio genere. Esiste un mondo sconfinato al di là delle Otto Montagne.

  3. La caiana?
    Auguro a Crovella che venga fuori una bella cognettata, così almeno qualche copia rischia di venderla.

  4. Pasini. Mi affretto a depositare presso SIAE il copyright circa “La Caiana” come titolo del mio prossimo libro di montagna. C’è materiale per approfondire il tema, arguto e “pruriginoso” al punto giusto, come richiede oggi la narrativa di montagna. Tranquillo: ti girerò delle royalties. Ciao!

  5. La caiana. Non dimenticate di affrontare questa figura della fenomenologia montagnarda dal grande potenziale. È lì il futuro. Ho amici guida che fanno il grosso del fatturato con questo target: escursioni, ciaspolate, alpinismo facile. Ricavandone persino qualche utilità extra-professionale, la’ dove ci sono le condizioni. Anche se, come noto, il professionista ha approcci diversi e meno ristretti del dilettante? 

  6. Pasini. Per esempio interessante e arguta la tua annotazione sulle vedove allegre, caianissime: non cercano l’8c, ma escursioni, ciaspolate, scialpinismo easy e in genere gran finali in piola…. Non ci avevo mai pensato in modo specifico, ma quello è un segmento di mercato adatto al CAI, da esplorare.

  7. Mi pare vagamente di aver inteso da un brevissimo accenno che forse nelle sezioni CAI di Torino c’è la fila per entrare. Però potrei aver letto male.
     
    Carlo, spiegami di nuovo tutto da capo: ‘sta fila c’è o non c’è?

  8. @148 Pasini. In passato litigammo (forse l’unica volta) perché, proprio qui sul Blog, sostenevi che il CAI dovesse per forza aprirsi (e quindi inserire) gli arrampicatori indoor nati tali, di cui tu avevi fatto una descrizione azzeccata (energumeni tatuati, fanciulle con outfit che, al confronto, Caterine Destivelle era un’educanda…), riportando quanto avevi osservato nella sala indoor da te frequentata (almeno allora) a Milano. Ricordi?
     
    Pensavo tu fossi ancora su quelle posizioni: aprirsi necessariamente al nuovo solo perché il nuovo può far del  bene al CAI. Non ripeto, ma produce solo danni e non comporta valore aggiunto. Corretto acchiappare i topi, ma occhio a “che” topi (e soprattutto a che tope! eh eh eh… ). Non tutti i topi fanno del bene al CAI.

  9. @142 Savonarola. Molte disfunzioni che citi non sono figlie della struttura generale, ma evidentemente di non perfetta organizzazione locale.: è lì che occorre che correggiate. Riunioni in cui si parla del nulla? Qui mai viste, le assemblee istruttori hanno un preciso OdG codificato dal direttore, spedito ex ante e seguito con precisione durante le riunioni. La direzione avanza proposte e l’organico, dopo eventuale dibattito, delibera. Senza tante smancerie. Uno dei punti trradizionali dell’OdG di tali assmblee è proprio la definizione delle attività della stagione entrante e i rispettivi calendari: la Direzione propone, l’assemblea delibera. Poii è “legge”.  I calendari, una volta deliberati, sono fissi e istruttori e allievi possono segnarsi le uscite suylle rispettive agende. Pre prassi le uscite invernali sono in pullman, quelle primaverili in auto. In entrambi i casi, la Direzione decide la meta a ridosso dell’uscita, non mesi o anni prima. Se volete recepire una snellezza operativa dovreste indirizzarvi verso modelli più decisionali al vs interno. Tale indirizzo presuppone che ci siano personalità “forti” (Direttori capaci di convincere, al limite di “imporre”) e l’accettazione di tale modello da parte di tutti. Se invece si preferisce un modello più ecumenico/democratico (ogni cosa viene decisa coinvolgendo tutti, quanto meno tutti gli istruttori), i tempi si allungano e l’inefficienza la fa da padrona. Ma questo non è un problema del CAI Centrale, è una caratteristica delle realtà locali: alcune sono più decisioniste, altre meno.

  10. @JeromeSavonarola @DinoM
    Concordo parecchio coi vostri commenti 139 e 142.
    Molte piccole scuole sono destinate ad andare in difficoltà nei prossimi anni, per scarsità di istruttori titolati.

  11. Crovella. Non ho detto che bisogna “acchiappare” nuovi segmenti di mercato. Su questo sono agnostico. Ho detto: se la nuova dirigenza vuole….allora dovrebbe…come avrei farei con un cliente. Personalmente sono attratto da due motti maoisti “Che cento scuole gareggino e cento fiori sboccino (con ovviamente qualche garanzia che non si facciano danni) e “Non importa che il gatto sia bianco o nero, l’importante è che sappia catturare i topi”. Cerea.

  12. @141 Lusa. Caianamente mi rivolgo a te con pazienza, non per far polemica ma per cercare di istruirti. Da quanto scrivi, emerge che non hai compreso un bel niente sulla realtà subalpina: numeri umani e qualità tecnico-didattiche sono lì, basta analizzarle.. Non sei l’unica a leggere con superficialità, come ho riscontrato ieri. Ma andare in montagna significa anche imparare a usare la testa. Questa è la cosa più importante che noi insegniamo. C’è la fila che bussa alle varie porte delle attività dei vari CAI torinesi, il che non è casuale.

  13. Interessante questa distinzione tra le diverse tipologie di homo caianus. Però nessuno parla della caiana. Io vedo che in alcune attività, ad esempio l’escursionismo o le ciaspole, è diventata una figura dominante. Anzi, visto l’invecchiamento della popolazione, penso che le vedove,finalmente liberate del peso dei doveri di sopportazione, con discrete pensioni di reversibilità e tanto tempo libero, in Italia  diventeranno nel giro dei prossimi 10/15 anni una componente determinante di organizzazioni come il CAI con una base sociale con età elevata ? il vento farà il suo giro. 

  14. @138 Pasini. Esatto, stiamo dicendo le stesse cose. Però o ragioniamo che la realtà sabauda è un mondo a sé (non solo per la montagna, ma nell’approccio alla vita) oppure qualche ragione oggettiva, per il successo del CAI presso i torinese, c’è.
     
    In ogni caso, e qui discordiamo nettamente, non è inserendo (a maggior ragione se forzatamente) nuove tipologie di utenti (gli arrampicatori indoor, i garisti, i corridori…) che si rinnova con successo il CAI. Anzi a Torino ma non solo) rischieresti di fare esclusivamente dei danni. Per cui, in area subalpina, non tocchiamo niente: qui (e non solo nella SUCAI in senso stretto) di giovani che bussano alla porta ne abbiamo talmente tanti che (PURTROPPO!) non riusciamo a gestirli tutti. Buon proseguimento!

  15. Varie specie;
    Caianus semplicius , cajanus  erectus, poi il più pericoloso cajanis erectus…ricordo in Antelao primi anni ‘ 80 una via con Icio dal nome molto esplicito e indicativo…” Vecchi inquisitori dementi”…? buone feste a tutti.

  16. Non si è “caiani” perché iscritti al Cai ma per un certo modo di essere, di atteggiarsi, di tirarsela.
    Esattamente, Luca.E personalmente noto ben più “caianesimo” s.l. oggi che negli ’80.Purtroppo, spesso anche tra i giovani.  

  17. @Dino #139:
    Quelle di cui parli sono problematiche che avevo sfiorato nel mio primo intervento ieri. Il vero dramma ora per il CAI è l’impegno richiesto a chi vorrebbe integrare le scuole o i gruppi, finendo per scoraggiare i più o portarli ad abbandonare dopo pochi anni. In alcune realtà e per alcune attività marginali, questa emorragia di istruttori è particolarmente grave, con il rischio che le scuole chiudano o almeno alcuni corsi vengano abbandonati. Se c’è un aspetto sotto il quale il CAI si deve “svecchiare” è probabilmente questo. Senza cercare l’appoggio di figure esterne. Si tratta di snellire alcune procedure, riorganizzare l’offerta, offrire maggior flessibilità all’organico. Chiaramente parlo da misero istruttore sezionale e non ho nessuna esperienza a livelli più alti quindi i miei sono solo timidi suggerimenti.Bisogna anche prendere coscienza del fatto che maggiore competitività nel mondo del lavoro e contrazione del potere d’acquisto dei salari significano che energie e tempo libero sono un bene sempre più raro e prezioso.Alcune idee sparse: evitare riunioni continue a discutere del nulla; accettare la responsabilità decisionale assoluta dei direttori di corso nello stabilire calendari, destinazioni e assegnazione degli accompagnatori; non moltiplicare l’offerta di corsi in ambiti che hanno poca attrattiva, anzi ridurli, e non introdurre nuovi corsi in ambiti non tradizionali per la sezione; pianificare le attività partendo dalla effettiva disponibilità dei volontari per coprirle e non solo “perchè va fatto poi qualcuno si trova”; abbandonare, almeno per le piccole sezioni che raramente possono permettersi il pullman, la classica formula delle gite a calendario decise con un anno di anticipo, passando ad attività decise e svolte a stretto giro in base alle condizioni e alle disponibilità.
    Il tutto con supporto di piattaforme informatiche che si spera funzionino e siano strutturate ergonomicamente…

  18. Se Crovella rimane sulle sue idee antiquate sabaude e non si adegua al nuovo si ritroverà come una balena spiaggiata ?

  19. Crovella scrive : “Se cambiamo le cose in modo brusco e imposto rischiamo solo crisi di rigetto.”
    La crisi di rigetto la rischiano tutti quelli che continuano ad ascoltare Crovella ?

  20. La mia Scuola, in 60 anni,  ha formato migliaia di persone e tantissimi istruttori. La richiesta di formazione, è sempre fortissima. Concordo con Crovella che solo un forte “protocollo” d’insegnamento, più possibile uniforme e organizzato, può affrontare numeri cosi importanti fornendo ogni anno agli allievi migliaia di giornate di formazione  teorico/pratica magari basica, ma qualitativamente accettabile, controllata, metodica e soprattutto aggiornata. Da non sottovalutare le centinaia di ore d’aggiornamento che ogni Scuola deve obbligatoriamente fornire ai propri istruttori che arricchiscono non solo gli istruttori stessi ma anche tutto l’ambiente che essi frequentano. Chi dall’esterno osserva non conosce il gran lavoro che viene fatto.
    Spesso si sente l’eco delle preoccupazioni che la “struttura scuole” causa a Presidenti di Sezione e CAI in generale. Negli ultimi 20 anni il carico di impegno e responsabilità di Istruttori, direttori di corso  e di tutta la struttura è diventato davvero molto pesante anche in termini assicurativi. Spesso queste preoccupazioni, fanno intravedere ad alcuni dirigenti del CAI la possibilità di utilizzare GA per questo ruolo. E’ mia opinione che se si vuole mantenere il livello teorico pratico dei corsi CAI ( che io ritengo appena sufficiente) con almeno 12/15 giornate per singolo corso con non più di 2 o 3 allievi per Istruttore, non sia possibile  in termini economici ed organizzativi  sostituire le Scuole e gli Istruttori  CAI, senza escludere per questo la collaborazione con GA. Basta fare qualche piccolo, basico conteggio sul numero di istruttori professionisti necessario e sul relativo costo. E’ anche questa formazione, oltre al buon senso che evita molti incidenti e promuove una frequenza ordinata della montagna.
    Ora però il reclutamento di istruttori è sempre più difficile. Il carico di responsabilità, impegno e aggiornamento aumenta di anno in anno. Il CAI deve decidere se investire in termini economici in questa struttura o lasciare ad altri, ammesso sia possibile, ( USACLI, FASI etc etc) questo compito snaturando però l’ essenza stessa del Club. Penso che l’ingresso di questi nuovi attori e i recenti sviluppi normativi del nostro mondo non possano più rendere rinviabili decisioni e modifiche sia di tipo economico che organizzativo.

  21. Crovella. Quello che tu dici conferma ciò che ho sempre osservato, non solo per la montagna. Sono le culture, fatte di regole, comportamenti, rituali e relazioni sociali di gruppo che influenzano i comportamenti individuali, più che le parole e i proclami. Proprio per questo è molto difficile cambiare o esportare culture specifiche che sono frutto di lunghi processi evolutivi. Vanno studiate nelle loro componenti e nella loro evoluzione mai poi le realtà locali devono trovare una loro strada. Avendo fatto esperienza di una grande realtà urbana Milano (sebbene nel giurassico) e ora di una piccola realtà ligure, sebbene molto attiva, vedo l’enorme differenza. Anche il modello organizzativo territoriale delle sezioni va forse ripensato. Sui legami che si creano, duraturi nel tempo, tra chi ha fatto parte di gruppi aggreganti “forti” (politici, sociali, sportivi, scolastici, professionali, militari) non ci piove. Lo vedi anche qui, su questo blog, tra chi ha fatto parte del Circo. Ma è normale e osservabile ovunque, a volte pure con qualche strascico di antiche tensioni. Le esperienze di gruppo “forti”, lasciano il segno, anche dopo molti anni, nel bene e nel male. 

  22. Cmq non crediate che le altre scuole e/o iniziative dei CAI torinesi siano da “mollaccioni”. Anche lì i pullman partono alle 06.00 spaccate. Nessuna pieta’. Se arrivi alle 06.01, resti in città. Sta tranquillo che la volta dopo impari a organizzarti alla perfezione e sarai ai pullman addirittira alle 5.45! Questo significa “disciulese”. Si impara a “vivere”, oltre che ad andare in montagna in senso stretto. Chissà, forse è proprio questo risvolto che piace tanto, almeno qui da noi. Pero’ è una caratteristica molto torinese, forse non è apprezzata altrove.

  23. @135 Jerome. Concordo con te e complimenti per quanto fate. Non è una battuta sfotto’: ho girato molte scuole e molte realtà locali e ho constatato che, paradossalmente, è più facile fare  le cose in grande a Torino (non fosse altro che per i numeri umani su cui contare) che cose piccole in realtà piccole.
     
    Sul resto concordo con te. Il rischio di aperture al nuovo e proprio quello di immettere, forzatamente, mentalita “usa e getta”. Il CAI è un mastodonte, procede piano se non pianissimo, metabolizza le cose con tempi lunghi se non lunghissimi, ma è inarrestabile. Per trovarcisi bene dentro al CAI, bisogna avere un particolare mentalità, quella caiana appunto, che non è quella tipica delle “nuove” manifestazioni della montagna. Se cambiamo le cose in modo brusco e imposto rischiamo solo crisi di rigetto. Ciao!

  24. @Crovella:
    Emilia. Le realtà provinciali, e in particolare quelle più lontane anche geograficamente dalla “vera” montagna, sono un caso a parte e presentano problematiche diverse, e il modello torinese (se esiste con caratteristiche peculiari) non può facilmente esservi esportato.
    Ripeto che nella mia sezione i giovani ci sono, ma anche fatte le debite proporzioni sul totale di iscritti, sono probabilmente molto meno numerosi e attivi che a Torino. C’è anche lo SBA e persino il corso di freeride, ma non è questo il punto: il CAI non può (e non deve) intercettare la domanda di esperienze usa e getta eccitanti, ad alto potenziale di like ma estemporanee e svuotate di contenuto culturale e valore educativo. I giovani che arrivano e continuano sono esattamente e solo quelli che meritano e che il CAI merita.
    E’ a questi contesti periferici che mi riferivo affermando che un CAI anche modernizzato (ma non snaturato) non può interessare ai giovani, e così deve restare. Un CAI corsificio on demand sui social network sarebbe solo cringe. 

  25. @128 Savonarola. Interessante quello che scrivi. Curiosità: in che zona risiedi/operi?

  26. @131 Cominetti. O leggi sempre superficialmente o sei proprio fatto male. Non sto a perdere tempo a ri-spiegarti. Se sei davvero interessato a capire, rileggi con più attenzione i mie interventi precedenti, compreso quanto ho scritto stamattina circa il paragone con la Juventus. Anche su quel punto, marginalissimo, hai capito Roma per Toma. Stame bin

  27. @123 Pasini. In parte hai ragione, in parte no. Spiego.
     
    La SUCAI è una struttura complessissina che si è progressivamente perfezionata in oltre 70 anni consecutivi di attività. Tra l’altro preciso che il tutto gira a meraviglia, ma sempre in totale clima di assoluto volontariato.  Ma la SUCAI è anche un polo ideologico e relazionale, un valore sociale che trova fondamento in una certa realtà torinese, molto particolare. Mi ricordo che, qualche tempo fa, proprio tu mi parlasti della Ivy Leage, quell’insieme delle università americane di alto lignaggio, dove lo sport è un motivo sia per affinare le proprie capacità tecniche e organizzative sia per cementare relazioni che poi durano una vita intera e ti servono in tutti i campi. Ecco, a suo modo la Scuola SUCAI è così: fa parte, idealmente, della Ivy Leage, anche se ovviamente è un unicum sabaudo.
     
    La SUCAI affina le capacità individuali. Non c’è dubbio: se stai un po’ di tempo in direzione, acquisti una forma mentis organizzativa che, quando termini il mandato, puoi fare direttamente l’Amministratore Delegato di un’azienda. Ma anche il drmolice allievo viene stimolato dal modello a “disciulese” (piemontesismo per darsi da fare, tirarsi fuori Dall’impaccio  crescere come persona). Dati i grandi numeri, il modello è impietoso: i pullman partono alle 06.00 senza aspettare nessuno e, se ti arrivi alle 06.01, resti a Torino, ma la volta dopo stai sicuro che non ti capita più! Questo modus operandi, una volta recepito per le gite, ti resta dentro per tutta la vita in ogni risvolto dell’esistenza.
     
     
    Al contempo la SUCAI è anche un  “ambiente” e tu, che hai contezza di cosa significhi questo concetto a Torino, capisci immediatamente cosa intendo. Se io, oggi, ho bisogno di un parere ingegneristico, legale, medico…(tutte cose che non hanno nulla a che fare con la montagna), ho solo l’imbarazzo della scelta fra i miei colleghi istruttori pet scegliete quello cui rivolgermi in modo informale e confidenziale. Vale ovviamente al contrario: io ricevo ogni settimana in media 1-2 telefonate di tale natura, ovviamente su temi di mia competenza professionale. Una specie di Rotary. Un altro aspetto importante è quello delle amicizie che durano per sempre: ancora oggi i miei compagni di gite private sono quelli che ho conosciuto in SUCAI, a volte 30 o 40 anni fa. Inoltre, e non guasta, la SUCAI è un’efficacissima “agenzia matrimoniale” (per unioni che storicamente durano una vita intera, non per avventurette).
     
    Ma quando io, nei giorni scorsi, al Presidente Montani ho fatto riferimento alla comunità torinese del CAI, come caso di successo da analizzare per eventualmente esplorarlo in tutta Italia, non prendevo neppure in considerazione la sola SUCAI. Perché la SUCAI è un unicum che vale solo qui, qui a Torino, anzi in un certo spaccato torinese con una certa mentalità torinese, e quindi non può esser replicata altrove.
     
    Faccevo invece riferimento all’intera realtà CAI dell’area torinese, una realtà che è ugualmente di successo senza avere le caratteristiche esasperate e un po’ maniacali (se osservate dall’esterno, internamente sono visite in piena armonia) della SUCAI. Le altre scuole, sia cittadine che dell’hinterland, sono tutte pimpanti e vivaci e hanno giovani in gran numero. I gruppi giovanili sono in pieno fermento. Le gite sociali di ogni disciplina e difficoltà hanno iscritti a mani basse. Di conseguenza la realtà subalpina è talmente dinamica e “fresca” che tutta ‘sta crisi del CAI nazionale io non riesco proprio a immaginarla.
     
    O l’area torinese e’ davvero un mondo a se ‘, a prescindere dalla SUCAI, o nel resto d’Italia non ci sono pari capacità organizzative. Io credo che a livello nazionale sia una questione motivazionale e valoriale. Nel torinese è “bello” far parte del CAI. Pet definizione. Temo invece che altrove vi sia una prevenzione di fondo: il CAI è percepito come “vecchio” a prescindere.
     
    Come invertire questo modo di vedere il CAI? A me, subalpino, non viene in mente altro che: studiamo il caso torinese (quello generale, non quello SUCAI),  visto che qui “e’ bello far parte del CAI”, e, se possibile, replichiamolo altrove. Tuttavia se questa ipotesi non convince e se ci sono altre strategie, io non ho preclusioni a esaminarle.
     
    Da parte mia continuo a non esser assolutamente convinto, però, che la soluzione sia immettere forzatamente nel CAI i climber indoor o i “garisti” scialpinistici o corsaioli. Non hanno.la testa da CAI e il CAI li percepirebbe come un”imposizione indigesta. Ciao!

  28. Ma dove vivi tu Crovella?
    Chi vale non ha bisogno di blasoni e di mettersi in mostra come fai tu. ‘Sta Sucai e la sua storia vanno bene, ma non credo faccia una gran figura con un un elemento come te. Abbi pazienza ma te le cerchi col lanternino. 
    Non so nulla neppure di calcio ma so che la Juventus ultimamente è in un ciclone giudiziario per imbrogli di vario genere, quindi il paragone che hai fatto è perlomeno infelice.
    Ma guarda ‘sti caiani….
    Sono socio Cai, ma caiano mai. Ciao

  29. Mi spiace per chi crede alla teoria ma la montagna la può trasmettere, senza bisogno di tanti discorsi, solo chi la vive giornalmente. Il resto sono tutti tentativi e come tali qualcuno può casualmente andare a segno.

  30. @124 e 127. Specie Cominetti, avete preso Roma per toma. Il mio stupore è riferito al fatto che una GA e un istruttore di scialpinismo, ancorché di una scuola più piccola, non sappiano neppure come sia la struttura della Scuola SUCAI, che è la Juventus delle Scuole di scialpinismo. Ma dove vivete?
     
    Tutto è derivato da vs precedenti e sciocche battute sull’eventuale presenza di snowboarder fra noi sucaini… e non sapete neppure che è stata la SUCAI a inventare per prima, 15 anni fa circa, i Corsi SBA, che ha un corso SBA ogni anno diviso in due moduli, il tutto da 18 anni consecutivi e con un organico istruttori specifico di circa 25 persone, di cui molte titolate. Prima di fare stupide battute  informatevi a puntino. PS: la questione culturale circa Guide (“ignoranti” circa aspetto culturale della montagna) non mi appartiene per nulla, non ne ho minimamente parlato stamattina, per cui è esclusivo frutto di lettura superficiale da parte di Cominetti. Salutation 

  31. @Matteo #115:
    Se si scoprisse che i miei sono luoghi comune ne sarei felice, tuttavia la tua esperienza personale non è statisticamente significativa e portare esempi in apparenza contrari non è sufficiente a inficiare la validità della mia analisi riguardo alla direzione che sta prendendo la società nel suo complesso.In secondo luogo, non hai nemmeno enunciato esempi contrari bensì assolutamente in linea con quanto ho scritto… io ho scritto che il CAI non può interessare i giovani, e tu mi porti un esempio di alcuni giovani che hanno iniziato in montagna proprio NON tramite il CAI! Poi che questi soggetti siano prudenti o scavezzacollo, che vadano a scalare anche con i vecchi oppure no, poco importa. Semmai importerebbe delle loro motivazioni e della loro eventuale capacità di sviluppare l’andare in montagna come un progetto a lungo termine che possa trasformarsi realmente nel corso degli anni in uno stile di vita, nel senso di impattare tutti i campi dell’esistenza in senso positivo, non nel senso di andare in giro con il van. Ma si sa che su internet c’è l’abitudine a rispondere ai commenti dopo aver letto solo le prime due righe e compreso nulla.Detto ciò, essendo un ardente sostenitore del crovellismo, posso più sinteticamente chiarire il mio punto di vista appoggiandomi all’esempio della scuola SUCAI menzionata dal nostro (della quale NON faccio parte): questo modo di approcciare la montagna, caianissimo ma al passo con i tempi, in grado di veicolare valori e cultura, non potrà MAI interessare i giovani al punto tale di modificare in maniera sostanziale l’organico e la composizione anagrafica delle sezioni. Ed è giusto così.E già che ci sono vorrei rispondere anche a Cominetti #124, persona che non conosco e a priori rispetto. Io sono uno che nel 90% dei casi consiglia alla gente che vuole iniziare ad andare in montagna seriamente di rivolgersi piuttosto che al CAI alle guide, che almeno dove vivo io hanno programmi più snelli e flessibili e una proposta più diversificata e adatta alle più disparate esigenze.  Proprio perchè so che la gente tendenzialmente ha poco tempo da dedicare, vuole provare tutto e vuole i risultati subito. Quando Crovella parlava di cultura non intendeva certamente raccontare due aneddoti di storia dell’alpinismo o magari qualche pillola di etica durante le uscite e i corsi con i clienti, ma una cultura a tutto tondo della montagna che abbracci tutti gli aspetti, qualcosa che può essere assorbito solo tramite la frequentazione per un lungo periodo di tempo di un ambiente dove militano molte persone esperte, entusiaste e con le esperienze e interessi più disparati. Come solo il CAI può essere.Io, partecipando (ai margini) ai gruppi ambientali CAI, sono costantemente atterrito dal constatare la dilagante ignoranza dei neoiscritti medi riguardo ai temi ambientali, nonostante si tratti di gente che si dichiara (ovviamente) amante della natura. Per fortuna progredendo da un corso all’altro, col ripetere delle stesse nozioni a ogni lezione ambientale, con l’aneddoto che gli viene raccontato alle uscite, qualcosa gli entra in testa e magari avremo un po’ più persone edotte anche delle tematiche ambientali. Questo esempio si può applicare a tutti gli altri aspetti di cui le sezioni si occupano: storico, tutela del patrimonio, sentieri, formazione, giovani, disabilità, salute…

  32. Crovella.
    Non mi risulta che la storia della SUCAI Torino sia fra le competenze richieste per ottenere un diploma, una laurea o anche solo per fare l’istruttore – peraltro sezionale – di scialpinismo.
    L’ignoranza per me è altro. 
    P.s. non leggo risposte superiori alle 10 righe.

  33. Non si è “caiani” perché iscritti al Cai ma per un certo modo di essere, di atteggiarsi, di tirarsela.

  34. Grazie Crovella, sintetico come sempre!
     
    A parte la tiritera degli acronimi da sempre tanto cara al Cai, mi stupisce la tua presunzione d’ignoranza altrui quando sottolinei banalità scontatissime come l’aspetto culturale, storico, ecc. dei corsi Cai che ovviamente (secondo te) noi guide alpine ignoranti tese al solo macinare metri di dislivello, non daremmo nei confronti di chi accompagnamo. 
    Siccome anche le guide organizzano corsi è logico che si occupino di TUTTI gli aspetti che il fare scialpinismo comporta. Ma non lo sbandieriamo come se fossimo gli unici a farlo perché è sottinteso che lo si faccia. Fortunatamente non soffro di quel complesso di non so cosa, che evidentemente tu hai quando attacchi i tuoi interlocutori affinché non ti becchino con le mani nella marmellata. Lo spirito di ribellione che tu tanto aborri non è altro che essere intellettualmente vispi e non prendere tutto come oro colato. Se i miei figli non fossero ribelli mi preoccuperei. Spero di essermi spiegato.

  35. Il caso presentato da Crovella sulle attività di scialpinismo&affini nell’ambito del Cai Torino è un caso di scuola. Un’offerta formativa articolata, un “marchio” di elevata reputazione, un bacino di utenza esteso e di consolidata tradizione generano una domanda abbondante che si rinnova periodicamente. La gestione di un modello con queste caratteristiche richiede notevoli capacità organizzative e risorse umane (insegnanti & staff) adeguate, per qualità e quantità. Certamente non è un modello alla portata di tutte le sezioni e gli ambienti in cui opera il Cai. Se la nuova dirigenza vuole realizzare un piano credibile di rinnovamento dovrebbe, a mio parere, studiare i casi di eccellenza e al tempo stesso adottare un approccio realistico e diversificato territorialmente, partendo da un’analisi delle diverse realtà e tradizioni locali. Anche la dimensione territoriale delle sezioni richiede forse una riflessione. Su basi troppo piccole le possibilità di azione sono linitate. Interventi generalisti penso siano poco efficaci. Che attività formative di questo tipo veicolino anche valori (senza esagerare troppo rispetto al peso di altre esperienze) è indubitabile. Penso che a trasmetterli siano più l’esempio e l’influenza sociale del gruppo (quello che i pedagogisti chiamano “apprendimento situato”) che non i proclami e le parole, spesso ormai consunte dall’uso ripetitivo e dalla retorica. 

  36. Ah…mi sono dimenticato (tante sono le cose che facciamo!) di un risvolto importantissimo dell’attività della Scuola SUCAI: quello “culturale”, attraverso elaborazione di libri, testi, video,  nonché lezioni teoriche ed eventi vari come conferenze, tavole rotonde ecc, soprattutto a disposizione dei nostri allievi ma aperte a tutti.
     
    Educare gli allievi non lo si ottiene solo con l’insegnare il nodino o la ricerca ARTVA, né facendo dislivelli mastodontici o scendendo pendii vertiginosi. Certo quelle cose contano anche loro, ma educare (e-ducere: tirare fuori, cioè fuori dall’ignoranza – termine che va inteso nel suo significato latino, cioè di “non essere al corrente della materia”), ebbene “educare”  è un’attività molto complessa, con tempi non brevi e comporta anche risvolti collaterali, appunto culturali, comportamentali, ideologici. E’ un’attività talmente complessa che diventa un’educazione a tutto tondo: imparando ad andare in montagna con lo stile SUCAI, impari un particolare stile di vita che ti porti dietro per tutta l’esistenza, anche in campi (lavoro, famiglia, impegno civile ecc) che non sono direttamente collegati alla montagna. Chi si iscrive da noi, proprio questa cosa qui “cerca”, non il semplice fare gite difficili o imparare il nodino ultima versione.
     
    Inoltre, dalla notte dei tempi, la Scuola SUCAI incide sull’evoluzione dello scialpinismo italiano, specie nel risvolto didattico, ma anche in quello tecnico generale. In questa particolare periodo, un sucaino (nostro Direttore della Scuola circa 15 anni fa) è attualmente Direttore della Scuola Centrale CAI di Alpinismo-Scialpinismo-Arrampicata. Non dico che sia solo lui a scrivere i manuali e i protocolli di aggiornamento periodico dei contenuti didattici (per l’intero mondo delle Scuole CAI italiane, di ogni disciplina), visto che la Scuola Centrale comprende mi pare almeno 30 persone, me certo il Direttore in carica suggella tutti i documenti che escono dalla Scuola Centrale, per cui non può certo esserne estraneo. Tali documenti, attraverso le Scuole Regionali CAI, giungono ad ogni Direttore di Scuola CAI, non solo nel comparto dello scialpinismo. I Direttori delle singole Scuole sezionali debbono poi attivarsi (attraverso aggiornamenti ecc) per diffondere tali nozioni nell’organico delle proprie scuole. Di conseguenza una semplice variazione del nodino, decisa nella Scuola Centrale CAI, arriva a cascata a tutti gli istruttori CAI e da costoro agli allievi. In tale modi si persegue l’assoluta omogeneità del messaggio didattico CAI. Poiché sucaini sono normalmente presenti nella Scuola Centrale CAI (in particolare ora con il ruolo di Direttore della stessa), tutto ciò fa capire quanto la Scuola SUCAI sia rilevante a livello di elaborazione del modello didattico del CAI.
     
    Non conoscere nulla della Scuola SUCAI Torino non è un merito (come i “ribelli” alla caianaggine immaginano), ma un notevole limite individuale: è come se uno che si spaccia esperto di calcio, non sapesse nulla della Juventus. Certo fare il paragono, oggi, con la Vecchia Signora calcistica può non apparire azzeccatissimo, visto che in questi giorni al Juve non attraversa un momento brillantissimo, ma lo risolverà a stretto giro e la sua storia ultracentenaria è un totem indiscutibile.
     
    Pertanto prima di parlare a vanvera di caianaggine e ultraconsevatori del CAI, informatevi a fondo, sennò rischiate figure ridicole. Ciao!

  37. Da 118 a 120 (Cominetti e Skeno). Stupisce che guide alpine e istruttori di altre scuole di scialpinsimo non conoscano nulla della SUCAI Torino.
     
    Anche nello specifico campo dello snowboard la Scuola SUCAI  è all’avanguardia: infatti la SUCAI è stata la prima scuola in Italia a organizzare un vero e proprio Corso di Snowboard Alpinismo (Corso SBA), tuttora esistente e bello pimpante e florido.
     
    L’iniziativa SBA in SUCAI risale al 2005 (primi esperimenti), con varo ufficiale del Corso nel 2007 e successivo consolidamento: è merito di specifiche persone, che si sono date da fare fin da allora (e successivamente nel consolidamento dell’attività), ma l’intero organico della Scuola ha contribuito quanto meno NON mettendo bastoni fra le ruote (discorso che ho fatto nei gg scorsi: le novità devono inserirsi in modo armonico, sennò creano danni).
     
    Da allora (2007) l’attività SBA nella SUCAI non ha perso un colpo. E’ un corso in più, parallelo a quelli di scialpinismo. Ha un suo direttore, una sua piccola direzione (team organizzatore), un suo specifico organico istruttori (mi pare al momento di 20-25 individui (m/f). tutti istruttori SBA AUTOPRODOTTI internamente, cioè sono entrati come allievi e sono “cresciuti” anno dopo anno).
     
    Il Corso SBA è organizzato, ogni anno, in due moduli: SBA1 (iniziazione) e SBA2 (perfezionamento), per un  totale di 9 uscite stagionali, se non sbaglio.
    Al Corso SBA della SUCAI sono ammessi sia allievi che usano ciaspole in salita sia allievi con splitboard. La direzione è attenta nella composizione dei gruppi in modo tale da assegnare agli allievi, pur all’interno di un turn over fra gli stessi (per finalità di socializzazione e aggregazione) istruttori dotati dell’attrezzatura (ciaspole o splitboard) analoga a quella degli allievi di giornata. I nostri istruttori SBA sono tutti in grado di fare gite sia con modalità ciaspole che splitboard.
     
    La Scuola SUCAI Torino, la prima ad esser stata fondata in tutta Europa (1951-52) e da allora operativa senza soluzioni di continuità, ha un organico istruttori complessivo che penso sfiori le 100 unita (alcuni sono più operativi altri – come il sottoscritto – al momento contribuiscono in compiti collaterali ma ugualmente importanti per l’educazione dei nostri allievi.  Tutti i nostri istruttori sono autoprodotti (cioè entrano come allievi e crescono gradino dopo gradino). Non prendiamo invece istruttori “già fatti” dall’esterno: non ne abbiamo necessità e siamo convinti che è più forte il rischio di “cresi di rigetto” che di effettivo valore aggiunto a quanto già sviluppato dalla Scuola.
     
    Credo che abbiamo la maggior concentrazione di istruttori titolati di tutta Italia, sicuramente nel campo delle Scuole di scialpinismo, ma forse anche confrontandoci con qualsiasi altra Scuola, comprese quelle di alpinismo. Incidentalmente (nel senso che non consegue ad un nostro obiettivo strutturale) nell’organico abbiamo anche degli Accademici.
     
    Giusto per completare l’analisi puntuale e far capire a tutti di che “corazzata” stiamo parlando, aggiungo che, per la stagione 2023, la SUCAI organizza i seguenti corsi:
     
    – SA1 Invernale (iniziazione allo scialpinismo, gennaio-marzo, quest’anno si parte con 90 allievi): 6 uscite di cui una doppia (sabato-domenica).
    – SA1 Primaverile (prosecuzione fino a maggio per chi non accede all’SA2): 4 uscite, tutte in weekend. Stimata circa una 50ina di allievi, “derivano” dai 90 iniziali.
     
    – SA2 (perfezionamento, il numero degli allievi è drasticamente ridotto a 25 -30, tramite adeguata selezione): 5 uscite in week end fino a maggio, target tecnici più elevati (ghiacciaio, altra quota, dislivelli più consistenti, in una parola gite OSA se le condizioni lo consentono)
     
     – SA3 (corso su invito per allievi dell’anno o di anni precedenti, trattasi di perfezionamento e “pre-selezione” per prossimi aiuto istruttori): 3 o 4 uscite fra fine maggio e fine giugno. Target tecnici, sia sciistici che alpinistici, piuttosto elevati. Visto che Comninetti e Skeno, che hanno condotto il discorso su questo tema, sono liguri e quindi conoscono le Marittime, do loro un riferimento tecnico, relativo ad un’uscita realizzata nell’ultima edizione del Corso SA3 (che non si fa tutti gli anni): istruttori e allievi hanno dormito al Bozano, il giorno dopo Canale della Forcella, evidentemente sci a spalle e ramponi ai piedi, poi discesa dalla normale (sci a spalle) dell’Argentera fino al Passo dei Detriti e dal Passo ininterrottamente in sci fino al parcheggio sotto al Bozano. Il primo tratto sotto la Passo dei Detriti non è proprio “piatto” da fare in sci. Mi pare che fossero in una quindicina di allievi e 5 o 6 istruttori. Giusto per far capire i livelli tecnici su cui si muove la Scuola. Livelli tecnici sia sciistici che alpinistici. Senza aver partecipato all’SA3 è più ostico, oggi come oggi, entrare come nuovo aiuto-istruttore. Non impossibile, perché abbiamo bisogno anche di individui magari meno tecnici ma altrettanto didattici e soprattutto dotati di pazienza per le primissime uscite stagionali, ma certo che se fai l’SA3 con profitto entri direttamente in organico.
     
     
    A questi Corso di scialpinismo, si aggiungono in parallelo:
    – SBA1 (snowboard introduzione, gennaio-marzo) uscite in giornate tranne l’ultima week end, circa 20 allievi
     
    SBA2 (perfezionamento, aprile-maggio), 4 uscite, c’è una certa selezione rispetto agli allievi dell’SBA1, perché anche in questo caso crescono un po’ i target tecnici (come per l’SA2 rispetto asll’SA1), a naso direi 15 allievi.
     
    A tutto ciò si affianca l’attività della Sottosezione SUCAI Torino (che è una cosa diversa rispetto alla Suola, anche se spesso gli organizzatori sono gli stessi: gran culo organizzativo per costoro, io ho già dato per anni ed anni e ora sto in tribuna): gite sociali (dove si può partecipare sia con sci che con tavola), corso fuoripista (oggi denominato Freeride, utilizzo impianti e discese fuoripista) e un sacco di altre cose (NB: la Sottosezione organizza anche una sua attività estiva, ogni anno).
     
    Morale: essere una struttura con mentalità “caiana” non significa obbligatoriamente essere dei merenderos.

  38. Nella non-so-quanto-blasonata scuola scialpinismo Ligure la splitboard è ammessa ed abbiamo un aspirante istruttore snowboarder.
     

  39. Tanto per alleggerire.
    Giorno di Natale di quando ero un po’ più giovane: gita in mtb  poi pranzo e poi in falesia a fare a gara a chi fa il grado più alto, o il tiro x più velocemente dopo, appunto, l”ingozzata natalizia. Fantastico!
    Siccome sono e spero di restare un immaturo, questa storia dei vecchi e dei giovani caioti mi sa solo di luogo comune polveroso. 
    Un mese fa è diventato guida alpina un mio amico ventottenne (io lo sono diventato a 23 anni, ce bello era stato!). Uno con cui vado abitualmente a scalare o con gli sci. Anche il mio socio Franz Salvarerra è un ragazzo dell’89. Lavoriamo assieme come guide e andiamo in montagna a divertirci quando ne abbiamo il tempo. Gli altri miei 3 amici con cui scalo e scio spesso sono nati tra il ’58 e il ’70.
    Il neo guida, appena fresco di nomina mi ha mandato una foto dove appariva con tutti gli allievi promossi e i loro istruttori. Tutti alpinisti coi controcoglioni, specifico, e un messaggio che non riporto qui solo per pudore, in cui mi diceva delle prime volte che l’ho portato in montagna e di quello che ha imparato da me, ormai vecchia guida…
    Mi ha commosso e ancora una volta mi ha ricordato che una delle cose belle dell’alpinismo è quella di non risentire dell’età di chi compone cordate che sono tali anche nella vita di tutti i giorni. Parlo di uno che fa il 7c trad a vista e che a 16 anni è stato campione mondiale di snowboard slope style. Fortissimo, modesto e prudente, sono fiero di avere amici così.
    Le generazioni sono fatte per essere mescolate, come le etnie (non dico razze sennò qualcuno m’attacca il pistolotto dell’altra volta) perché ci si arricchisce l’un l’altro. 
    Si va a tiri alterni e se ce n’è uno particolarmente duro comanda il giovane. Come nella vita. È così che si evolve e si tiene duro, se serve.
    Altro che cannibali. 

  40. 112 Matteo. Non è fondata l’accusa che mi rivolgi, leggi bene il 110 a Battimelli.
     
    Io resto fermamente convinto che il CAI non possa che essere caiano fino al midollo, sennò che CAI è? Tuttavia se si creano spazi per esperienze alternative, come quelle raccontate da Battimelli (ma che per gli storici/analisti come me sono note da tempo immemore), da parte mia non c’è nessun ostracismo. Occorre però, come avvenuto a Roma, che la cosa nasca e cresca in modo spontaneo e genuino, il che presuppone l’esistenza di un gruppo di interessati e non di un singolo interessato, e inoltre che il tutto sia armonico all’interno della Sezione CAI di riferimento. Evidentemente a Roma così è stato e va benissimo.
    Ma invece mi oppongo con forza all’ eventuale “obbligatorietà” che ogni Sezione abbia, volente o nolente, una vetrina di quel tipo. Dove non è sentita (o non è sentita dalla maggioranza dei soci CAI già in essere in quella Sezione), tale esperienza sarebbe una forzatura e produrrebbe solo fastidi, dissidi e danni al CAI.
    Infatti nei contesti storicamente caiani (come, a puro titolo di esempio, la Scuola di scialpinismo cui appartengo, ma anche l’altra scuola scialp torinese non scherza…), l’introduzione forzata di quella mentalità “innovativa” produrrebbe solo crisi di rigetto e il rischio di perdere decine se non centinaia di soci CAI, magari iscritti da decenni e decenni, solo per correre dietro a qualcosa di “moderno” e a quattro gatti cui piace quella ventata innovativa.
     
    Meglio stare con i piedi per terra: nelle “aree” caiane, si lasci totalmente inalterato il CAI caiano, senza tentare esperimenti scriteriati. Voi avete difficoltà ad accettare il principio che il CAI caiano possa piacere anche ai giovani. Nella nostra scuola, “caianissima” per definizione, abbiamo sold out di iscrizioni tutti gli anni (e moltissimi sono i giovani e i giovanissimi): ciò significa che c’è domanda di caianità, anche da parte di giovani e giovanissimi.
     
    Questi giovani, io sono arci sicuro (perché in una certa misura sono nostri figli anagrafici e loro amici/che), si iscrivono proprio perché l’ambiente è marcatamente caiano: se l’ambiente e l’ideologia venissero cambiati, molti nostri iscritti sarebbero disorientati e probabilmente non si iscriverebbero alla “nuova” scuola.
     
    Se l’attuale scuola, in ipotesi provocatoria, non si dovesse trovare bene nell’eventuale “nuovo” CAI (quello da voi vagheggiato), noi la sposteremmo: a Torino abbiamo solo l’imbarazzo della scelta fra innumerevoli istituzioni “montanare” che ci farebbero ponti d’oro. Extrema ratio costituiremmo una ASD: abbiamo tutti i numeri culturali, professionali e finanziari per farlo.
     
    Ebbene in questa ipotesi (sia ben chiaro è solo un esempio “provocatorio”, non vogliamo assolutamente abbandonare il CAI Torino cui siamo legatissimi), io sono convintissimo che il 95% dei nostri allievi ci seguirebbe, abbandonando il “nuovo” CAI. Quindi alla fine a perderci sarebbe solo il CAI: non avrebbe più, nella sua faretra istituzionale, una Scuola blasonatissima e magari perderebbe decine se non centinaia di soci…

  41. Jerome Savonarola: difficile trovare un’accozzaglia di luoghi comuni così completa.
    Io, in ufficio negli ultimi 7-8 anni, ho incontrato almeno quattro giovani che hanno iniziato sulla plastica, rigorosamente fuori da qualsiasi corso CAI, e vogliono arrampicare in montagna. Di due sono diventato amico e diverse volte siamo andati insieme.
    Se c’è qualcosa che mi desta perplessità in loro è l’eccesso di prudenza: in falesia sono su gradi che io manco dipinto, stabilmente con il 7 davanti, in montagna temono e si preparano per una via di 200m di V classico come se dovessero fare il Badile…però è molto gratificante per me e per la mia autostima cigolante di mediocre (per quanto appassionato) coniglio, quando mi chiedono consigli e info sulle vie o mi mandano davanti! 🙂

  42. Cogliendo gli auguri del 112 e dei rischi alimentari connessi alla giornata odierna, non posso non ricordare alcune parole lette in un libercolo di qualche anno fa: 
    “A quanto ricordo, perfino dopo il pranzo di Natale, trovavo qualche ora per fare trazioni nel garage dei miei…..”
    da Topo di Falesia – Jerry Moffat
    Meditate, meditate.
     

  43. Più di 100 commenti, rinuncio a leggerli tutti ma mi pare che la gran parte siano di vecchi, ad un post dove si parla anche di giovani. Non rinuncio comunque a dire la mia nella speranza che qualcuno di coloro che leggono e che magari hanno un qualche ruolo in una sezione CAI possa trovare un piccolo spunto di riflessione.
    Io non sono più giovane, lo sono stato (in seno a una sezione CAI) in un’epoca ancora recente ma totalmente diversa, prima dell’avvento dei social. Frequento ancora la mia sezione, e vedo i giovani avvicinarsi alla montagna: abbiamo pure un gruppo “juniores”, sono pochissimi ma ci sono. Il fatto è che viviamo in un’epoca e in una società votate all’apparenza, senza valori, caratterizzate da un giovanilismo estremo e ottuso dove essere giovani è considerato un valore in sè. L’epoca in cui i ragazzi si avvicinavano alla montagna evitando il CAI perchè la vedevano come un’associazione di vecchi rompicoglioni e usavano l’appellativo “caiano” a mò di insulto è finita da tempo. I giovani di oggi non sono interessati a sviluppare una dialettica riguardo all’andare in montagna, a trovare nuovi modi innovativi per fare alpinismo… vedono su instagram qualcuno con un paio di belle chiappe o muscoli tatuati attaccato a una falesia in riva al mare, o che sfreccia su pendii immacolati con sci da 1000€ che usi una volta all’anno, e vogliono imitarlo; non interessa tanto praticare l’attività nè tantomeno approfondirne gli aspetti culturali, quanto acquisire i segni esteriori dello stile di vita legato a quell’attività. Un tempo un ventenne comprava un furgone WV con 300mila km e andava a viverci nel parcheggio a La Grave o Buoux perchè non aveva soldi e quello stile di vita era l’unico che gli consentiva di praticare le attività scelte con la frequenza e dedizione richiesta. Oggi i ventenni si fanno comprare dai genitori furgoni camperizzati che costano come tre anni di weekend in albergo 3 stelle e ristorante, per poi postare su instagram che fanno la van life.
    In questo contesto il CAI è portatore di un modo di andare in montagna totalmente incompatibile con l’essere giovani, ed è giusto così. Frequentare il CAI con profitto significa e richiede di essere in grado di avere valori, obbiettivi stabili e portare avanti progetti a lungo termine, cosa che i giovani di oggi non sono in grado di fare (con l’unica eccezione di coloro che si avvicinano alle competizioni di arrampicata, che però nulla hanno a che vedere con la montagna e il CAI); e lasciamo che sia così. I giovani cresceranno e matureranno (si spera) e approderanno al sodalizio ad un’età più confacente.
    Il CAI non deve attrarre i giovani, invece deve cercare di non dissuadere i “non più giovani” nella fascia 30-50 che potrebbero portare linfa vitale nelle sezioni, e invece sono ostracizzati dallo zoccolo duro degli over60 che non vogliono perdere la loro posizione e visibilità, e scoraggiati dal carico di lavoro che spesso gli è richiesto, più compatibile con una vita da pensionati che con chi ha lavoro e famiglia.

  44. “Ma allora perché molti di voi vogliono togliere ai sabaudissimi  come me (numerosi, pimpanti e molto “istituzinali”) il nostro CAI caiano?”
    Questo si chiama rigirare la frittata.
    Nessuno vuole togliere alcunché, ma semmai sei tu che vuoi elevare ad assoluti i tuoi criteri e a voler imporre agli altri la tua visione e i tuoi giudizi, attraverso l’infinita, verbosa ripetizione dei tuoi pregiudizi infondati su tutine, cannibbali, obbedienza pronta, cieca e assoluta, patenti e libretti e elevare a verità assoluta le tue impressioni, che ti affanni a definire “personali”, ma subito dopo diventano “statisticamente rappresentative” (il che è una contraddizione in termini) e poi assurgono a valore generale.
     
    NOTA PERSONALE: Battimelli, se quando vieni al nord non mi avvisi per condividere le libagioni del Penotti, il termine corcare di mazzate assurgerà a nuove e inarrivabili vette!
     
    E a tutti un buon natale (anche se personalmente sono già in overdose mangiatoria…)

  45. @92 Genoria. Una precisazione: parlo sempre e solo a titolo personale. Tuttavia sono un soggetto statisticamente rappresentativo del modo di pensare  qui abbastanza diffuso. Ma sia chiaro che nessuna carica istituzionale va confusa con l”esposizione delle mie tesi.
     
    Sull”altro punto fai Confusione tra due piani molto diversi. Una cosa è l’analisi sul CAI,  un’altra le mie tesi sulla preferibilita’ di una sensibile riduzione della presenza antropica in montagna. All’interno dj questo secondo tema (che NON è il tema dell’articolo), io non escludo che si possa arrivare a meccanismi di selezione degli accessi. Fea questi meccanismi, uno potrebbe essere quello delle patenti. Se arriveremo a quel punto, ci dovrà essere una struttura che rilascerà tali patenti. Si potrà optare per una struttura oggi non esistente, magari Tutta incentrata sul coinvolgimento delle Guide. Ma  conoscendo la natura italica, io non escludo che il legislatore possa essere tentato da prendere la struttura didattica del CAI, che esiste già  da 90 anni, è testata e diffusa capillarmente, e così oromuoverla in quel ruolo. In ogni caso si tratta di riflessioni importanti ma ancora a tavolino. Queste ultime riflessioni, che qui ho esposto con disponibilità caiana perche’ mi fa piacere contribuire a farti capire le cose, sono fuori tema rispetto all’articolo, per cui e bene non prendere strade che allontanano dal tema del giorno.
    Stame bin.

  46. Battimelli. So, per aver letto a lungo su di voi, della  storia romana. Diversa, diversissima dalla parte più sabauda (quella cui appartenho) del CAI torinese, ma ugualmente di successo e di gioia per chi vi partecipa. Ma appunto, tutti gli esterni al CAI gridano alla crisi del CAI e poi salta fuori che in realtà un sacco di gente si diverte nel CAI: i sabaudi in modo sabaudo, i romani in modo romano. Basta rispettarci reciprocamente. Se io togliessi a te, Battimelli, il  CAI “romano”, tu ti ribelleresti.  Giusto. Ma allora perché molti di voi vogliono togliere ai sabaudissimi  come me (numerosi, pimpanti e molto “istituzinali”) il nostro CAI caiano? A noi il CAI piace così, caianissimo, perché siamo caiani dalla nascita e, fin da bambini, viviamo con approccio “caiano” in tutti i risvolti dell’esistenza, anche quelli che  nulla hanno a che fare con la montagna. Ecco perché, per quello spaccato socio-culturale cui appartengo, il CAI è un valore in sé. L’ho già detto e non me ne vergogno: andare in montagna e far parte del CAI sono due cose autonome, parallele, anche se collegate, ma indipendenti. Io mi do da fare nel CAI perché mi piace il CAI in quanto tale, non per fare montagna conil CAI : se voglio fare una gita/arrampicata, posso andarci per conto mio quando voglio. Quindi che ci siano più modi, tutti positivi, di fare CAI è assodato. Fra noi una solo cosa: rispettiamo i diversi approccio.
     
    Discorso diverso verso chi (a puro titolo di esempio i Cominetti di turno) dall’esterno, critica TUTTO il CAI pretendendo che il CAI cambi e si snaturi. A questi signori io dico: se  il CAI in quanto tale non vi piace, lasciateci stare, fate la vostra strada, nessuno di noi vi corre dietro.
     
    Auguri a tutti.

  47. Come tutte le generalizzazioni, quella sul caiano è semplicemente stupida. Il Club Alpino non si chiama Italiano a caso. C’è dentro di tutto. Ottimi tecnici, pessimi istruttori, presidenti di sezione dalle mani lunghe, altri onestissimi, volontari che si fanno il mazzo gratis e continuamente ed anche cialtroni variegati.
    Io però sono una persona semplice e pratica. Una “ronchia” alpinisticamente ed un bravo torrentista.
    Nel mio piccolo contribuisco alla vita di sezione tenendo corsi di torrentismo e gestendo la rivista sezionale. Grazie alla scuola Figari a 20 anni ho imparato (costo del corso 110000 lire se non ricordo male, mia madre mi boicottò e dovetti dare fondo al cassetto dei regali della nonna) quello che serviva per arrampicare. A 40 anni ho imparato lo scialpinismo, pagando un corso 200 euro.
    Faccio gite su sentieri mantenuti e dal CAI, dormo in rifugi e bivacchi gestiti dal CAI. Non vedo molte altre associazioni che fanno altrettanto.
    Si potrebbe fare meglio? Sicuramente.
    Il CAI è vecchio? Sicuramente (alla Ligure età media 50,3 e io a 53 anni sono uno dei “giovani” del direttivo).
    Fra 20 anni il CAI vedrà le sezioni e le scuole chiudersi una dietro l’altra, per mancanza di dirigenti e istruttori? Probabile, ma non penso che sarà un bene. Io soluzioni non ne ho.
     
    P.s. qua una serie di numeri sulla realtà della mia sezione, pag. 3
    https://issuu.com/cailigure/docs/32_-_2-2022
    P.s. 2 nelle assicurazioni guardare bene massimali e franchigie
     
     
     
     
     

  48. @107. Giuseppe, “anche se ai corsi ho dato tanto, non è leale chiamarmi santo”.
    Sarai perdonato se, la prossima volta che salgo in Sabaudia, appronterai adeguate libagioni.
    Per ora, considerati corcato di mazzate.

  49. Sono iscritto al CAI dal 1964, ho fatto il corso di roccia nel 1967 e dall’anno seguente sono nell’organico della scuola “Paolo Consiglio”, di cui sono attualmente direttore (e sì, dopo più di cinquant’anni

    Dopo aver letto questo mi verrebbe da dire Battimelli santo subito. Siccome lo conosco, probabilmente mi corcherebbe di mazzate qundi non lo dico ma lo penso. ?
     

  50. Mi innesto io visto che ho lanciato il sasso.
    Per curioso 99
    Non concordo con Massari: un arrampicatore anche se mediocre non deve mai sbagliare il nodo che vuole fare all’imbrago prima di partire, qualsiasi nodo esso sia anche il più fantasioso, dico mai ripeto mai, confermo mai.
    La contro asola e un po come in fase di contratto alzare il massimale di risarcimento dell’assicurazione in caso di morte da 5miliono a 5,5 milioni di euro. Nulla più!
    Attendo smentite. 

  51. Il bulino (gassa d’amante, chiamata anche nodo di Bulin, nodo bolina, nodo bulino, cappio del bombardiere, o semplicemente gassa) è ottimo per il traino di auto o altro perchè, anche se è stato sottoposto a forte tensione, si scioglie facilmente a differenza del nodo a 8 (savoia). Provare per credere, quindi per legarmi 8 a vita. 
     

  52. “Quanto alla continuazione, che dire… grazie per l’augurio, io ci provo, anche se ragioni strettamente anagrafiche fanno ritenere che sarà più una continuazione di ricordi che altro. Ma finché riesco a staccarmi da terra…”
     
    Ma va là, Battimo, che sei in partenza per una vacanza natalizia arrampicatoria…
    Come diceva mia nonna te mandi minga a dà via el cu perché te foò un piaseé
     
    Divertitevi, bastardi!

  53. Così tanto per chiacchierare un po’…
    @98 Massari. Ciao Giova, non credo ci siamo mai incontrati, ma qui la storia della  libera di Kajagogo e  di Polvere di stelle  è ancora una di quelle che si raccontano la sera dal mozzarellaro di Sperlonga… Quanto alla continuazione, che dire… grazie per l’augurio, io ci provo, anche se ragioni strettamente anagrafiche fanno ritenere che sarà più una continuazione di ricordi che altro. Ma finché riesco a staccarmi da terra…
    @100 Cominetti. Altro che se mi ricordo la Troll! In effetti, le battute erano piuttosto relative al rischio (immaginato) per i cabasisi, volgarmente cojons. Vero è che non ci sono mai volato seriamente (però mi ci sono appeso sovente assai, senza apparenti danni alle parti di cui sopra). Forse il fatto di essere de Roma, quindi meno legati ad antiche e consolidate tradizioni alpinistiche locali (i sabaudi di qua, i “sestogradisti” di là) ci ha reso paradossalmente più aperti alle novità. Diciamo che, senza nessun merito particolare, siamo stati fortunati.
    Comunque, ne ho di amici e conoscenti dell’area torinese (non faccio nomi per non tirare in ballo persone che magari ne farebbero volentieri a meno), che al passo coi tempi ci sono stati eccome, e ci sono tuttora.

  54. Verissimo Marcello, il problema è che i CAI ad ogni novità si chiude salvo poi arrivare in modo ridicolo dopo un bel po’…
    Vedi con scarponi/scarpette, secchiello/grigri ecc…

  55. In caso di esecuzione scorretta del nodo (ad esempio l’otto mal ripassato che sotto tensione potrebbe sfilarsi) il contronodo impedisce alla corda di sfilarsi sotto tensione agendo all’incirca come un nodo inglese semplice 
    Sembrano cose superflue ma credo sia successo a tutti coloro che scalano spesso di fare inavvertitamente male il nodo; diciamo che ora con la prassi del “double check” succede sicuramente meno.

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