Il Dente del Lupo
di Salvatore Bragantini
Marzo 1965, a Castelli, sotto la parete Nord del Monte Camicia, pare una scena di teatro: mezzanotte e mezza, freddo, paese immerso nel silenzio, piazzetta lastricata a sassi, viva luce di una lampada, sul filo teso fra i muri rustici di due case. Con Carlo Alberto (Betto) Pinelli – un “veterano” che ha salito il Saraghrar Peak nel ’59, da noi giovani con finto sussiego definito “Il Conte” – stiamo facendo gli zaini. Alle nostre spalle, nella notte, la muraglia Nord del Camicia, solitaria e grandiosa con i suoi oltre mille metri di altezza e diversi chilometri di estensione; siamo qui per salirne la cresta nord arrivando in cima al Dente del Lupo, una piccola punta sulla cresta, mai salita finora nonostante diversi tentativi, quasi una piccola gara fra alpinisti della Sucai Roma. Nessuno s’è mai sentito di salirlo d’estate, e i tentativi invernali sono stati respinti dalla neve, pericolosa perché abbondante e inconsistente. Così, quando Betto mi invita a tentarne la prima salita, insieme a Chiaretta Ramorino, Franco Cravino e Mario Lopriore, il mio orgoglio è solleticato; accetto al volo.
Immagine estiva della parete nord del Monte Camicia (Gran Sasso). Il Dente del Lupo è quella cima appuntita a sinistra
Con Betto siamo partiti ieri; lui deve prendere accordi per la spedizione “Città di Teramo” che andrà quest’estate nell’Hindu Kush. Io ho 21 anni e l’idea di assistere alla preparazione di una spedizione extra-europea mi affascina. Nel lungo viaggio, ravvivato da due scoppi al motore, che segnalano la rottura prima della cinghia del ventilatore, poi del manicotto dell’acqua, Betto guida secondo la definizione di Paolo Gradi, “A 60 all’ora, in ogni condizione di traffico”.
A Teramo a casa di Gigi Muzii, mi faccio una precisa idea della preparazione di una spedizione; si parla di scelta degli obiettivi, dei versanti di salita, delle tecniche? No, la voce di Betto scandisce: Tot paia di mutande, tot di calze, tot berretti di lana, etc. Mi rifugio nella biblioteca del gentilissimo Muzii. Sabato mattina seconda puntata, a Pietracamela da Bruno Marsili, dove il tema cambia: si parla di dentifrici e Aspirine.
Nel pomeriggio, ritorno a Teramo e di lì a Castelli; per strada vediamo al binocolo la cresta, con il caratteristico torrione che segna l’inizio dell’ascensione vera e propria.
All’osteria di Castelli spazzolo le mie provviste sotto gli sguardi curiosi degli avventori. Pinelli ingurgita arcane pillole; fa il suo ingresso nel locale un ragazzo con una piccozza alta quanto lui. Non penso ad una “Corsa al Dente”, come alle Jorasses, bensì al ricordo di Marsili che nel ’27, andando alla prima salita della Nord del Camicia, fu scambiato per un operaio addetto al traforo del Camicia, progetto di cui allora si parlava.
Visto che Chiaretta, Franco e Mario tardano ad arrivare, andiamo a letto; sono già addormentato quando Mario ci sveglia, proponendo la partenza immediata; idea respinta, meglio stare a letto (dire “a dormire” sarebbe esagerato), che battere i denti in fondo a un canalone aspettando l’alba. Quando finalmente vedo le lancette della sveglia sulla mezzanotte, scuoto Betto: bisogna alzarsi e partire, fosse qui Enrico Costantini, mio frequente compagno in questo periodo, dissuaderebbe Betto da tali fisime occidentalistiche. Con malcelato sadismo svegliamo i nostri compagni che dormono in auto, e prepariamo gli zaini – scena iniziale – nella piazzetta lastricata.
“La prima dote dell’alpinista è la leggerezza”, sancisce Betto, mentre mi rifila formaggi e arance della sua dotazione personale: così si fa la “spartizione dei carichi”.
Lasciata Castelli, in auto fino alla Scuola di Ceramica, dove inizia una specie di percorso di guerra, per campi arati e fili spinati; i cani ululano nel buio. Betto guida come Virgilio il gruppo, con gli occhiali appannati sbaglia strada, elevando pensieri grati a chi, come Silvio Jovane, “Ci additò la via dell’Alpe”, ma ora se ne sta al calduccio. Io e Mario, “i giovani”, camminiamo in maglietta nella neve, mentre gli altri si coprono ben bene, ma quando ci si ferma fa freddo. Arrivati alla fine del bosco è ancora buio; ci si vede appena, potremmo anche procedere ma ci fermiamo ad aspettare il sole, battendo i denti per il gran freddo. Con l’alba il tempo non si dichiara e Chiaretta decide che la cosa non le interessa; ci aspetterà in basso. Finora siamo stati fortunati, non abbiamo trovato le montagne di neve che han costretto chi ci ha preceduto a una sfiancante marcia nella neve alta del bosco. Mille metri al di sopra delle nostre teste, i denti della cresta del Camicia emergono dallo sfondo diafano del cielo.
Qui inizia l’ascensione vera e propria: aggiriamo il torrione visto ieri e entriamo in un canale, dove sosto e recupero Mario, dopo aver superato un passo verticale afferrandomi ad un fascio di erbe, estratto a fatica dalla neve. Bisogna pervenire ad uno stretto e lunghissimo canalino, traversando un pendio di neve ripida ed instabile che ci fa un po’ paura, così piantiamo un chiodo in una roccia affiorante. Qui, proprio per la neve instabile, s’erano infranti i tentativi precedenti.
Nel canalino si mette bene, l’inclinazione sarà sui 50°, la neve è dura quanto basta e non di più; così si instaura una gara prima tacita, poi sempre più aperta, a chi va più in fretta. Alla piazzola la sosta è armata in un momento e il compagno già sale. Alla fine i “vecchi”, Betto e Franco, esibiscono tutta la loro superiorità morale lasciandoci arrivare prima alla fine del canalino e poi in cresta.
Qui la neve torna instabile. Betto con sguardo intenso, scruta il vicino Paretone e mi chiede un’arancia. I miei propositi di fargliela pesare cedono alla solidarietà alpinistica.
Immagine estiva in vetta al Dente del Lupo
Ora il sole splende, il riverbero è forte. Si può procedere per neve, come Betto e Franco, o su roccia, come invece facciamo Mario ed io; non riesco qui a riprodurre il senso di superiorità, non dico di spregio, con cui Betto Pinelli pronuncia la parola “roccia”. Salgo un diedro e pianto un chiodo, proseguo arrampicando coi ramponi su un breve ma divertente tratto di misto.
Scendiamo poi per rocce rotte ad un intaglio, ormai siamo quasi al Dente. Altro pendio di neve instabile, altri chiodi di sicurezza nelle rocce affioranti, altri canali di neve buona, dove la tacita tenzone ricomincia. Alla forcelletta sotto il Dente, folate di nebbia che il vento ci sbatte in viso. A Mario tocca l’ultimo tratto di misto, sbuca sul Dente e mi recupera; Betto e Franco a ruota.
La nebbia sale veloce, grazie a squarci improvvisi vediamo il resto del panorama, per lo più sereno. Rinunciamo alla traversata fino alla multipla vetta del Camicia, troppo lontana per chi non vuol certo bivaccare. Non può mancare il gesto rituale: mettiamo in una scatoletta vuota un biglietto con i nostri nomi. Dovrei ora dire che non ce ne volevamo andare, ma il vento era forte, la nebbia impediva di godersi il panorama: ce la siamo filata di fretta.
L’autore, di profilo, in vetta al Piz da Lec de Boè, 1965
Scesi alle zone di neve infida, abbandoniamo la cresta per un ripido e lungo canale, saranno una quindicina di tiri: uno scende e l’altro lo assicura, poi scende anche lui e sorpassa il compagno in sosta procedendo nella discesa. Arriviamo alfine al Gravone, uno dei pochi nevai perenni appenninici; qui mordono i ramponi sulla stretta lingua di neve, sovrastata da ripidissimi salti. La neve abbellisce i salti e queste pareti, quasi desolate in estate. È uno spettacolo grandioso, muraglie di calcare compatto, con venature azzurre qua e là, solcate da fessure che terminano in lingue di ghiaccio. È una vista superba e noi siamo solo fuscelli in questo grande imbuto. Imbuto di valanghe è infatti, le cui tracce evidenti ci incitano a svignarcela in fretta, superando il salto finale del Gravone.
Davanti a noi, oltre un ammasso di enormi blocchi di neve valangata, quasi dei seracchi, il bosco, e la fine delle nostre 16 ore di fatica. Sopra le nostre teste, svettano grandi pale di aspetto dolomitico. Cravino emerge da questi simil seracchi esclamando, con il suo eloquio smozzicato:“Siedi, o culo”. Pinelli tace sdegnato, guarda e passa. Arrivati alle macchine, salutiamo la paziente Chiaretta in attesa; ci voltiamo a guardare la cresta del Camicia e, ci crediate o no, sul “nostro” Dente batte il sole al tramonto.
5
Bello. E la prima foto, ingrandita, è stupenda.