Dovremo chiamarci di nuovo rocciatori?

L’arrampicata sportiva si sposta nelle città?
di Maurizio Oviglia

Quando è nata l’arrampicata sportiva? E’ una domanda che ai corsi CAI di arrampicata libera si fa spesso ai candidati istruttori… La risposta che l’esaminatore si aspetta dal candidato è: “nel 1985, con le prime gare di arrampicata, a Bardonecchia”. Tuttavia la data di inizio di questo “tipo” di arrampicata – o forse dovremmo chiamarlo stile – è assai vaga. Dobbiamo innanzi tutto capire cosa si intende per “arrampicata sportiva” prima di eventualmente definirne la genesi. Solitamente si è sempre ritenuto che da quando si sono cominciati ad usare sistematicamente gli spit nelle falesie, piantati comodamente appesi alle corde e a distanza ravvicinata, l’arrampicata “protetta” poteva più sbrigativamente definirsi “sportiva”, in contrapposizione al free-climbing, che invece intendeva un certo modo di arrampicare (in libera) senza specificare il tipo di protezioni utilizzate. Questo è avvenuto, in Italia, all’inizio degli anni ottanta, quindi ben prima delle gare di Bardonecchia. Ma, come in tutti i colori in cui si è manifestato l’alpinismo e l’arrampicata, anche nel caso dell’arrampicata sportiva vi era una precisa filosofia di base. Ispirati da ciò che stava succedendo in Francia, era apparso chiaro a tutti che per raggiungere nuovi limiti occorreva ridurre il rischio, che agiva come forte inibitore della prestazione. Nelle falesie d’oltralpe erano comparsi i primi spit sui passaggi più difficili e la riduzione del fattore psicologico induceva gli arrampicatori ad osare di più e a spingere in avanti il limite. In breve si giunse a chiodare

Bardonecchia, SportRoccia ’85: a sn è Patrick Edlinger, a ds è Riccardo Cassin
Bardonecchia-sportroccia1985-Edlinger-Cassin-CIMG0396

sistematicamente le falesie a distanza ravvicinata e questa arrampicata, liberata dal rischio, finì per essere definita “sportiva”. Quando poi anche alcune vie in montagna cominciarono ad essere protetta da spit, anche queste vennero chiamate “vie sportive” o più sinteticamente “multipitches”.

In realtà, le gare di arrampicata non sono nate in Italia, ma si facevano già da molto tempo in Unione Sovietica. Erano spesso gare di velocità, ma il concetto di base non cambiava. Tutti i concorrenti erano posti sullo stesso terreno, nelle stesse condizioni, e concorrevano tra di loro. Un giudice si sarebbe incaricato di confermare la vittoria del migliore, in base a delle regole prestabilite. E’ bene ricordare che una parte del mondo dell’arrampicata, almeno inizialmente, si dichiarò contrario alle gare (Manifesto dei 19) e che buona parte di essi erano appassionati arrampicatori sportivi. Questo conferma che vi era una certa differenza ideologica di base tra l’arrampicare in una falesia e competere con altri con tanto di giudice a stabilire chi fosse stato il migliore. In seguito le gare si sono poi spostate sulla “plastica” ovvero le strutture indoor, non certo per scelta quanto per necessità di non rovinare le falesie naturali (adattandole alle esigenze di gara) e per creare condizioni il più possibile standard dove gareggiare.

Non è però mia intenzione tediarvi oltre con la storia, dato che il seguito è noto a tutti, ma questa premessa mi serve per parlare di due recenti articoli che sono stati pubblicati a firma di due noti e bravissimi arrampicatori sportivi.  Sulla rivista inglese Climb Magazine è stato pubblicato un articolo dal titolo Strenght vs Skill: The 21st Century Paradox a firma Steve McClure. Steve è uno dei più famosi arrampicatori del mondo, unanimemente riconosciuto il più forte arrampicatore sportivo inglese, il primo a superare la barriera del 9a+.

L’articolo è stato tradotto in italiano e pubblicato sul blog “Calcarea” a questo link:

http://calcarea.wordpress.com/2014/02/22/forza-contro-abilita-il-paradosso-del-21-secolo/

Steve McClure, un arrampicatore sportivo ai vertici della disciplina ma anche un buon trad-climber. Una “razza” in estinzione?
McClure Regent Street E2 5C

A distanza di pochi giorni Alessandro “Jolly” Lamberti pubblicava un articolo sul suo sito “Climbook” dal titolo Nuova Tecnica avanzata. Capitolo 2. Jolly, dal canto suo, è uno dei più noti arrampicatori italiani, il primo ad aver superato la barriera del 9a. E’ inoltre un’affermata guida alpina e gestisce una delle più frequentate palestre indoor della capitale. Ecco l’indirizzo dove poter leggere l’articolo:

http://www.climbook.com/articoli/881-nuova-tecnica-avanzata-capitolo-2

Alessandro “Jolly” Lamberti. Foto Climbook
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Ciò che sorprende dei due articoli non è tanto il fatto che abbiano molti punti in comune, ma piuttosto che entrambi gli autori, arrampicatori che hanno raggiunto i loro migliori risultati con anni di allenamento a secco, principalmente sulla plastica, denuncino che nella nuova generazione vi sia una sproporzione della forza rispetto alla tecnica e che questo porti ad una grossa discrepanza tra i risultati raggiunti indoor da quelli conseguiti sulla roccia naturale. Insomma pare sia avvenuta o stia avvenendo una vera mutazione genetica, degna delle teorie di Darwin! Jolly arriva addirittura a consigliare di lasciare, per cercare di porre rimedio, la plastica per qualche tempo, ritornando sulla roccia, se si vuole alla fine ottimizzare i risultati. Dal canto suo McClure scrive: Sembra ci sia una regola per le attività che coinvolgono il movimento del corpo, che stabilisce che si deve avere un background di almeno 10.000 ore di pratica per essere considerati dei “maestri”. Visto che ben pochi possono essere considerati tali, non si può che cercare di migliorare. Puntando innanzitutto l’attenzione sui lati deboli, ad esempio tenacia, controllo della paura, flessibilità, abilità dei piedi, capacità di lettura della roccia, ritmo e fluidità, solo per menzionarne alcuni.
 E’ bene ricordarsi che per la gran maggioranza dei climbers – inclusi molti top – la forza non è l’anello debole della catena. Tecnica scarsa, paura di volare, paura di fallire e carenza  di ritmo sono più probabilmente in causa. Prima risolveteli, poi ricominciate ad allenarvi…”

Manolo impegnato nel tipo di scalata a lui più congeniale, appigli piccolissimi e lontanissimi
Manolo

Fin qui sembra un po’ la scoperta dell’acqua calda, anche se la convinzione che una volta in possesso della forza tutto il resto “venga da sé” è oggi molto diffusa. Possiamo inoltre chiudere un occhio sul fatto che per anni siano usciti manuali che consigliavano esattamente l’opposto rispetto a quanto scrive oggi McClure, ovvero di puntare tutto sull’allenamento a secco e soprattutto sulla forza per ottenere i migliori risultati sulla roccia. Ma ciò che mi sembra più interessante far notare è il fatto che i due top climbers avvertano in qualche modo che la nuova generazione non senta quasi più il bisogno di arrampicare su roccia. Gli arrampicatori più carismatici degli anni Ottanta, Berhault, Glowacz, Edlinger, Manolo, Moffat e Güllich, erano climbers capaci di arrampicare su ogni terreno. Erano fuoriclasse indiscussi della disciplina, perché forse l’arrampicata allora più che a uno sport somigliava a un’arte marziale. Per tutti gli anni Novanta e la successiva decade, i climbers si sono allenati duramente a secco per ottenere poi i migliori risultati in falesia. Negli anni Novanta abbiamo assistito all’affermazione di nuovi top climber, capaci di essere ai vertici in gara come in falesia. In essi potevamo ancora vedere la magistrale tecnica dei loro predecessori, pensiamo ad esempio ad un François Legrand, per anni vincitore della Coppa del Mondo. Oggi vi sono certamente figure ancora abili sia sulla roccia come sulla plastica, ma si direbbe che la tendenza sia ad una separazione degli ambiti, soprattutto nella massa praticanti più che negli atleti di punta. Probabilmente, come è avvenuto anni fa per l’arrampicata sportiva, anche l’arrampicata indoor sta rivendicando una sua dignità, se necessario completamente slegata dalla roccia naturale… Addirittura Lamberti si spinge a scrivere nel suo articolo: la scalata indoor è bella, sana e divertente. Solo non è scalata, si dovrebbe chiamare con un altro nome, così come il latte di soia non si dovrebbe chiamare latte”.

Le moderne gare ad Arco, con la roccia naturale ormai sullo sfondo. Foto Maurizio Oviglia
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Non è al momento possibile prevedere cosa succederà nei prossimi anni ma in rete si possono già leggere alcuni commenti ai due articoli citati che appaiono “sintomatici” di un certo trend. Al contrario di quanto afferma Lamberti, c’è addirittura chi giura che l’arrampicata sportiva non si fa sulla roccia, ma si fa sulla plastica, dove c’è un giudice a confermare che tu ottenga effettivamente quei risultati senza barare. E l’arrampicata su roccia, quella che noi abbiamo sempre chiamato arrampicata sportiva? Ora viene definita come “divertimento o scarico per lo sportivo”, semplicemente, “scalata”. Dunque, stando ai rumors della rete, sembrerebbe che l’arrampicata si stia via via spostando nelle città, peraltro senza sentire alcuna nostalgia dell’ambiente naturale, dei monti, dei boschi e delle scogliere…

Ricordo un tempo in cui abbiamo fortemente sentito la necessità di distinguerci dagli alpinisti. Forse proprio per questo abbiamo iniziato a indossare prima fasce nei capelli e poi collant colorati e t-shirt, finché qualcuno ha cominciato a chiamarci semplicemente “arrampicatori”. Chi in futuro rimarrà legato alla vecchia e cara roccia naturale, dovrà dunque accettare di riprendere il vecchio appellativo di “rocciatore”? Trent’anni fa questo termine ci pareva quasi offensivo, ci faceva pensare alla camicia a quadri ed ai calzettoni rossi: oggi, tuttavia, potrebbe quasi farci piacere!

Maurizio Oviglia (CAAI/INAL)

oviglia

Postato il 27 marzo 2014

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Dovremo chiamarci di nuovo rocciatori? ultima modifica: 2014-03-27T07:18:47+01:00 da GognaBlog

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6 pensieri su “Dovremo chiamarci di nuovo rocciatori?”

  1. Qui (http://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0002120.pdf) il testo della proposta di legge che porterebbe una nuova figura in ambito professionale con motivazioni del tutto assurde (se si legge bene la prima parte del testo non si comprende come aumentare le figure sia un miglioramento dal momento che si dice appunto ve ne siano troppe e mal organizzate…) e che toglierebbe di fatto alle Guide una fetta non sottovalutabile di attività lavorativa, rendendo l’universo “professione montagna” ancor più simile alla stracciatella di quanto già oggi non sia: ecco perché personalmente non vedo certi articoli e certe posizioni come nati da un punto di vita strettamente dilettantistico…

  2. Caro Maurizio, che tu non volessi creare scale di valori era ben chiaro, tanto che né il mio post né quello di Alessandro (che ho letto due volte attentamente per scovare un qualche concetto di scala valori…) ne fanno menzione, altri post non ne vedo al momento…
    Ovviamente i concetti espressi, specie da Mc Clure non esimono dal dare un proprio contributo sul ciò che si possa intendere arrampicare, anzi…
    Da parte mia, e forse ciò che ho scritto può essere frainteso anche se mi sembrava d’aver espresso un concetto chiaro, non vi è proprio suddivisione in scale di valori.
    Non credo esistano metri di misura proprio per la distinzione caratterizzante le due attività che hanno nel proprio DNA il gesto arrampicatorio ma lo evolvono e lo vivono in maniera completamente diversa“: questa frase non era rivolta a te e a quello che hai scritto ma a quello che stavo esprimendo io…
    Che vi sia una nuova tendenza appare evidente, ma come appunto ho già scritto, a mio avviso non vi è differenza nel gesto che rimane sempre arrampicata.
    Poi ognuno è libero di pensare che sia migliore, peggiore, essere favorevole o contrario, ma la sostanza non cambia a meno che… e qui l’accenno polemico del mio primo intervento trova le sue motivazioni, si voglia per motivi squisitamente politici e personali, trovare il modo di inserire ogni tipo d’arrampicata in una scatola o in un’altra differenziandole, cosa che personalmente trovo alquanto priva di logica sensata, ma che si motiva al momento in cui si ricercano motivazioni valide per appunto cambiare le regole del gioco, e questo”gioco” si chiama diversamente che tempo libero o puro divertimento, ma ha un nome ben preciso, per dirla all’inglese… “BUSINESS”.
    Tutto il resto è arrampicare!

  3. Non è mia intenzione creare delle scale di valori, credevo fosse chiaro fin dall’inizio. Vedo che spesso son frainteso su questo punto quindi lo ribadisco ancora una volta. Volevo solo rilevare come stia nascendo, grazie al proliferare delle palestre cittadine, un vasto movimento di praticanti che probabilmente non sentirà più il bisogno di arrampicare sulla roccia. Dal momento che sia McClure che sia Lamberti, credo esperti riconosciuti del settore, rilevano che i due tipi di arrampicata sono cose ben distinte, probabilmente siamo di fronte ad un nuovo cambiamento nel nostro mondo. Ce ne sono sempre stati e sempre ce ne saranno, per fortuna. Il mio articolo voleva solo rilevare questo. Grazie a tutti per l’attenzione

  4. Beh… Maurizio evidenzia situazioni già in essere da tempo, non a caso gli articoli linkati… situazioni che definirei come sempre in alpinismo, arrampicata sportiva, e via dicendo “qualcosa di cui poter parlare”, perchè la differenza esiste senza dubbio e va aldilà del gesto ma si accentra sulle motivazioni e sugli obiettivi.
    Starei poi attento a dare appellativi “affermati” a chi non se li merita, ma quì entriamo in altri campi e la polemica meglio rinchiuderla nel contesto dell’articolo… senza scadere in chi più, chi meno, ed evitando accuratamente di scendere in particolari (che sono sempre punti di vista contestabili e dibattibili) su cosa significhi una professione (vedi Hans Peter Eisendle al festival di Trento 2010 sulle Guide Alpine) e su come si possa distruggerne le caratteristiche senza grossi problemi di etica (Proposta di legge sulla figura dell’istruttore di arrampicata).
    Motivazioni ed obiettivi dunque che caratterizzano da una parte il salire le pareti per lasciare forse, il proprio segno su qualcosa di attraente, dall’altra per aumentare il livello atletico.
    Quale la migliore?
    Non credo esistano metri di misura proprio per la distinzione caratterizzante le due attività che hanno nel proprio DNA il gesto arrampicatorio ma lo evolvono e lo vivono in maniera completamente diversa.
    Personalmente (come poi molti colleghi sia guide sia alpinisti) dagli anni ’80, ovvero dalla nascita di quel movimento che porterà poi all’attuale arrampicata sportiva, mi spezzo in due, ossia utilizzo i crismi sportivi per aumentare il livello da portare poi in montagna… che sia la terza via?
    Anche qui non credo affatto si possa parlare di un terzo concetto bensì di un modo diverso di vivere questi due mondi, fondendoli assieme senza nulla togliere all’uno o all’altro…
    Sintetizzerei quindi il tutto, oggi come oggi, col semplicissimo quasi banale termine arrampicata che nel suo essere non può e mai sarà statico, evolvendo ed abbracciando i diversi aspetti che si affacceranno su questo piccolo universo ogniqualvolta si presentino…

  5. Aggiungo, sul tema, due commenti di altri celebri arrampicatori. Mi piace credere che ci sia una sorta di pensiero “trasversale” e che questo faccia parte di alcuni tra i più grandi maestri di questa splendida e complessa arte che è la scalata.

    Antoine Le Menestrel a una domanda su quale importanza dava all’eleganza in arrampicata:

    Un mouvement élégant c’est la réponse juste à une difficulté, sans exagération, sans force.
    Je n’aime plus les mouvements qui sont pénibles à réaliser.
    Je cherche à dépasser la difficulté physique, mentale technique, pour laisser émerger la poésie. Je vœux donner envie au spectateur assis ou debout d’être dans mon corps de vivre le geste avec moi. Je veux que mes rêves deviennet une réalités dans vos têtes,un mouvement dans vos corps.
    La démonstration ne m’interesse pas.
    En esclalade c’est l’énergie juste que je mes pour réaliser un mouvement, assez pour ne pas tomber, pas trop pour ne pas grimper en force.

    Un movimento elegante è la risposta giusta ad una difficoltà, senza esagerazione, senza forza. Non mi piacciono più i movimenti che sono faticosi da realizzare. Cerco di andare oltre la difficoltà fisica, mentale e tecnica, per lasciare emergere la poesia. Voglio suscitare nello spettatore seduto lì davanti la voglia di essere dentro il mio corpo, di vivere il gesto con me. Voglio che i miei sogni diventino realtà nelle vostre teste, un movimento nel vostro corpo. L’apparire non è una cosa che mi interessa. In arrampicata (l’eleganza) è l’energia giusta che metto per realizzare un movimento, sufficiente per non cadere, ma non troppa, in modo da non arrampicare con la sola forza

    Patrick Berhault, una sua celebre risposta al perché arrampicasse:

    «Je grimpe pour me sentir en harmonie avec moi même, parce que je vis dans l’instant, parce que c’est une forme d’expression éthique et esthétique par laquelle je peux me realiser, parce que je recherche la liberté totale du corps et de l’esprit. Et parce que ca me plait

  6. Leggendo l’articolo di Steve McClure, peraltro molto “british” nella sua capacità di informare senza voler influenzare, trovo rilevante questo passaggio:
    Johnny Dawes aveva perfettamente ragione nella sua affermazione “negli anni ‘80 e ‘90 arrampicare significava trovare l’aderenza e risolvere sequenze. Al giorno d’oggi è diventato più pompare e stringere. Per chi non ha mai contato sulla forza, deve essere stato frustrante accorgersi come il fascino della potenza abbia messo in disparte la sottile arte della tecnica! E nell’ultima decade, sembra che tutto si sia trasformato in tirare e pompare, raccontando ovviamente a tutti come ti riesca bene.
    Contando su equilibrio, fluidità e sintonia con la roccia, Johnny creò alcune delle vie più audaci e spregiudicate della storia dell’arrampicata, facendo avanzare questo sport, con solo un piccolo apporto di ginnastica. Poi, improvvisamente, Johnny divenne troppo “vecchia scuola”, con la sua abilità a individuare la complessità e le soluzioni più efficienti tra posizioni del corpo anche un po’ stucchevoli, mimate alla base della parete, rispetto al rimbalzare tra forme dai colori sgargianti attaccate a pannelli di legno molto strapiombanti.
    Non c’è dubbio che la scalata negli ultimi anni si sia concentrata più sulla forza fisica che sull’abilità tecnica. In parte ciò è successo per l’espandersi di attività molto legate alla forza: il bouldering, le gare, la predilezione per gli strapiombi: che hanno bisogno di più che della semplice tecnica, e sono più popolari. La popolarità aumenta il fascino, e il fascino è dato anche dalla bellezza, e la bellezza oggi è bicipiti grossi e addominali a tartaruga
    ”.
    Per fortuna c’è anche chi non pensa che la sola bellezza valida sia fatta di bicipiti e addominali, con tutto il rispetto. Consideriamolo un fenomeno passeggero, e tutto si ridimensiona.
    Pensando a come viene descritto Johnny Dawes, non viene in mente Manolo? Le ultime sue realizzazioni, ben esemplificate nel suo film Verticalmente démodé, sono quanto di più distante possiamo immaginare dalle evoluzioni, avvincenti e scimmiesche, su disumani strapiombi.
    E ricreare su plastica gli “appigli ridicoli” credo sia davvero difficile.

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