Secondo Bloomberg, la giornata lavorativa dura da una a tre ore in più. E lo stress per chi lavora da casa è spesso insostenibile.
È allarme burnout da smart working
di Nicoletta Moncalero
(pubblicato su huffingtonpost.it il 12 settembre 2020)
Pare che l’idillio sia finito. Lavorare da casa non è così bello come poteva sembrare all’inizio. E se prima ai piani alti ci si interrogava se fosse altrettanto produttivo, se il lavoratore facesse comunque il suo dovere anche lontano dall’ufficio, ora la questione è un’altra. Pare che da casa si sia esagerato, tanto da parlare di burnout.

Bloomberg ha fatto i conti: in media la giornata lavorativa dura da una a tre ore in più, si fanno più riunioni e si mandano anche più mail, almeno 8 al giorno fuori dall’orario di lavoro.
Secondo Forbes questo non è positivo neppure per i datori di lavoro: i manager dovrebbero preoccuparsi di alcuni piccoli segnali che si possono vedere nei team anche a distanza, nelle call o nelle chat.
Il primo campanello di allarme riguarda la gestione delle chiamate, delle mail. Chi non riesce mai ad arrivare in tempo al telefono, chi non risponde alle mail o rimanda sempre una consegna è probabilmente sopraffatto dal lavoro, è esausto. Se poi la qualità del lavoro è scesa, se non si accetta di aver fatto un errore e si tende a dare la colpa agli altri, in tutta probabilità si è entrati nella prima fase del burn out. Il passo successivo porta all’ “esaurimento” completo: il silenzio alle riunioni, la mancanza di pazienza, ma anche l’amarezza, la mancanza di orgoglio per i risultati ottenuti.
Un passo che purtroppo hanno fatto in molti. Secondo una ricerca di Monster.com soffrono di burn out due lavoratori su tre, ovvero il 69 per cento dei lavoratori, il 20 per cento in più rispetto ai mesi che hanno preceduto il lockdown.
Tutto nasce dall’incapacità di disconnettersi dal lavoro, di avere orari precisi come quando si andava in ufficio.
David Burkus, psicologo del lavoro e delle organizzazioni, autore di cinque best seller, in un suo recente intervento per Tedx è partito proprio da questo aspetto per spiegare come si possa stare efficacemente alla larga dal burnout.
Il primo e più semplice consiglio è quello di organizzare la giornata secondo orari prestabiliti ed assicurarsi che vengano rispettati anche dagli altri. Non si accende il laptop mentre si guarda un film alla sera, e non si risponde neppure a mail o a messaggi dopo o durante la cena.
Per chiudere la giornata lavorativa Burkus consiglia di inserire un rituale, un’azione da compiere quasi in automatico, ogni sera. Come controllare la lista degli impegni dei prossimi giorni e verificare che ogni lavoro stia procedendo. Dopo di che, meglio cambiare stanza. E anche device. Si potrebbe usare il laptop solo per il lavoro e lo smartphone o il tablet solo per lo svago. Oppure cambiare utente. Così sul pc ci saranno due desk diversi a seconda delle attività e dei momenti della giornata. Infine l’azione più importante, quella che durante il lockdown abbiamo più desiderato: quando hai bisogno di una pausa, di un po’ di energia extra, non affidarti all’ennesima tazza di caffè ma esci. Fuori, in quartiere, al parchetto, poco importa, stare all’aria aperta sarà un’ottima soluzione contro lo stress.
Laurel Farrel, presidente della Remote Work Association e CEO della Distribute Consulting su Forbes suggerisce, quando compaiono i primi sintomi, di parlarne al più presto con il proprio capo e con il resto del team. Potrebbe essere utile anche agli altri ridistribuire gli incarichi, cambiare gli step di approvazione o le modalità di consegna della pratica.
Su come sono cambiate le modalità di lavoro è intervenuta Laura Vanderkam su Fortune: ha segnalato, tramite le testimonianze degli ascoltatori del suo podcast – The New Corner Office, dedicato proprio al lavoro da casa -, che in alcune società si è passati a fare una sorta di appello. Ogni giorno alle 9 in punto una chiamata per verificare che gli impiegati siano effettivamente al lavoro alla loro scrivania da casa. Una situazione che evidentemente ci riporta al punto di partenza, al dubbio che da casa si lavori di meno. Così crescono gli impiegati che non staccano mai, che rispondono al primo squillo, che non dimenticano le mail e che lavorano senza un orario. Sempre la Vanderkam, autrice anche di diversi libri sul tema dell’home working propone una semplice soluzione: prevedere anche una chiamata di saluti a fine giornata, un via libera a tutti fino al giorno dopo. Una chiamata – badate bene all’orario – che arrivi alle 16,45.
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Hai detto poco.
Un pilastro.
Porre l’uomo al centro è ridargli la potenzialità di realizzazione attraverso la sua creatività.
Metterlo a latere del discorso per fare spazio, alternativamente a produttività e altre amenità sacrileghe, è ucciderlo.
Comincerei col precisare che è stato spacciato per smart working quello che il più delle volte è telelavoro.
Ci sono vari fattori che intervengono, non ultimo il carattere delle persone. Ho amici che lavorano da casa e sono contentissimi e amici che invece si sono già rotti le balle.
In ogni caso ciò che è stato riportato nell’articolo corrisponde al vero e ne ho avuto conferma proprio da un paio di amici (entrambi appartenenti alla categoria dei soddisfatti).
Colgo l’occasione per evidenziare quello che per me è il vero problema, la mancanza di creatività in tanti lavori dei giorni nostri.
Non vorrei passare per nostalgico del tempo che fu, si tratta solo di una semplice constatazione, ma credo che il servo della gleba operasse con maggiore creatività di tanti nostri concittadini i quali si ritrovano a svolgere dei lavori estremamente alienanti (e ciò a prescindere dalla modalità, tradizionale o smart).
L’artigiano che si chiude nella sua bottega dalla mattina alla sera va a dormire forse stanco ma rilassato perché nel corso della giornata si è divertito pur avendo socializzato poco. L’impiegato che digita una fattura dietro l’altra probabilmente dormirà male sia che lavori in ufficio sia che lavori da casa, non vedrà l’ora d’andare in ferie e a tempo debito d’andare in pensione.
Fra i danni del capitalismo bisogna annoverare anche questo, l’azzeramento della creatività per una schiera di lavoratori. Una sorta di lobotomizzazione senza bisturi.
In molti casi, è solo una questione di organizzazione. Lavoro in smart working da anni e non vorrei mai dovermi recare di nuovo sul posto di lavoro ogni mattina.
Se la Dad, didattica a distanza, e’ una specie di smart working.. un effetto che conosco e’ l’abbandono del corso di studi di qualche studente..non supportato da un ambiente famigliare colto..e privo anche dell’effetto di trascinamento e convolgimento dei compagni .Basta che a qualche allievo in difficolta’ di apprendimento e privo pure della possibilita’ di trovare compagni e compagne ,si presenti l’occasione di un lavoro anche a tempo determinato e getta la spugna.Persino nelle banche ormai tendono a dirottare verso l’ autogestione online o le app..pero’ se sanno che nel conto hai qualche spicciolo, cominciano a ruffianarti e chiederti appuntamenti per “Investire”ed allora presentano personale in abbigliamento consono, alito sanificato.. ufficio climatizzato profumato.
Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Circa lo smartworking, all’inizio si vedevano “solo” gli aspetti positivi: dopo colazione, ti sposti di una stanza (a volte manco quello) e sei ghià sul posto di lavoro, in terrompi quando vuoi, te ne stai in pigiama tutto il giorno, sciabatti sia in senso diretto che metaforico… Poi si è scoperto che “fare comunità” ha un suo valore anche a livello individuale: la realtà giornaliera del lavoro in ufficio aggiunge qualcosa che le videochiamate non danno. Il qualcosa che aggiunge non è solo in termini di “pizzico sfizioso per rendere meno uguali le giornate”, ma è anche e soprattutto un qualcosa di costruttivo a livello professionale e individuale. Non parliamo poi dei risvolti collaterali che, sul lungo termine, iniziano a pesare moltissimo. Holetto che le gentili signore hanno reagito inizialmente molto bene al fatto che lo smartworking le sollevasse da molti “obblighi” estetico-sociali (manicure sempre perfette, piega ai capelli settimanale, cambio d’abito ogni giorno, con accessori coordinati ecc ecc ecc)…. ora, dopo quasi un anno, iniziano a sentirsi smarrite… Sembra una scemenza, ma il risvolto (che avrà anche il corrispondente in campo maschile…) è indice di uno spaesamento esitenziale. E’ come se un giocatore di calcio fosse stato improvvisamente spostato a giocare a basket. Ciò che prima era la normalità (calcio: toccare la palla solo con i piedi, vietato con le mani) ora è punibile e la normalità quotidiana è completamente opposta (basket: toccare la palla con le mani, vietato con i piedi). La pandemia lascerà tre grandi ferite: quella sanitaria (i morti in senso stretto), quella economica (di cui gli effetti più devastanti emergeranno dopo la cessazione del divieto di licenziamento, cessazione ora prevista per il 31/3/21) e quella psicologico-esistenziale (di cui non avremo mai pieno sentore, essendo strisciante, ma che ci colpirà tutti in profondità – seppur con intensità diversa da individuo a individuo). Il mondo non sarà più lo stesso lo stesso di prima. Prepariamoci. Nel frattempo, buona giornata a tutti.
Gli esperti ci dicono come vivere, che fare a casa, come lavorare, eccetera. L’elenco di ciò che sanno è lungo e molti di noi lo ascoltano.
Dunque siamo in mano a loro. E se non noi qualcuno. E se non per questo argomento per altri.
La prospettiva è grave in quanto è un ulteriore colpo di piede di porco idoneo a scardinare noi stessi a separarci da noi stessi.
Inquinati dalla cultura specialistica e tecnicistica non sappiamo più che basta semplicememente ascoltare per trovare la via della saggezza, del benessere, dell’equilibrio, dellla forza, della creatività. La nostra via, che porta a baita in qualunque labirinto.
Abissalmente distanti da noi stessi non possiamo che aggrapparci a quanto razionalmente crediamo sia vero: agli esperti appunto.
Hanno campo libero, si esprimono con somma boria, hanno il dominio di noi e della cultura.
Hanno anche la responsabilità di dove ci troviamo. Di quanto il ritmo della natura sia stato in noi sommerso da moduli e dogmi, da speranze mal riposte e attese mai soddisfatte. Hanno la responsabilità dell’alienazione e del malessere, implicite conseguenze della mortificazione degllo spirito. E hanno – così credono – il diritto di giudicare, anzi, di stabilire la direzione del mondo.