E se avessero ragione loro?
di Roberto Pecchioli
(pubblicato su ideeazione.com il 5 luglio 2022)
L’incipit della Terra desolata (la traduzione più corretta è “guasta”, The waste land) di Thomas Stearns Eliot è un’invettiva contro la primavera. “Aprile è il più crudele di tutti i mesi, genera lillà dalla terra morta, mescola memoria e desiderio, desta radici sopite con pioggia di primavera”. Per noi che non siamo poeti, il peggiore dei mesi è luglio, l’estate che scoppia, ferisce con luce eccessiva, il calore che scioglie e condanna, la constatazione che siamo esseri fragili a cui basta un eccesso di temperatura – o il suo contrario, il gelo che rallenta il sangue e fa battere i denti – per diventare altro, scimmie nude, indifese, anelanti la penombra, il calare del sole nemico.
Temperature troppo alte, il sudore che cola, l’umanità sembra disfarsi e ridursi a istinto, carne sin troppo esibita, desolata, guasta. In estate, chi scrive sente profondo il desiderio di distanziamento sociale. Nessun terrore da virus, solo una decisa presa di distanza dai conspecifici – l’umanità colta da una strana allegria di naufraghi – resa urgente dalla stagione.
Sorge una domanda orribile, difficile quanto la risposta immediata: e se avessero ragione loro, gli oligarchi, i signori del dominio, i detentori del potere, a farci ciò che fanno, a ridurci sempre più ad animali ammaestrati, docili, prevedibili, teste senza cervello, ventri, istinti dominati dalle voglie, greggi condotti per il tratturo scelto dal pastore? Non è questo il vero destino dell’homo sapiens, ridotto a sciame?
Così pensavamo faticosamente, cercando di chiudere gli occhi e di renderci insensibili ai rumori, stipati in un treno con destinazione il mare, preso per necessità, spersonalizzati in una folla sudaticcia, litigiosa. Non c’è aria condizionata, i posti sono limitati, bagagli di ogni tipo e colore ingombrano dappertutto, tracimano nel poco spazio concesso all’homo deus transumante, scamiciato, con la carne seminuda arrossata, spesso sfigurata dai ghirigori e dalle frasi da Baci Perugina (solitamente in inglese) di tatuaggi senza senso, ansioso di raggiungere la meta dell’agognata vacanza, la spiaggia del divertimento obbligato, del soddisfacimento di voglie e aspettative. Il contrario della festa comunitaria a lungo attesa, impreziosita dal rito, degli abitanti della Contea nel Signore degli Anelli.
L’uomo della civiltà digitale, con atrofia delle mani, sempre meno usate per il lavoro e artrosi delle dita impegnate ad armeggiare sui dispositivi elettronici, è simile a uno sciame. Il termine sciame indica una molteplicità di individui che restano atomi solitari pur avendo la possibilità di relazionarsi in un attimo (il tempo reale) con il mondo intero. Caratteristica dello sciame è quella di muoversi in massa, guidati non da una volontà o da un capo visibile, bensì mosso da onde invisibili che determinano una cangiante direzione comune. L’uomo-sciame, a differenza della massa in cui sacrificava la propria individualità e intelligenza, ma in vista di un obiettivo comune, resta solo. “Lo sciame digitale non è una folla, poiché non possiede un’anima, uno spirito. L’anima raduna e unisce: lo sciame digitale è composto da individui isolati (Byung Chul Han)“.
Isolati ed egoisti: anche sul treno affollato lo sciame reclama diritti, tutti sono in competizione, per un centimetro, per guadagnare un attimo prima l’uscita o raggiungere i servizi di cui non osiamo immaginare le condizioni. Nessuno cede il posto ai rari anziani che sembrano capitati lì per sbaglio. Pochissimi dialogano tra loro o leggono un libro, tutti smanettano con lo smartphone o telefonano. Si comunica con l’assente, il distante, si ignora il vicino presente, il nemico. La transumanità è già qui. Elon Musk ha affermato che lo smartphone ha trasformato l’uomo in una sorta di cyborg (l’individuo a cui sono stati trapiantati membra o organi artificiali), lamentando la lentezza del salto antropologico. Lo smartphone è un’estensione di noi stessi, il medium tra dita, memoria e cervello.
L’uomo nuovo senza interiorità – surrogata dagli apparati artificiali – è un concentrato di dipendenze. Dal sistema degli oggetti, dalle voglie diventate insaziabili poiché alimentano il sistema, da comportamenti, modi di vita, scelte, consumi indotti da un sapiente impianto psicosociale il cui successo più straordinario è farci credere liberi in mezzo a innumerevoli schiavitù. Uno psicoterapeuta, Adriano Segatori, usa l’espressione società tossica, fondata sulle dipendenze, di cui il potere è l’impassibile spacciatore, con l’obiettivo finale dell’addomesticamento di massa.
Vittoria su tutta la linea. L’uomo ha delegato ogni cosa, qualunque decisione ai manufatti tecnici e al magistero superstizioso della scienze e della tecnica. Tutto è divenuto meccanica e non ha più senso l’espressione latina homo faber, artefice di se stesso, sostituita da homo fabricatus, plasmato, programmato, seriale, reso prevedibile dalla tecnica.
Chi ha meglio compreso la natura umana sono le oligarchie che la sfruttano per i loro scopi, dirigendola a piacimento, come le onde che muovono lo sciame. Scrisse Marcello Veneziani che l’uomo imita nella sua grande maggioranza i comportamenti di chi lo guida. Con la medesima annoiata indifferenza con cui ieri seguiva – o almeno approvava – i precetti, le virtù personali e sociali diffuse dal potere, oggi pratica i comportamenti – rovesciati come un guanto – propagandati da un apparato mai tanto potente e pervasivo. Il mezzo è il messaggio.
La domanda che inquieta e attraversa l’uomo libero, il ribelle che cerca di usare autonomamente le facoltà intellettuali, è: hanno ragione loro? Se l’umanità è questo – e ne abbiamo prove sovrabbondanti – forse conviene mettersi dalla parte dei pastori che si sono impadroniti del gregge, senza credere alle loro bugie il cui scopo – ieri come oggi – è il controllo, il potere, il dominio. Leo Strauss lo teorizzò nel suo circolo riservato, definendo nobile menzogna tutto quanto viene fatto credere alla massa. La certezza è che la grande maggioranza non si accorge nell’inganno, in cui vive serenamente sino alla tomba.
Anche la democrazia è un inganno illusionistico creduto per le accecanti luci del varietà e per coazione a ripetere. La finta libertà in cui “uno vale uno” nella scelta dei governanti – plenipotenziari del potere tecnologico, economico e finanziario fattosi plutocrazia – è talmente inquinata dal potere del denaro e della comunicazione (un’endiadi, sono la stessa cosa) che perfino il gregge sta iniziando a fiutare l’imbroglio.
Manca del tutto un’alternativa, però, un’idea forza a cui consegnare l’energia positiva, il desiderio di cambiamento, la speranza. “Loro”, il grumo di potere che ci dissangua, ci espropria e occupa le nostre menti, hanno vinto un’altra volta: “Tina”, il gelido acronimo incapacitante di there is no alternative. Se ci crediamo, vuol dire che hanno ragione loro. Significa che hanno realizzato l’auspicio di Sun Tzu nell’Arte della guerra: sottomettere il nemico senza combattere. Ci conoscono talmente bene – meglio di quanto noi stessi ci conosciamo – che traggono vantaggio dai nostri limiti e difetti.
Per il fondatore dell’antropologia filosofica, Arnold Gehlen, il frenetico progresso della tecnica è avvenuto in strettissimo collegamento con la produzione capitalistica. Ma l’uomo moderno è indifferente alle ragioni e ai nessi di causalità; si limita a lasciarsi vivere, ovvero a farsi agire dall’esterno. Il meccanismo primario è la seduzione, con la ragione economica e strumentale che rimpiazza la cultura, assorbendola in sé e cacciando ogni concorrenza di idee esattamente come gli spiriti animali del capitalismo (Joseph Schumpeter) tendono a eliminare ogni agente diverso dal soggetto più grande e potente.
La servitù diventa volontaria, addirittura un dato di natura, per cui la caverna di Platone diventa un comodo habitat. L’uomo ama l’inganno, o l’illusione. Il mondo classico chiamava vizi capitali le debolezze umane che arrecano gravi conseguenza alla persona; il cristianesimo, più indulgente, li derubricò a peccati pur continuando a condannarli. Il potere ne prende atto concretamente, lavora su di essi, li considera opportunità per i suoi fini e li utilizza senza scrupoli. L’antichità ne individuava sette – un numero altamente simbolico, incomprensibile nel mondo dissacrato e desimbolizzato.
Si tratta della superbia, la pretesa di superiorità unita al disprezzo per l’altro; l’avarizia, smania di possesso, cupidigia che inibisce ogni gesto di generosità; la lussuria, che fa predominare l’istinto sessuale e la sua soddisfazione , riducendo l’altro a oggetto di piacere; l’invidia, che rode il cuore odiando il bene altrui; la gola, ingordigia rivolta al cibo, un piacere che non può diventare scopo; l’ira, impulso negativo incontrollabile nei confronti di cose o persone; l’accidia, indifferenza, disinteresse, pigrizia morale, fisica e mentale.
Tutti questi vizi paiono il ritratto dell’uomo moderno, compresa l’accidia, che il potere alimenta per diffondere egoismo, solitudine, inazione e disinteresse a comprendere – o almeno riconoscere – i perché degli eventi. E’ forse questo il carattere più profondo dell’uomo medio, sui cui limiti e debolezze punta il potere per dominarlo. Nulla di veramente nuovo: per gli antichi, gli Dei toglievano il senno a coloro che volevano rovinare; un cardinale cattolico teorizzò secoli fa che il popolo vuole essere ingannato, dunque va ingannato.
La novità post moderna è lo sfruttamento intensivo delle debolezze, dei vizi, dei desideri e dei capricci, prima accompagnati dalla riprovazione ufficiale, oggi considerati medaglie di buon cittadino, un’acrobazia che ha spalancato la finestra di Joseph P. Overton del bene e del male. Ovvio, sono i fondamenti del consumo e della corsa forsennata verso i piaceri più futili. Tutt’al più, allorché certe condotte, gli ex vizi, creano problemi, il sistema li tratta da malattie, disturbi. Così può inquadrarli meglio, eliminare l’ultima traccia di senso di colpa, guadagnarci e aumentare il controllo sociale attraverso la medicalizzazione della vita.
Ancora Segatori: “la gola diventa disturbo dell’alimentazione incontrollata; l’invidia, disturbo antisociale di personalità; l’accidia disturbo depressivo; la superbia, disturbo narcisistico della personalità; l’avarizia, disturbo da accaparramento; la lussuria disturbo del controllo degli impulsi o sessodipendenza; l’ira, disturbo del controllo degli impulsi.”
Il male (come il bene) è nell’uomo e ogni civiltà, ogni tradizione spirituale ha cercato gli antidoti, attraverso la diffusione di modelli di vita e comportamento considerati etici, virtuosi. La nostra, al lumicino, è l’unica che chiama bene il male e normalità la devianza. Arriva a denominare diritti i capricci e a destituire la realtà, la natura, se non corrispondono alla volontà soggettiva. Ne L’Impero del bene, Philippe Muray indicava la modernità come banca mondiale dei diritti; il cortocircuito è che ai diritti non corrispondono più i doveri, con il disfacimento irreversibile della compagine sociale.
Suscita entusiasmo tutto ciò che sembra “comodo”, ossia che, a un esame superficiale (l’unico alla portata di popolazioni ridotte a plebi non pensanti) sembra facilitare la vita e farci risparmiare tempo. Tempo per farne che cosa, se non alimentare la spirale dei vizi-voglie-desideri? Diventa semplice far accettare la scomparsa del denaro contante, l’esproprio del frutto del nostro lavoro, dei risparmi e la decisione su come, quando e in che misura spenderlo. Appare un gioco da ragazzi, specie dopo la prova pandemica – riuscita oltre le più rosee aspettative – far accettare anche il codice a barre, il segno della bestia, il chip sottocutaneo. Il corpo diventa cifra, proprietà di chi lo ha marchiato, come il bestiame d’allevamento.
Oltre ogni limite; perfino il materialista Ludwig Feuerbach scrisse che il Dio Termine romano “si trova all’entrata del mondo in funzione di sentinella. La condizione di entrarvi è l’autolimitazione”. Accettare l’esproprio del corpo e l’introduzione in esso di segnali o apparati ci rende trans umani, in attesa dell’ibridazione vera e propria con la macchina, nella convinzione gnostica (alla gente non va spiegato, qualcuno potrebbe spaventarsi) che il corpo sia la prigione. Viviamo nel pieno di quella che Isaiah Berlin chiamava libertà negativa; uno psicanalista freudiano, Massimo Recalcati, parla di uomo senza inconscio.
Ha vinto quello che il marxista eretico e psicanalista Jacques Lacan ha descritto come il formidabile attacco alla psiche umana sferrato dal capitalismo tecnocratico, il Grande Altro. Conoscitori sopraffini di ciò che siamo, dell’uomo concreto, reale, lorsignori ci hanno reso schiavi docili, domestici, perfino felici. Il rovello è quello iniziale: e se avessero ragione loro?
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Comunque Recalcati è lacaniano.