Effetto catalizzatore
di Marco Bonamini
Un catalizzatore è un elemento che interviene durante lo svolgimento di una reazione chimica aumentandone la velocità, rimanendo comunque inalterato al termine della stessa.
L’uso di catalizzatori fa sì che processi, di per sé estremamente lenti – nell’ordine degli anni, per intenderci – si compiano e si concludano in tempi relativamente brevi. Cioè nell’arco di ore, minuti o secondi.
Questo è ciò che Alessandro Gogna fu per l’alpinismo, palermitano di certo, isolano molto probabilmente, per il semplice fatto di non essere venuto a incrementare il suo palmares (non ne aveva certamente bisogno) con arrampicate in Sicilia, ma per aver cercato e trovato un contatto con chi, in Sicilia, arrampicava da tempo, magari inseguendo falsi miti.
Quando Fabrizio Antonioli, amico consolidato, mi avvisò (all’epoca tramite telefono fisso 091… ecc.) che si trovava già in Sicilia con Giorgio Mallucci (già direttore del mio corso per diventare istruttore di Alpinismo del CAI al Gran Sasso, nel 1979), un certo Marantonio, per me illustre sconosciuto, e Alessandro Gogna per arrampicare tracciando nuove vie, ma desideroso di conoscere le realtà locali, ebbi un attimo di sussulto.
Tessere le lodi di Alessandro da parte mia sarebbe una stupidaggine solenne, quindi non lo farò di certo. Voglio invece darvi testimonianza della mia sensazione, del mio essere un rocciatore noto nella ristretta cerchia del CAI Palermo per un exploit finito sul quotidiano locale, cui si prospettava un contatto fisico con una persona che avevo conosciuto leggendo libri di montagna, sino a quel momento considerata un mito.
Ne cito due in particolare, entrambi di Messner: Due e un ottomila, del 1977, e Nanga Parbat in solitaria, del 1980, entrambi estremamente freschi in quel periodo (1981). Nel primo, a pag 27, campeggiava una foto con macchina fotografica al collo, con la didascalia “Alessandro Gogna, uno dei più attivi rappresentanti del nuovo alpinismo italiano” (se lo dice Messner…), mentre il secondo sul risvolto di copertina citava una sua frase “La via della vetta è come la via verso se stessi, una solitaria (A. Gogna)” (se lo cita Messner…).
Sui semplici alpinisti formatisi leggendo le gesta narrate dagli stessi esecutori, ogni parola era pietra, scolpita ed eterna, e io stavo per incontrare un mito. Che si fa? Ci si inchina? Si può proferire parola? Si risponde solo se richiesti?
Niente di tutto ciò! I miti sono tali perché noi li identifichiamo con qualcosa di irraggiungibile, forse per nostra comodità, per restare schivi e non dover rendere conto a noi stessi del non sapere fare qualcosa. Alessandro invece era (ma lo è tuttora) una persona cordiale e socievole, ligure riservato, non invadente, ma disponibile al dialogo e a parlare di ciò che stava facendo (sarebbe nato Mezzogiorno di Pietra della Zanichelli) e dell’angoscia giornaliera: il Dio Capitolo, vero motore trainante del perseguire una via nuova o almeno una ripetizione per ogni giorno, da relazionare appena tolti i panni del rocciatore e vestiti quelli dello scrittore.
Il primo contatto lo avemmo sotto la parete dello Schiavo, all’attacco della Diretta, via aperta molti anni prima (1974) da Umberto Capotùmmino e Pietro Cipolla, rocciatori palermitani, con staffe e scarponi rigidi, come si usava a quel tempo. L’aspetto scanzonato della combriccola di rocciatori, petto nudo sotto la pettorina di salopette leggere, lasciava presagire un contatto tutt’altro che mitico, anzi piuttosto incuriosito da una sequenza di moschettone-fettuccia-moschettone, che da una parte erano attaccati alla corda di cordata, dall’altra erano appesi in sequenza a una bandoliera che pendeva dalla spalle. “Taxi driver”, fu la risposta di Mallucci, che stava attaccando il primo tiro, prendendo di petto un canalino che io ritenevo ostico e che adesso è il primo passaggio della via, opportunamente rettificata.
Il gruppo accettò di appoggiarsi a casa mia per una doccia e per un pranzo cucinato da mia madre, nei giorni successivi, che sia i quattro climber già citati, che Ornella Antonioli, a quel tempo sua moglie e compagna di avventure, mostrarono di gradire.
L’effetto catalizzatore di cui sopra, nei miei confronti non aveva ancora sortito l’effetto che si sarebbe manifestato poco dopo, quando Alessandro mi propose di andare a ripetere con lui alcune vie “classiche”, come lo spigolo del Bunker, a Valdesi, e la diretta al Prisma del Diavolo, da me aperta pochi anni prima con papà e cognato.
Scatta la reazione indotta dal catalizzatore e io arrampico come in stato di euforia, senza alcun uso di droghe (mai fatto!) e senza eccitanti tipo caffè, enervit o zucchero.
E allora? Semplice, ero legato in cordata con uno dei più forti alpinisti del momento, due o anche tre ordini di grandezza sopra di me nell’ipotetica graduatoria degli alpinisti.
Cosa potevo desiderare di più? La tecnica personale, la forza, la tenacia, corroborate da un secondo di cordata d’eccezione, fecero innescare la suddetta reazione chimica, senza che il buon Alessandro se ne rendesse conto, restando del tutto indifferente al mio mutamento: avrà pensato forse che ero davvero un buon rocciatore, non rendendosi conto di quale ruolo giocasse la sua presenza nei miei confronti.
Sia la prima che la seconda via furono percorse con eleganza e velocità, per me in parte inusuali in relazione ai secondi di cordata che di solito mi seguivano.
Cosa successe dopo? Alessandro, partiti Fabrizio e Giorgio per impegni lavorativi, aveva adocchiato una possibile via sul Pizzo Monaco, proprio nella parete prospiciente San Vito Lo Capo, quando di alpinisti o di semplici climber in quella zona se ne erano visti molto pochi, tranne che sulla copertina di Epoca, con Bonatti che anni prima violava il Cervino in solitaria invernale. Ma quello era il Cervino e Bonatti era Bonatti.
Alpinisti a San Vito? Di certo pochi avevano visto Roby e me avere la meglio sulla parete est di Monte Monaco (via delle Punte), pochi mesi prima che anche Gogna e compagni tracciassero la via Lo Sballo di San Vito.
Bene! Alessandro, sempre con contatto telefonico (altro che sms!) chiese a Roby e me di raggiungerlo in paese il giorno seguente per aprire una nuova via insieme. E questo avvenne! Nei giorni precedenti il gruppo ristretto (Marco Marantonio, Alessandro e Ornella) era riuscito ad andare a Monreale, nota per i mosaici del duomo e per il chiostro con le sue colonnine tutte diverse, in un’atmosfera d serenità.
La via che fu tracciata, in stile classico, comprendeva le soste con chiodi, lasciati infissi nella roccia, e alcuni passaggi protetti con fettucce o cordini disposti su spuntoni, collegati con moschettoni alla corda di progressione e sicura. Difficoltà abbastanza sostenute, Marantonio e Gogna che arrampicavano da capi cordata come se la via fosse già stata definita in precedenza, il panorama a quell’epoca tranquillo di San Vito Lo Capo.
Il nome proposto: Pace di Chiostro. Cosa meglio poteva riassumere la sensazione di serenità di una serie di colonnine allineate accanto al ben più famoso duomo di Monreale, e una arrampicata svolta su roccia eccellente, monolitica, quasi una “colonna” dove tracciare una sequenza di movimenti non sempre obbligati, per arrivare in cima e scendere poi sul retro, per non “contaminare” la linea di salita. La medesima sensazione che ispirò nella scelta del nome della via.
Sembra quasi di dare il nome a una creatura, che non sarà mai tuo figlio ma di te avrà avuto il segno.
L’effetto scrollone o semplicemente catalizzatore (Alessandro continuò il suo peregrinare su rocce lungo tutto il meridione, da cui il titolo del libro) ebbe reazione su quanti ebbero la fortuna di incontrarlo; si capì che una persona determinata non è necessariamente un corpulento cultore del muscolo, il quale affida il proprio successo al volume dei suoi bicipiti, bensì è colui che sa gestire le proprie forze per fare assumere a mani e piedi mille posizioni; di certo quelle necessarie a superare le difficoltà che la roccia presenta, se si vuol passare da lì anziché da un’altra parte, anche se è meno elegante.
L’influsso Gogna e poi ancora di altri che, con maggiori contatti con i locali, o in forma più distaccata o schiva, hanno lasciato traccia del loro passaggio, ha consentito la crescita che taluni isolani, caparbi e determinati, hanno saputo coltivare ottenendo risultati di tutto rispetto, con l’apertura di vie davvero impegnative, anche se affrontate con le moderne attrezzature.
L’ultimo tassello del mio rapporto con Alessandro l’ho avuto quando Alp ha dedicato una monografia alla Sicilia, creando un momento d’incontro a Palermo con esponenti antichi e moderni dell’arrampicata. Alessandro, ospite a cena da Giuseppe Maurici, quando sono andato a salutarlo, si è alzato venendomi incontro e abbracciandomi come si fa con un vecchio amico.
Il mito non c’era più, l’uomo, invece, era tutto lì.
L’amicizia ha trovato ancora opportunità d’incontro e perdura, tenace e indissolubile.
Marco Bonamini
Nasce a Palermo nel 1956, diploma in informatica e laurea in ingegneria, si avvicina alla montagna nel 1971 grazie ad un viaggio organizzato nelle Dolomiti e con suo padre comincia a conoscere Monte Pellegrino con brevi giri del sabato pomeriggio. Quando questo passeggiare non sembra soddisfarlo più, frequenta un corso di roccia tenuto da due Scoiattoli di Cortina d’Ampezzo, che gli danno fiducia facendolo fare il primo salto di qualità con la conduzione di una cordata lungo una via di roccia di IV grado. Pochi mesi dopo (1973) l’ingresso al CAI, per un ulteriore corso di roccia, che gli consente una serie di amicizie basilari per la sua formazione e la crescita tecnica, con le risorse e i materiali dell’epoca. L’anno successivo è co-protagonista dell’apertura di una via di salita al “Volo dell’Aquila”, completando una via pensata ed in parte tracciata da Gino Soldà. Concordato con gli altri amici del gruppo Rocciatori l’opportunità di uniformare la modalità di insegnamento delle tecniche di arrampicata e di sicura, partecipa (1979) al corso che lo promuove Istruttore di Alpinismo, lo stesso anno della salita del Gran Paradiso e della via normale italiana al Monte Bianco. Negli anni successivi è promotore, con i più forti alpinisti siciliani, della nascita della Scuola di Alpinismo “Costantino Bonomo”, scuola stabile e non legata a sporadiche presenze di Guide Alpine. Effettua salite di qualche cima dolomitica in val di Fassa e torna sulle Occidentali per la salita del Castore, una delle sei cime del Monte Rosa. Apre, spesso spinto da Roby Manfrè, quasi suo fratello minore, diverse vie in Sicilia, ma comincia a coniugare la sua pratica alpinistica con l’attività professionale, dedicandosi alla ispezione di costoni rocciosi e, occasionalmente, di cavità antropiche, specie nel marsalese. Sposa Fortunata, una socia attiva del CAI Palermo, con la quale mettono al mondo Giorgio (1988) e Bruno (1990), diventati nipoti dell’intero corpo insegnante della Scuola. La sua vita è permeata da quella della Scuola, alla quale è legato da grande passione e voglia di trasmettere il suo sapere e la sua esperienza a favore di chi potrà fare solo meglio. Nella sua continua crescita, fa parte anche del Soccorso Alpino e Speleologico del quale, ad oggi, è uno dei più anziani componenti attivi in Sicilia.
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Complimenti, Marco: bello ed emozionante racconto!
Mi è parso un grande onore il solo ricevere un invito per un tè da parte di Alessandro.
Anch’io trovo che stando a contratto con chi è più forte di noi – in qualunque campo e disciplina – può stimolare e far fiorire le nostre capacità espandendo le conoscenze.
Quando i maestri e i miti erano amati.
Tutto bellissimo da leggere. Solo non sapevo che il Monte Rosa avesse solo 6 cime 😜
Bella dichiarazione di stima – direi meritatissima 🙂