Egemonia culturale
di Giovanni Widmann
Rispondendo alla lettera di un lettore, oggi (19 settembre 2024) sul Corriere della Sera Aldo Cazzullo argomenta che in Italia è da almeno quarant’anni che la destra detiene un’egemonia culturale. Infatti con la nascita delle prime emettenti private controllate da Berlusconi, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta – in una fase storica di riflusso successiva alla crisi del movimento giovanile, della controcultura contestataria e delle grandi lotte operaie e sindacali – le serie televisive trasmesse inizialmente su Canale 5, come Dynasty, ma anche i varietà e i programmi di intrattenimento misero fine alla stagione dell’impegno celebrando il ritorno al privato, la valorizzazione dell’individualismo, dell’edonismo e del successo personale, il culto dell’immagine e del denaro, in netto conflitto con gli ideali di solidarietà e giustizia sociale e i valori del collettivo, dell’impegno politico finalizzato all’emancipazione delle masse secondo un progetto rivoluzionario di radicale cambiamento. In questo senso ha ragione Cazzullo quando a riprova di tale mutamento epocale – valoriale, culturale, perfino antropologico – fa riferimento al successo e all’affermazione politica di Berlusconi che tanto ha condizionato la politica e il costume italiano nell’ultimo trentennio.
Emblematico in questo senso è il film Ferie d’agosto di Paolo Virzì (1995), che meglio di un trattato sociologico ha saputo descrivere la trasformazione del costume, della mentalità, della rappresentazione del mondo e dell’immaginario collettivo che si è verificata in quegli anni. In effetti il berlusconismo come fenomeno culturale ha preceduto l’affermazione politica di Silvio Berlusconi dopo il terremoto di tangentopoli: attraverso le sue televisioni egli ha operato una vera e propria trasmutazione dei valori che preparò almeno in parte il terreno per la sua «discesa in campo», creando le condizioni per l’imporsi di una diversa sensibilità e percezione di sé di molti italiani, soprattutto appartenenti agli strati meno acculturati, negli anni Ottanta e Novanta più propensi ad usufruire del mezzo televisivo per informarsi e svagarsi piuttosto che di altri strumenti culturali (giornali, libri, teatro, ecc.).
La nostra tesi, paradossale e provocatoria, è che un’egemonia culturale della sinistra (intesa non solo e non tanto come compagine politica ma come sfera di influenza e orizzonte valoriale e ideale, come humus culturale) non sia mai esistita come fenomeno diffuso e di massa, ovvero come radicata cultura popolare interclassista e intergenerazionale. Certamente in una certa misura e in precise fasi storiche la cultura di sinistra è stata in grado di intercettare diversi strati sociali, di influenzarne l’orientamento, di fornire modelli interpretativi e di rappresentare un progetto e un’istanza di cambiamento; penso alla contestazione giovanile e al movimento studentesco, alle lotte operaie e sindacali tra gli anni Sessanta e Settanta. Tuttavia, non dobbiamo equiparare e confondere gli strumenti culturali (di analisi sociale, di produzione artistica, di elaborazione intellettuale) con le organizzazioni politiche, che certamente derivano il loro impianto ideologico dall’elaborazione teorica degli intellettuali d’area, nel caso di specie impegnati a fornire le basi per un progetto rivoluzionario e di sovvertimento dell’ordine costituito secondo la visione marxista-leninista reinterpretata da Antonio Gramsci, ma che generalmente una volta approdate nell’ambito parlamentare mirano ad obiettivi contingenti e si misurano con la faticosa arte della conciliazione.
Ma allora, che senso ha parlare di egemonia culturale della sinistra? In realtà tale egemonia ha riguardato più propriamente i ceti medi colti, la borghesia progressista, l’élite intellettuale e molto meno i ceti popolari, permeabili all’influenza prima della televisione e oggi soprattutto dei social network, in grado di condizionare diffusamente gli strati popolari orientandone i giudizi e le opinioni. Ma cosa significa fare cultura? Esercitare un’egemonia culturale? Se significa assumere una posizione preminente nella funzione di guida, direzione ed influenza – di una classe, di un ceto, o addirittura di larga parte della società civile – condizionandone e indirizzandone il giudizio, le scelte politiche, i gusti, le rappresentazioni, certamente possiamo dire che in Italia egemone per lungo tempo è stato il cattolicesimo (inteso come fenomeno culturale e non solo come fede religiosa), specialmente tra le masse contadine delle aree rurali depresse e meno sviluppate del paese, così come lo è stato il marxismo militante tra la classe operaia delle grandi aree industriali. Nel primo caso possiamo intendere l’egemonia come retaggio culturale, nel secondo come progetto di rivoluzione culturale oltre che sociale, intesa come sovvertimento dei principi e dei valori tradizionali, come rottura dei canoni normativi; in questa seconda declinazione possiamo annoverare la controcultura giovanile e la rivoluzione dei costumi dopo la contestazione. Cattolicesimo e controcultura giovanile avevano in comune la diffusione e il radicamento, ossia la capacità di penetrare diffusamente e permeare profondamente interi strati sociali generando un sentire comune, un pensare comune.
Ora, cultura è anche il fenomeno sociologicamente rilevante di cui abbiamo parlato sopra, ovvero il potere condizionante delle televisioni soprattutto commerciali, che ha contribuito a determinare una vera e propria conversione antropologica e che nel giro di pochi anni ha profondamente mutato aspettative individuali e immaginario collettivo dopo la crisi delle ideologie e la conseguente fine dei movimenti sociali degli anni Settanta, col ritorno al privato contro il pubblico, all’edonismo e all’affermazione individuale contro l’impegno sociale, all’individualismo contro il collettivo. Ma cultura significa anche capacità di leggere e interpretare la realtà del proprio tempo, innescare una battaglia di idee con la primazia delle idee; ancora, significa capacità di rottura e di ristrutturazione profonda delle categorie e dei paradigmi fino ad allora imperanti, perfino tendenza a diventare fenomeno di costume o vera e propria moda, come accadde in Francia nel dopoguerra con l’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre nella versione “popolare” di Juliette Greco. Un’egemonia culturale non si impone “coattivamente”, così come non deriva dall’attivazione di meccanismi di cooptazione, di censura e/o di controllo da parte del potere politico; condizione necessaria (ma non sufficiente) è aver cresciuto un ceto intellettuale capace di affermarsi con la sua capacità di “svecchiamento” e di superamento, di analisi, di ideazione e sperimentazione creativa nell’ambito del cinema, della narrativa, della saggistica dell’editoria (come fu fin dagli anni Trenta l’Einaudi), dell’università e della scuola. Un’egemonia culturale per determinarsi ha bisogno dunque di profili di alta formazione, ma anche di trovare consenso e adesione diffusa non solo nei ceti medi colti ma anche tra gli strati popolari: egemone sarà dunque una cultura che sa popolare gli strati sociali e sa essere popolare.
Non si costruisce egemonia culturale piazzando i propri uomini di fiducia al ministero, alla direzione di musei, negli organismi preposti a valutare e selezionare le produzioni cinematografiche meritevoli di ottenere finanziamenti statali. Si diventa culturalmente egemoni quando si hanno personalità d’area di indubbio spessore intellettuale in grado di “leggere” il proprio tempo e di fornire un quadro non soltanto interpretativo ma anche rappresentativo, ovvero che sappia trovare adesione e immedesimazione, cioè che sappia essere di alto profilo e insieme “popolare”, financo «nazional-popolare» secondo la nota definizione gramsciana, senza scadere nella volgarità e superficialità “popolana”. Questo ci porta a considerare il rapporto tra cultura, egemonia culturale e potere politico. Va detto che in Italia nella prima metà del Novecento abbiamo avuto un’egemonia culturale col neoidealismo storicistico di Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Quest’ultimo aderì al fascismo elaborando il Manifesto degli intellettuali fascisti (1925), ritenendo che il fascismo avesse «carattere religioso» e fosse depositario di un destino e di una missione. Il filosofo siciliano, da ministro dell’istruzione nel 1923 diede vita ad un’epocale riforma scolastica, che delineava non soltanto un modello di istruzione d’impianto idealistico e antipositivista ma si proponeva una riconfigurazione dell’intera società secondo un’idea rigidamente elitaria e classista ispirata al principio di autorità. Gentile rimase convintamente e coerentemente fascista fino alla fine e pagò con la morte la sua appartenenza. Croce invece, forte della sua autorità intellettuale e morale, rappresentò la coscienza critica in dissenso col regime, e in coerenza con la sua formazione liberale rispose redigendo il Manifesto degli intellettuali antifascisti. La storia come pensiero e come azione esercitò la sua influenza su intere generazioni di giovani borghesi che si apprestavano a diventare classe dirigente.
Nell’ambito dello sviluppo dell’operaismo nella nascente società capitalistico-industriale fu Gramsci l’acuto teorizzatore dell’«intellettuale organico» e del suo ruolo-cerniera tra il partito comunista e i ceti subalterni nella formazione e guida di questi ultimi verso la rivoluzione e la costituzione di una società senza classi (il «nuovo Principe»). Gramsci comprese quanto fosse strategico l’elemento sovrastrutturale della cultura e della formazione al fine di realizzare il progetto politico rivoluzionario; a lui si deve l’elaborazione del concetto di egemonia culturale. In questo senso nel secondo dopoguerra la cultura “comunista” e di sinistra esercitò indubbiamente un’egemonia culturale nel mondo operaio e tra gli intellettuali in un contesto di emarginazione politica del PCI. Peraltro, si deve ricordare che riuscirono ad imporsi voci non allineate come Elio Vittorini (la rivista Politecnico) e Pier Paolo Pasolini, figura di intellettuale disorganico inviso tanto a destra che a sinistra. Ma anche se non egemonica, in quegli anni l’opposizione al potere politico democristiano era espressa da personalità di orientamento neoilluministico, anticlericale, liberale e libertario, razionalista e antidogmatico, che negli anni Settanta ha alimentato le battaglie per i diritti civili (divorzio, aborto) del partito radicale e che ha saputo inserirsi nel tessuto sociale italiano, riuscendo a saldarsi coi movimenti progressisti e femministi di emancipazione della donna, con l’impegno di Franco Basaglia per la chiusura dei manicomi, per la soppressione delle classi speciali per gli alunni disabili, per la partecipazione delle componenti degli studenti e delle famiglie alla vita scolastica, così come per la riforma del diritto di famiglia; temi questi di scottante attualità ancora oggi. Il marxismo è stata la cultura politica che più di altre nel secondo Novecento ha saputo contaminare la filosofia, le scienze sociali, l’antropologia culturale, offrendo un quadro teorico efficace e coerente e insieme un orientamento alla prassi nella difesa dei ceti subalterni, ispirato ad istanze democratico-emancipanti di uguaglianza e giustizia sociale.
Tuttavia, con la crisi delle ideologie sono venute meno le grandi «narrazioni totalizzanti» e dunque a maggior ragione oggi, a mio modo di vedere, non esiste in Italia una vera e propria egemonia culturale di sinistra. Certo è che questa latitanza determina una parcellizzazione e frammentazione delle prospettive in un quadro generale di incertezza e smarrimento, aggravata dalla polarizzazione della vita politica e dal dibattito che ormai si gioca nel forum sguaiato e volgare dei social media.
È noto che l’attuale governo mira ad imporre una nuova egemonia culturale, rompendo il presunto ostracismo e marginalizzazione di cui sarebbe stata oggetto la cultura politica di destra – non la destra liberal-conservatrice ma post-fascista – legata al valore della Tradizione, nazionalista, conservatrice e talora reazionaria in tema di diritti civili e costumi sessuali (Dio, patria e famiglia). Ma questa cultura di destra è intrisa e venata di suggestioni nicciane declinate in chiave antimoderna, elitaria ed aristocratica, apertamente sprezzante verso la masse conformiste e omologate (si pensi al dannunzianesimo) o di elementi antirazionalisti, misticheggianti ed esoterici, che ha avuto eminenti pensatori come Julius Evola e Giuseppe Prezzolini in Italia, René Guénon, Ernst Jünger, autori questi che hanno criticato la società industriale moderna dominata dal primato della tecnica – anonima e anomica, materialistica e spersonalizzante – che ha comportato l’americanizzazione dei costumi e la progressiva decadenza dello spirito.
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni in diverse occasioni ha espresso la volontà di farla finita con il presunto «amichettismo» della sinistra, che a suo dire controlla e monopolizza il cinema, l’editoria, la scuola e l’università ostracizzando gli intellettuali non militanti o non schierati apertamente a sinistra, per cui urge la necessità di abrogare rendite di posizione e smantellare poteri consolidati imponendo un controllo sulla produzione culturale, eliminando il settarismo e la tendenziosità snobistica della cultura di sinistra. Ora, se in parte quanto denunciato è obiettivamente vero, va detto che il problema della marginalità culturale del pensiero di destra è piuttosto da annoverare nella scarsa capacità che negli ultimi decenni la cultura di destra ha avuto non tanto di produrre cultura “conservatrice” (infatti esistono personalità autorevoli appartenenti a quell’area, quantunque limitate di numero), quanto di trovare spazio adeguato da parte della destra politica attualmente al governo, che secondo una logica di mera appartenenza e fedeltà piuttosto che di merito, nei luoghi e negli organismi deputati alla gestione della politica culturale ha preferito dare spazio a figure obiettivamente di scarso spessore e preparazione piuttosto che a personalità intellettualmente libere e indipendenti. La recente vicenda del ministro Gennaro Sangiuliano è in questo senso esemplare.
È certo che nessuna egemonia culturale si impone attraverso il controllo o la censura. Diventare avanguardia della cultura nell’editoria, nel cinema, nelle istituzioni di alta formazione, significa solo secondariamente avere un progetto politico, e non sempre necessariamente; primariamente occorre avere gli strumenti per comprendere il proprio tempo e poi saper costruire consenso allargato intorno ad un orizzonte interpretativo e valoriale. Non con operazioni nostalgiche di retroguardia e volontà di revanscismo dopo anni di presunto ostracismo si realizza un’egemonia culturale. Non è poi necessario all’affermazione di un’egemonia culturale avere l’appoggio del potere politico; anzi, proprio l’essere distanti e alternativi alla Weltanschauung dell’ideologia dominante può rafforzare nella società un determinato orientamento ideale e raccogliere un diffuso consenso, che è cosa diversa dalla propaganda e dalla manipolazione che mistificano la verità e la realtà, rischi e pericoli che chi mira ad avere un’egemonia culturale intesa in senso dialettico – oppositivo e conflittuale – deve saper disinnescare.
Oggi in Italia ci sarebbe bisogno di un’egemonia culturale nell’ambito del pensiero ecologico, che promuova un’etica della terra fondata sul concetto di limite e sostenibilità, che però è ben lungi dal realizzarsi mancando obiettivamente le condizioni storiche, quantunque non le piattaforme programmatiche e le idee. Un’egemonia culturale non s’impone, piuttosto si determina in base a certe condizioni fattuali e in relazione ad un preciso contesto storico, alla luce di una capacità di teorizzazione, ideazione e di azione, per cui egemone sarà in primo luogo una cultura – anche politica – che sappia interpretare il presente e coinvolgere menti e cuori, intelligenze e sentimenti, diventando motore di processi storici, prospettando alternative future, ma anche guardando al passato, non per riproporlo nostalgicamente e antistoricamente quanto piuttosto per salvaguardarne quelle istanze che ancora allignano nel presente. L’intellettuale dovrebbe essere “custode delle faville”: colui che smuove la cenere alimentando il fuoco in procinto di spegnersi. In questo senso una mal compresa idea di egemonia culturale la intende come ineluttabilmente proattiva e progressista, mente può accedere che in una particolare temperie storica come la nostra essere “conservatori” – senza essere reazionari – sia un sano antidoto contro l’illusorio incantamento delle «magnifiche sorti e progressive».
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Per di più, io non auspico egemonia alcuna, ma una consapevolezza maggiore rispetto a valori quali integrità e uguaglianza che possa sostituirsi alla perdita di equilibrio e senso di appartenenza sempre più diffusi.
L’autore stesso evidenzia che il modello promosso dalla sinistra non è mai stato un fenomeno di massa, ma si stupisce che i paradigmi diffusi dai media berlusconiani (non solo la televisione) abbiano preso piede.
Mi pare evidente che tali modalità erano già insite nel popolo medio-basso e, grazie a un’attenta analisi, non si è fatto altro che portarle all’esarcebazione.
E’ chiaro che il Silvio Berlusconi – e tutto il suo stuolo ancora sul palcoscenico – rappresentano ciò che l’italiano medio vorrebbe raggiungere.
E’ impossibile, peraltro, non tessere un parallelismo con il personaggio di Donald Trump che, ovviamente per i medesimi motivi, continua ad avere successo (almeno in apparenza).
La sinistra è stata per lungo tempo marxista, nel senso che ha creduto nella rivoluzione industriale e nella rivoluzione socialista. Cioè: ha creduto nella possibilità di conciliare lo sviluppo industriale con il controllo popolare delle istituzioni. In altri termini la sinistra ha creduto per lungo tempo alla naturale bontà del progresso tecnico e scientifico che i disastri e le contraddizioni della società ormai hanno messo in discussione. Per questo la sinistra si trova in profonda crisi perché non è in grado di immaginare una vera alternativa al capitalismo che viceversa la destra ha mai rifiutato.