Verdon

Nella Francia meridionale, in un canyon da Far West, si trova il santuario dell’arrampicata libera.
Un giorno arrivò il rosso Jerry Moffatt…
Tra i purtroppo pochi articoli scritti da Paola Mazzarelli negli anni Ottanta abbiamo scelto questo. Un brano che non parla solo di scalata ma ti fa vivere (o ri-vivere) il contesto di quei tempi e luoghi.

Verdon
di Paola Mazzarelli
(pubblicato su Alp n. 1, maggio 1985)
Foto di David Belden C.E.D.R.I.

Quando vidi il Verdon per la prima volta non sapevo neppure che esistesse. Tornavamo dalle Calanques, io arrampicavo poco e del vuoto avevo paura. Da buoni turisti percorremmo gli altipiani calcarei a nord di Marsiglia, vagando tra il profumo delle erbe aromatiche e l’affiorare della roccia bianca nel verde cupo della macchia, su e giù per una strada tutta curve, sotto il cielo inimitabile dell’alta Provenza, finché ci trovammo sulla cornice che percorre la gola in tutta la sua lunghezza. Corniche Sublime, diceva la cartina. La vista spaziava a destra sul bianco e sul verde dell’altopiano, a sinistra, scavalcando la gola, su colline ondulate percorse da strade tra i campi rigati dai ciuffi di lavanda. Ad ogni piazzuola ci fermavamo e guardavamo giù con un tuffo al cuore, dentro l’abisso in fondo al quale correva il nastro acquamarina del fiume.

«Su queste pareti hanno fatto delle vie», mi disse l’amico, scettico. E guardavamo: strapiombi inavvicinabili protetti dalla ringhiera di ferro della strada, oltre le piazzuole confortanti di sole. E, sotto, le pareti, chiazzate dal verde cupo degli alberi rattrappiti che strappano alla roccia quel poco di linfa vitale che li fa crescere contorti, lì da sempre come il fiume sul fondo; il rombo dell’acqua saliva con un respiro lontano di vento. Il fiume ruggiva, tanto in fondo che non era necessario alzare la voce per parlarsi, ma abbastanza vicino perché il tuono restasse sempre nell’aria, ora più forte, ora come soffocato dal calore del giorno. Dunque questo era il Verdon, selvaggio nel vento di Provenza.

In arrampicata su Interlope. La scalata in Verdon è un richiamo prepotente, in aperto contrasto con la tranquilla e secolare vita del luogo.

A La Palud il campeggio è un prato di erba falciata, segnato da gruppi di tende assonnate. Leggermente curvo, braghe di tela a metà ginocchio e l’immancabile cappellaccio a nascondere lo sguardo indifferente e astuto di contadino, Jean-Paul, detto Bourbon, lo percorre all’alba. Forse conta le tende. Ma siccome i conti li fa sempre ad occhio, nonostante i prezzi siano segnati su un cartello dove “qualunque imbecille” può leggere quanto costa stare lì con le tende, la bici, la moto o il camper, nessuno sa mai se gli importa davvero sapere chi va e chi viene, di giorno o di notte. Alla fine il nostro conto viene meno del dovuto. Forse gli siamo simpatici?

L’entrata delle Gorges da Point Sublime è la porta d’accesso nel regno del calcare verticale, gigantesca frattura nell’antico altipiano.

Chissà, a La Palud, la gente che fa? Paese minuscolo, poche case e qualche bambino dentro il cortile della scuola, La Palud convive con tutti i grimpeur che affollano al mattino il negozio di alimentari per comperare il formaggio, lo yogurt e la birra slavata di Francia, e la sera gremiscono il bar: aria di vacanza per noi nella mitezza della notte stellata. Gente tranquilla, che porta in sé l’anima dolce della Provenza serena sotto il sole di giugno, nonostante che poco più in là si spalanchi l’abisso. Non li vediamo quasi mai, forse hanno orari diversi ed escono quando noi siamo sulle pareti, un poco indifferenti al nostro percorrere il loro paese, quasi senza curiosità alcuna di noi, come se la loro vita avesse un altro tempo, un lungo itinerario di anni tutti uguali e un altro lento equilibrio. Con l’abisso convivono. È che l’abisso qui c’è da sempre, ed ora che noi ci andiamo ad arrampicare, il nostro Verdon nulla ha in comune con la roccia che loro conoscono, eterna come i prati e i campi della lavanda, se non un’illusoria identità nello spazio.

Ma l’anima è un’altra. Di notte, tutta la notte, l’allocco grida sulla collina dietro il campeggio e un altro risponde, altrove, molto lontano. E di giorno è il cuculo a rincorrere il suo grido, uguale, sempre costante, e la lavanda fiorirà anche quest’anno, nonostante i grimpeur. Siamo noi ad essere transitori. A La Palud questo lo sanno. E forse un poco lo sappiamo anche noi, quando di notte percorriamo il silenzio delle strade a grandi passi, con quella nostra tensione di appartenere al posto in cui ci troviamo e farlo nostro per essere, noi, come la lavanda dei campi e l’acqua del fiume e il grido dell’allocco solitario sulla collina. Invece, ce ne andremo domani. Ma a La Palud ci sembra, per poco, di essere a casa. Stranieri, ci portiamo il calcare nelle dita e negli occhi, e la sera andiamo a sederci sulla veranda del bar a bere una birra. E si raccontano storie.

Falaise de l’Escalès

Si sa che qui circolano gli “estremi”. Sul prato del campeggio ogni clan ha le sue tende raggruppate nel sole e ogni clan ha il suo eroe cui prima o poi ciascuno vorrà assomigliare. Il Verdon è terra di Francia e i francesi vi sono padroni. Sono loro che hanno segnato le pareti di innumerevoli vie e vanno e vengono con l’allegra noncuranza di chi è nato e cresciuto sul posto. Forse per questo si notano gli altri di più, svizzeri e tedeschi, inglesi e italiani e spagnoli, tutti alti e forti, tutti giovani e belli, tutti al bar la sera a dirsi presenti.

Appena entra qualcuno che va ad aggiungersi ad uno dei gruppi, tra i tavoli il discorso si sfrangia in un improvviso silenzio di parole rimaste a mezz’aria. Per un attimo, sospese nel vuoto, nel bar si intrecciano occhiate. Ognuno guarda se per caso può ammiccare ai nuovi venuti, accennare un sorriso e dire con gli occhi che sì, sono qui e tu ed io ci siamo già visti. Senza farci scorgere guardiamo gli altri per tutta la sera col desiderio segreto che anche loro guardino noi. Se tu mi riconosci, è perché io ti assomiglio. Ognuno scruta il suo doppio, l’altro che ora entrando indugia sulla porta un istante e dal buio della strada guarda dentro, la luce sui tavoli, la folla, i discorsi. Se tu mi riconosci, io sono qualcuno. Noi tutti allo specchio, con la nostra figura pubblica di arrampicatori, immagine labile riflessa negli occhi degli altri.

In sosta sulla via ULA

Gli alpinisti sono solitari, gli arrampicatori gregari. Andare in montagna è esperienza privata, arrampicare azione pubblica. Andare in montagna è avventura, arrampicare spettacolo. Dentro di noi c’è una dimensione di solitudine che si rivela in questo scrutarci l’un l’altro, un groppo di incertezza che sogna l’appartenenza. Gli estremi raramente sembrano veramente felici. Si ride, sui bicchieri di birra, ma sempre con questa tensione di scrutare gli altri non visti e il discorso si perde, inutile, in una inquietudine leggera di essere, noi, come quelli che entrano ora, con tutti gli occhi addosso a dirci chi siamo. Se tu mi riconosci, non sono più solo. Un dover esserci: essere qui perché questo è il Verdon, noi che apparteniamo al clan. E tendere, sperare, desiderare di essere, noi, come loro: anche questo è arrampicare in Verdon. Ora che siamo qui, anche noi siamo dunque l’élite.

Come i cavalieri di un tempo, grandi e potenti. Nobili erano, per diritto divino, Noi siamo gli “estremi”, per virtù del Verdon. Per questo siamo venuti.

Per tanti che pure arrampicano bene e sicuri su altre pareti, il Verdon non c’è. Lo temono forse un poco e lo fuggono. Ma non è vero che qui le vie siano impercorribili. È lo spirito del Verdon che essi fuggono, il mito di una inavvicinabilità che dalle persone che lo frequentano rimbalza sulle pareti strapiombanti e che noi stessi, ora che siamo venuti, amplificheremo per il mondo, perché pochi erano i cavalieri della Tavola Rotonda e tutti compivano grandi imprese.

In opposizione sulle cannelures di Caca Boudin.

Da un tavolo all’altro, in risposta a domande formulate con gli occhi, passano in un sussurro i nomi dei grandi. Quello è Moffatt. Quello è Patrick. Noi alziamo lo sguardo. Da sempre conoscere i nomi è conoscere il mondo e appartenergli. Nomi magici, che avevamo sentito ripetere spesso ma che erano allora parole del mito, ora si fanno persone. E noi, allora, entriamo nel mito. Con i nomi in Verdon fioriscono soprannomi, che non stanno scritti da nessuna parte ma che basta inventare, soprannomi aleatori, che durano l’arco del tempo che passiamo in Verdon, soprannomi leggeri, nati sulle pareti quasi per scherzo e che ora si ripercuotono tra i tavoli del bar, tra l’ammiccare degli occhi, perché anche dare il nome all’altro che incontro è segno della familiarità dell’appartenenza.

Ogni microcosmo si nutre di sé e della sua immagine. Per questo si raccontano storie. Anche gli alpinisti parlano tra loro di passaggi e di vie, di montagne e d’altro. Ma in Verdon ogni racconto da informazione diventa storia e ogni persona perde la sua consistenza di uomo forse allegro o spaventato o sereno o tormentato e diventa eroe. Forse che Achille esistette davvero? Eppure Omero andava di casa in casa e cantava ai banchetti le storie di Troia. Tante volte e sempre le stesse.

Nel mondo dell’arrampicata la ripetizione è essenziale. Come si ripetono le vie tante volte, sempre le stesse, e nessun arrampicatore inorridisce, come i veri alpinisti, a tornare sulle stesse pareti, perché non è il nuovo quello che cerca, così si ripetono le storie, tante volte, sempre le stesse. Ogni via ripetuta si arricchisce dell’ora, e oggi questo passaggio non riesce, e domani quel chiodo è più lungo, e qui ieri non c’erano appigli. La stessa via, eppure mai uguale a se stessa. E ogni storia ripercorsa si arricchisce del nuovo racconto, ed è la storia che avevamo sentito o raccontato altre volte, eppure non è mai uguale a se stessa. Si favoleggia, la sera, nel bar, su passaggi “on sight”, in libera e no, di Moffatt arrivato dall’Inghilterra ad infrangere il mito di un tetto impercorribile in libera, e della sua impresa variazioni infinite passano tra i tavoli, sempre uguali e sempre un poco diverse. Ciò che è successo oggi, quel passaggio, quella doppia incastrata, quel chiodo toccato o non toccato, quella mano nella fessura, quel volo, quel cielo, diventano storia; e ripetuta domani la storia andrà ad aggiungersi a tutte quelle già esistenti e di lì nasceranno altre storie, e poi altre ancora, fino a quando nessuno saprà dove e quando e perché tutto ciò sia avvenuto. Allora che importa che sia verità o fantasia? In Verdon, ciò che avviene non avviene nel tempo.

Christine de Colombel in sosta su La Mangoustine Scatophage.

Io c’ero. Qui nasce la storia. Hanno fatto Papy on sight in libera dal basso. 8a. Mica uno scherzo.

Lo so, Moffatt. L’ho visto. Tu c’eri?

Io c’ero. Il bardo occasionale si illumina e racconta. Ripetuta, ripercorsa, sospesa nell’ammirazione che dagli ascoltatori si rifrange sul narratore, nasce, anzi, si consolida la storia di Moffatt. Che sia vera, sarà vero. Ma neppure chi narra sa bene come veramente ha preso forma la storia che ora va raccontando. Che ha visto, infatti, questo spettatore parziale, fantasioso, incline all’identificazione? Quello che narra è anche, in certa misura, quello che l’ascoltatore vuole sentire. Tutti e due concorrono a creare la storia. Di Moffatt, eroe anglosassone del momento, si raccontano già vicende incredibili di quando ancora sconosciuto si affermò negli States, percorrendo d’un fiato tutte le vie più temibili e inafferrabili, quelle che stanno nelle parole di tutti ma che nessuno ha mai veramente veduto. Naturalmente è venuto in Verdon. Naturalmente lo abbiamo incontrato. La salita perfetta nel mondo dell’arrampicata è quella che non è mai stata ripetuta in libera, “on sight” e con corda dal basso. Di queste tre qualità si alimentano i miti. Papy on sight, chissà che vuol dire? È uno strapiombo pauroso, liscio e con appigli lontani.

Moffatt si cala in doppia dalla ringhiera della strada, ma non sulla direttrice di salita, bensì un poco più in là. Tutti sanno che “on sight” vuol dire non vedere appigli prima di trovarsi ad usarli. Così per lo meno si dice. Etica anglosassone e gusto dello spettacolo si fondano in questo gesto di sfida inventato chissà quando, chissà da chi, ad incominciare un racconto che certo avrebbe potuto avvenire davvero. Poi Moffatt comincia a salire. Fino allo strapiombo sono gesti sicuri, una fluidità di movimento che affascina l’occhio. Il pubblico dalla strada guarda giù. La posizione è favorevole, lo spettacolo veramente d’eccezione. Forse si sapeva che questa era l’ora, perché c’è tanta gente raccolta e altra ne continua a venire, attirata dall’ingorgo di auto parcheggiate in mezzo alla strada. Si fermano anche i turisti, che credono che qualcuno sia caduto là in fondo, e restano a guardare stupiti, sicuri che stia succedendo qualcosa. Ma che cosa, chissà? Io c’ero.

Sulle placche bombate della via Fenrir.

Al primo tentativo Moffatt non riesce. Al passaggio chiave, di scatto, manca l’appiglio. La folla sospira. Addio libera “on sight”. Anche una caduta è “resting”. Moffatt torna all’attacco. Scende come non si è mai visto scendere nessuno e il pubblico stupisce: staccato il rinvio si lascia cadere al chiodo sottostante. E così, di chiodo in chiodo, fino in fondo. Bum. Bum. Bum. Sconcertati, ci guardiamo l’un l’altro. I turisti guardano noi. Forse vorrebbero essere noi, che capiamo che sta succedendo. Con la coda dell’occhio percepiamo il loro stupore e raddrizziamo le spalle e parliamo un poco più forte. Il materiale appeso all’imbragatura lo scuotiamo, che faccia rumore. E, tutti, vorremmo essere Moffatt. Ma lui vuole essere solo se stesso, assomigliare alla sua figura di eroe. Dunque: replay. Questa volta, all’uscita, l’occhio corre al fotografo che deve immortalare l’evento. Forse lo aveva guardato anche prima, ma non ce ne eravamo accorti, troppo presi dallo spettacolo. Bastardo! Proprio ora deve cambiare rullino! Certo pensa questo. Il fotografo è l’unico a muoversi, affannato sulla macchina ribelle. Il pubblico, turisti e non, questa volta non capisce che accade. Impassibile, Moffatt ripete la sua singolare discesa, Volo. Volo. Again. Il pubblico freme.

Poi Jerry Moffatt comincia a salire: fino allo strapiombo sono gesti sicuri, con una fluidità di movimento che affascina l’occhio. Foto: Giovannino Massari.

Moffatt sale. Qualcuno che è appena arrivato bisbiglia ai vicini: chi è? Forse, attraverso il velo della concentrazione, arriva fino a lui il sussurro della folla. Se tu mi riconosci, io sono me stesso. Al tetto si ferma, una posizione che nessuno crederebbe possibile, la sinistra su un appiglio invisibile, i piedi appoggiati al labbro dello strapiombo. La testa nel vuoto. Ora tuffa la mano nella magnesite. Forse un secondo. O un minuto. O tre anni. Il pubblico vive attimi eterni. Poi lo scatto. Appiglio al volo. Ha detto qualcosa? I piedi vanno nel vuoto. Deve essere stato un gemito di sforzo. Quando afferra la ringhiera, il pubblico applaude, liberato dall’incantesimo. Poi si disperde, stupefatto: ha visto quanto doveva vedere, quanto voleva vedere.

La storia è finita. Narratore e ascoltatore se ne vanno facendo progetti, tutti e due un poco più grandi. Sarà proprio così la storia di Moffatt? Così si racconta e questo è abbastanza. Io c’ero. Anche il pubblico, anonimamente e di straforo, appartiene alla storia. Un filo di gloria gli resta incollato alle spalle. E la storia di Moffatt prende il volo già alla sera in campeggio e poi va tra i tavoli del bar a La Palud e di lì torna in Inghilterra e in Germania, in Italia ed in Francia, sulle auto sgangherate dei climber. E si ripete all’infinito, infinite redazioni di un mito che ora aleggia, là sulla curva della Falaise de l’Escalès. Riverenti, gli arrampicatori che posteggiano il giorno dopo e il mese dopo e l’anno dopo al parcheggio sulla strada, vanno a dare un’occhiata a Papy on sight prima di scendere sulla loro via. Senza guardare gli appigli.

Il pubblico dalla strada guarda giù; la posizione è favorevole, lo spettacolo veramente d’eccezione.

La nostra giornata in Verdon è segnata di lentezze. L’arrampicata estrema non conosce la febbrile attività che si impone sulle grandi montagne, quando un’angoscia leggera ci prende alle spalle e scrutiamo il cielo e teniamo d’occhio l’orologio, che sempre bisogna affrettarsi e neppure in vetta si può riposare. Là, noi che siamo abituati in parete a godere delle ore serene della sera, scopriamo sempre con qualche apprensione che in montagna vogliamo sempre partire, per tornare più presto. Ma in Verdon non abbiamo mai fretta.

Nessuno si alza all’alba. La doccia del campeggio è piacevole e fresca. Si fa colazione e si aspetta, sul prato, godendo pigramente del sole e del vento. Sappiamo che qui il giorno si allunga con la nostra parete e che oggi il tramonto indugerà nell’aria finché usciremo dall’ultimo tiro. Ogni gesto allora si distende nel tempo.

Quello che ci porta in Verdon è altro: vertigine sottile dell’abisso che suscita in noi fantasie. Qui l’arrampicata inverte le direzioni. Anche altrove a volte ci si cala in doppia per raggiungere la base di una parete, ma la discesa è allora occasione accessoria, funzionale alla via che vogliamo percorrere e che, come tutte le vie, dal basso sale verso la vetta. Ma in Verdon non esiste altro accesso. La discesa in doppia è strutturale, quasi che la parete non esistesse e noi la si dovesse inventare ogni volta con questo calarci dentro l’abisso. Senza questa finzione iniziale, non esiste Verdon.

Movimenti e situazioni per un’arrampicata di gran classe. La fessura dell’Orni.

Le storie della montagna sono piene di avventure verso l’alto, di salite su vette sacre e inviolabili, da dove si torna più saggi, come i profeti di un tempo, che dalla vetta videro il mondo stendersi ai loro piedi, ed era immenso e ricco di promesse e Dio stava con loro. Ma in Verdon ogni itinerario è fittizio e non porta da nessuna parte. Qui non si sale, si risale soltanto, alla superficie già nota del mondo, dove ora parcheggiamo la macchina e lasciamo le scarpe, dove il sole splende e lo spazio ci è amico, segnato dall’eterno, familiare incontrarsi di linee verticali e orizzontali, alberi e case e alture tra i campi e le strade. Noi, allora, ci fingiamo l’abisso. E quella ruga tra le colline, che ci pareva segnasse appena l’altopiano tranquillo, ora la vediamo spalancarsi profonda fino al centro della terra.

Mai avremmo pensato di doverci calare laggiù, dove il fiume urla la sua vicenda perenne di acqua e di roccia e nel luccichio ingannevole crediamo di scorgere il riflesso di rubino e di perla dell’antico tesoro che incanta il viaggiatore e lo attira irresistibilmente dentro le profondità della terra. Sì, è laggiù che vogliamo scendere e nel frastuono del vento ci pare ora di riconoscere la voce illusoria delle sirene e immaginiamo che l’incanto ci chiami. Canteranno, anche per noi le sirene canteranno promesse. E crediamo che se anche altri s’è perso, noi no, per noi si apriranno le porte del regno sotterraneo e ne usciremo portando tesori. Allora agganciamo il discensore e cominciamo a scendere.

Vorrei che con me ci fosse Virgilio e mi accompagnasse, silenzioso e sapiente.

In spaccata su Troglobule

Dunque si scende in doppia. Qui è nata la fama del Verdon, su queste doppie di cui si favoleggia ancora, paurose e temibili, doppie a strapiombo nel vuoto, dentro la gola che ci risucchia come fuscelli portati dal vento. Si scende faccia alla roccia. Da che parte si sale? E quando la corda cade nel vuoto oltre la bombatura compatta, girando lentamente su noi stessi, è la parete di fronte, allora, che incomincia a girare e in fondo il fiume è come un gioiello antico incastonato d’argento e tuona e rugge fin dentro le ossa. Più si scende, più la parete è immensa e il cielo si restringe. L’abisso è ampio abbastanza perché non ci prenda alla gola la mancanza di cielo, ma fondo tanto che ci pare di scendere senza fine. Suggestione del vuoto: appesi alla corda come a un filo di ragno si vive un attimo della vita del falco che abbiamo creduto di scorgere volteggiare laggiù e quel grido, Kii Kii, è rimasto nell’aria. Sarà il pellegrino davvero? O è l’immaginazione che ha riempito il vuoto intorno a noi con ali d’uccello?

L’abisso ci prende e dal profondo il fiume splende immobile in quel suo scorrere eterno, sempre lontano, sempre stupendo, come a chiamarci verso l’incanto che si apre per noi, mentre intorno la parete gira e noi siamo come sospesi sopra la vastità del nulla. E ci pare che se volassimo ora potremmo sfiorare il gorgo verde dell’acqua e vorremmo, sì, vorremmo buttarci, attirati dall’eterna lusinga di possedere lo spazio ed essere, noi, come il falco che chiama nel vento.

Senza corpo sarei, senza braccia pesanti. Senza l’inevitabile morte che mi accompagna.

Placca del Divin Marquis, sulla via dei Frères Caramel Mou.

Forse tutto il fascino del Verdon è in questo primo scendere in doppia, nell’iniziale vertigine che ci consente l’illusione di perdere la nostra limitata condizione terrena. Smarrimento consentito e provvisorio, gioco di impareggiabile abisso. Senza orrore, però. Perché anche se a noi piace credere che qui ci sia dato eliminare la nostra cosciente percezione dello spazio e abbandonarci all’ebbrezza di uno smarrimento totale, sappiamo pur sempre che questo attimo di eternità ci è garantito dall’essere, questo, un gioco che ha regole fisse, momento separato e circoscritto, che potremo eternare soltanto nei nostri racconti. Avventure senza eroismo, storie inconsistenti e leggere che consistenza acquistano solo nella ripetizione. Vane storie, vacue e risibili, di viaggi dentro l’abisso, attraversarlo e riuscirne, perduti, ognuno di noi nella nostra comune finzione. Sul Verdon non aleggiano orrori. Di chi ci è volato davvero nessuno di noi parlerà.

Un eroismo romantico, arrabbiato e solitario, in fondo disperato di perdizione o assurdo di una casualità che ci sfugge, un’arroganza incosciente di chi giovane e forte è venuto a cimentarsi con mitiche salite in solitaria subito terminate nel baratro, vero: di questo no, non si raccontano storie. Nessuno di noi è qui per questo. Da queste doppie, temibili solo nella nostra finzione, che non fanno paura solidi ancoraggi cementati nella pietra, né gli alberi contorti che hanno la resistenza della roccia, noi andremo dicendo per il mondo l’ambigua illusione del nostro terrore, il nostro rabbrividire da luna park, quel nostro fittizio perdere e poi ritrovare noi stessi. Per gioco: vacuità del mondo dell’arrampicata. Tutto Verdon.

Placca del Divin Marquis, sulla via dei Frères Caramel Mou.

Ma è la pietra, la pietra di cui siamo innamorati, a riscattarci da questa nostra finzione di scendere e poi risalire, la pietra che dà adito al gioco e giustifica il nostro sentire. Là dove finisce l’ultima doppia, ritirata la corda per l’ultima volta, noi stiamo nel vuoto, aggrappati alla pietra. Sotto di noi la parete scompare, inghiottita dagli strapiombi. Dal nulla inizia la nostra avventura. In alto la parete è immensa, striata di scuro, macchiata dal rosso delle erosioni, dal giallo delle grandi caverne. Ma domina il bianco. Pietra stupenda e perfetta, solida, forte. Le ali chiuse alla resistenza dell’aria, le rondini ci sfiorano le spalle con un sibilo come di sassi. Senza casco, ritiriamo bruscamente la testa e poi si sorride: ah, era la rondine! Stride nel vento, irridendo al nostro istintivo afferrare la roccia, ebbra di vuoto. Noi non siamo le rondini. Aggrappati alla pietra, nella luce strapiombante del giorno, il calcare ci tiene ammaliati. Il fiume scompare col suo colore di madreperla, incongruente e mite in quel fragore di vento e di sole, dentro la lontananza che lo risucchia come un nastro tranquillo oltre l’abbacinante splendore della pietra. Se volassimo ora sarebbe un tuffo ai confini del mondo, dove ogni colore si confonde nel bianco.

Sì, è la pietra di cui siamo innamorati, quella pietra così bianca che potrebbe essere neve, ma dura della consistenza del marmo e percorsa da lisce scanalature perfette, come se l’artista avesse passato la mano a levigarla della lucentezza del cristallo. La pietra senza tempo, che ha la lunghezza delle pareti migliori e annulla ogni nostra memoria, ogni passione, ogni fretta che è in noi. Indifferente alla lusinga del vuoto, eterna, la pietra cede solo alla parsimonia dei gesti, alla nostra silenziosa pazienza, e ci accompagna nel lento ritorno, pietra affilata e sicura, che incanta le dita e ci accarezza le spalle, più salda di ogni avventura. La pietra che resta nel sogno e sta nell’aria come organo e canto, immutabile e bianca.

La pietra che mai ci appartiene.

Patrick Edlinger

Sulla parete, noi siamo formiche. Della pietra conosciamo le pieghe e i sottili disegni, le rughe, i minuscoli appigli, tratti di un’architettura che ci sfugge e scompare alla vista in prospettive che fioriscono sotto le dita e si irraggiano via, tutt’intorno, disperdendo ogni altra visione. La grandiosità dell’ambiente, che ci era parsa promessa di avventure mai prima vissute, ora si restringe a questo piccolo cerchio entro cui ci muoviamo. Non partecipiamo più dell’immenso, ma anzi ci troviamo a fissare concentrati il minimo appoggio, l’unica scalfitura al centro del mondo. Il frammento ci strappa all’illusione della totalità. Inghiottito dallo spazio scomparso, ogni suono si perde. È cessato anche il grido del falco.

Frazionata, diluita nell’estrema lentezza dei gesti, dispersa nel tempo, la parete perde la sua integrità e annega nel vuoto. Con braccia leggere percorriamo la roccia, la memoria appartiene alle dita. Senza prima né dopo, dimentico di ciò che lo ha prodotto e inconsapevole di ciò che lo attende, ogni movimento acquisisce una incisività circoscritta, una perfezione senza direzioni. Là dove credevamo di trovare un concatenamento di azioni, un significato nella salita intrapresa, viviamo invece la rarefazione essenziale, la concentrazione, la purezza del gesto che non si inscrive in nessun discorso, non raggiunge nessuna vetta, non significa nulla. Fine a se stessa, l’arrampicata ci sottrae al sogno del senso, ci assorbe nella inverosimile accidentalità della pietra.

Dunque si scende in doppia. Qui è nata la fama del Verdon, su queste doppie di cui si favoleggia ancora, paurose e temibili, doppie a strapiombo nel vuoto.

Dalla parete usciamo al tramonto e subito cala la notte. L’aria mite della Provenza ci accoglie col profumo della lavanda e improvvisamente abbiamo sete, siamo stanchi, cominciamo a parlare. E subito facciamo progetti per tornare domani sulla stessa parete, poiché nulla è veramente accaduto e di nuovo il tempo ci assale e la morte ci tiene sospesi. E di nuovo vogliamo cercare l’incanto dell’acqua, il volo librato del falco, la splendida irrisoria saldezza della pietra.

In Verdon l’arrampicata si ripete all’infinito, ogni via è tutte le altre vie, ogni movimento, tutti gli altri movimenti. Infinita variazione del vuoto. Noi, che pure ci affanniamo ad investire di senso il nostro arrampicare e intessiamo mitologie dell’abisso e disegniamo simboli della vetta, qui dobbiamo prendere atto dello sfaldarsi di tutta la rete di significati che sempre andiamo dipanando. La ripetizione annulla ogni finalità, ogni singolarità dell’esperienza, ogni attendibile saggezza. Di Virgilio non abbiamo bisogno. Ogni gesto si svuota. Ogni parola si perde. In Verdon non siamo mai stati.

Questa è la “scheda gialla” a chiusura dell’articolo originale di Alp. Si ricorda che questo è del 1985, pertanto molte delle informazioni presenti in scheda non sono più attuali.
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Verdon ultima modifica: 2024-11-20T05:23:00+01:00 da GognaBlog

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6 pensieri su “Verdon”

  1. Un piacere leggere vecchi ricordi di quegli anni. Ho conosciuto Alessandro proprio in verdon e ricordo perfettamente la sua ricetta con lenticchie in salsa di pomodoro piccante e wurstel a pezzetti. Grazie!!! 
    Anna

  2. Marcello, più che molto lungo per me trasmette un senso di pesantezza che non ne facilita la lettura. Peccato perché lo trovo anche poetico.

  3. Verdon, quel posto dove ancora ora, dopo decenni, capita in sosta di ragionare se aggiungere un rinvio oltre alla longe … chissà perché questi pensieri vengono solo la’. Grazie per aver riproposto la magia del Verdon, quella magia che nell’86 mi fece intraprendere il primo dei molti viaggi nel cuore della Provenza e dell’arrampicata. 

  4. Un caro amico con il quale per un breve periodo ho fatto alcune salite,tornò da un 10 giorni in Verdon,che non conoscevo,e mi fece vedere le diapositive delle salite,picheninbul etc…allora per allora incredibili,..aveva ricevuto anche un invito da J.Moffat,per andare nel derbyshire,e mi chiese di andarci con lui,invito che rifiutai,la roccia pura a quei livelli non mi interessava,ricordo la rivista Alp con il servizio,ma il sottoscritto quelle immagini le aveva già potuto osservare ben prima…..un eternità fa..appunto.p.s leggersi la nuova rivendicazione…sulle schiodature..ha..ha

  5. Quando la premiata ditta Mantovani & Camanni sfornò il primo numero di Alp avevo 24 anni, arrapicavo già da qualche anno e ricordo perfettamente che, passando nei pressi di un’edicola, la mia attenzione venne catturata da una copertina di roccia. Scoprii così questa nuova rivista torinese che poi acquistai fino all’ultimo numero.
    L’articolo sul Verdon non lo lessi tutto perché lo trovai noioso, così come lo trovo ripetitivo e troppo lungo oggi.
    Segno che in 40 anni non sono cresciuto molto.
    Però, che tempi!

  6. Questo articolo me lo ricordo a memoria, numero di alp ben conservato. Fotografa bene l’atmosfera del luogo negli anni 80.
    E’ utile guardare indietro ma anche avanti. Oggi il Verdon non è solo l’Escales ma anche falesie incredibili della sponda opposta. E lo spirito primordiale dell’arrampicata sportiva non si è perso nemmeno in tempi di allenamenti scientifici e kneepad….
    Seb Bouin ha aperto vie estreme ma, a parte il grado, la cosa interessante è la passione che lo spinge…. ha provato i tiri anche in inverno, ponendo la carta assorbente sulle prese per diminuirne umidità, assicurato dalla madre (che scala sull’8a…) 
    Per chi non è solo dedito alla plastica, oggi ed anche in futuro l’arrampicata regalerà sempre grandi possibilità di magnifiche avventure, basta cercarle.
     
     

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