Questo scritto del 1981 costituisce il penultimo capitolo del mio libro La Parete. E’ stato pubblicato con il titolo Nel meccanismo della Storia.
Elementi di mito-alpinismo
“Il Beato Signore Krishna disse:
Non vi è nei tre mondi, o figlio
di Pritha, nulla che io debba o abbia
bisogno di fare, nulla da ottenere
che io non possegga già. Tuttavia io
non cesso di agire.
In verità, se non fossi instancabilmente occupato
nell’azione, figlio di Pritha, da ogni
parte gli uomini si inoltrerebbero
nella mia stessa strada.
Se non compissi la mia opera, i mondi
sprofonderebbero. Sarei io la causa
della confusione universale e
annienterei queste creature.
Gli ignoranti agiscono per
attaccamento all’atto, o figlio di
Bharata; anche il saggio deve agire;
ma senza attaccamento, mirando
solo all’integrità dell’universo (Bhagavad Gita, III, 22-25)”.
La lettura
E’ mia impressione che se si leggesse la Storia dell’alpinismo allo scopo di ricavarne nozioni “utili” o per trarne ispirazione o per rimeditare con il suo aiuto il nostro alpinismo non si troverebbero né dita puntate né cartelli indicatori né segnali di divieto. Ciò che potrebbe infastidire di più nella lettura è la scoraggiante mancanza di un qualsiasi percorso.
Duecento anni di storia dell’alpinismo si sono manifestati, ma non è finita e non c’è fretta, tutto è ancora aperto perché non ci sono conclusioni e sul nostro cammino incontriamo affermazioni tanto stupefacenti quanto paragonate alle successive e volute contraddizioni e perché meno segretamente del solito ci è ricordato che anche noi siamo fatti di elementi opposti e che pure le nostre azioni in montagna rispecchiano una sotterranea bipolarità.
Al servizio di Apollo
Il dio dei secoli diciannovesimo e ventesimo, il fulgido Apollo, risplende di luce bianca nelle menti analitiche del nostro Occidente, scienza e arte accademica se ne dividono il culto. Mi sono domandato spesso perché il suo diffuso credito fosse ai miei occhi imputato di soffocante avidità. Perché un ricco e potente vuole essere solo maschio e perché è una fortuna che Apollo non ottenga tutto ciò che vuole? Gli è stata sacrificata la nostra coscienza, ma Dafne continua a sfuggirgli in quella tragica danza-fuga-caccia nella quale si consuma la nostra moderna insoddisfazione di fronte all’evidenza che non ogni cosa si assoggetta a un’unica definizione o a un solo modello.
La nostra fondamentale bipolarità, sotterranea o no, è più forte del dio che la vorrebbe mutilata a favore di uno solo dei suoi elementi. È consolante che, a dispetto di ogni suo sforzo, l’uomo realmente viva e prosperi solo nel disordine, nella verità mischiata alla menzogna, nel litigio del dire e del contraddire, nella fanta-scienza.
Spie, ladri diabolici e traditori, come nei fumetti moderni, ci portano la vita con il gusto del proibito. I postini e i giornali ci portano le notizie che vogliamo trasmetterci e le spie ci portano quelle che nessuno vuole trasmettere. Che alpinismo ci sarebbe senza contraddizioni? La visione collettiva della montagna sta mutando sotto la pressione di spinte individuali consce e inconsce, molti al posto del bisturi della conoscenza analitica (con i suoi cataloghi commerciali di itinerari alpini, collezioni delle 100 più asettiche salite, scuole d’alpinismo per selezione razziale) hanno sostituito un approccio di dubbio amore per tutto ciò che si muove, parla, agisce.
La cronaca delle azioni in montagna ha creato monti famosi e monti dimenticati, ha creato un’esplorazione alpinistica “senza riguardo a chi la montagna conosceva prima di noi (Bernard Domenech)”. Ma questa cronaca si traveste da storia nel momento in cui le si attribuisce quella creatività nella quale hanno origine gli alpinisti famosi, i grandi e i mediocri. Nell’intrico dei canali veneziani i liquidi più diversi scorrono a loro piacimento: si crea l’esigenza di solitudine su montagne dimenticate perché ci si rifiuta di ammettere di aver ammesso talvolta la superiorità di quelli che hanno scelto le montagne famose. Si dichiara nato l’amore per la natura intatta per meglio esercitare il gusto ariano di predare e scorrazzare su terreni vergini. Possiamo chiamarla creatività di tipo B.
Stiamo ancora sopportando i grandi e i mediocri, la superiorità e l’inferiorità, il successo e l’insuccesso. Siamo curvi sotto il peso delle dolorose e sgangherate risate e i pianti isterici che c’infliggono le letture nelle quali idealismo e menzogna non riescono a co-annullarsi armoniosamente. È deplorevole che ancora c’infastidisca che membri di una spedizione nazionale patrocinata da un presidente della repubblica affermino, ad avvenuto insuccesso, che in fondo ai loro cuori preferiscono così, perché non sono né dei né eroi (La Montagne et Alpinisme).
Ma Icaro non si è mai pentito!
Sì, ma Icaro è morto.
La prossima volta si costruisca ali migliori!
Oppure scelga giornate invernali!
Solo i pazzi possono cambiare la visione collettiva, il più delle volte a prezzo del loro benessere o della loro vita. Solo i pazzi intuiscono che ogni conclusione e che ogni giudizio fa il gioco del proprio opposto in un ciclo sadomasochista senza fine. Chi non vuole essere folle senza neppure desiderare di essere il contrario del folle?
Voglio che il lumino della mia piccola coscienza rimanga acceso nella bufera di vento e nel diluvio: è l’unico dono che ho, il mio più prezioso bene. Ma dovendomi sorbire la mia overdose quotidiana di bugie credute verità mi ribello e la prima arma a disposizione va bene. Benvenuta una “Storia” che onori ciò che è eroico e che sghignazzi su ciò che è difficile, benvenuta se accusa i mediocri, se ride sui morti, se sputa sui migliori.
Empirismi mummificati vorrebbero far avanzare l’alpinismo con il progressivo inserimento in campo di problemi sempre più nuovi e sempre più “impossibili”. Idealismi ormai scialbi hanno ancora forza di spingerci alla ricerca dei nostri limiti. Entrambi gli “ismi” sono proiettati nel futuro e si servono del passato per dimostrare le loro ragioni. Sembra che non si possa fare a meno di passato e futuro, sembra cioè che non ci sia vita senza catene. Ci piace ancora così tanto essere al servizio di Apollo?
Anche se cerchiamo l’avventura, assieme al rischio e alla fatica, attendiamo un giorno dopo l’altro e lo attendiamo per liberarci dei problemi di oggi tramite la sostituzione con quelli di domani. Anche se ci piace arrampicare al sole, quasi nudi e in free climbing, siamo riluttanti a liberarci del problema della meta, del limite.
Limite ed Eros
Una valanga di nomi è stata data al limite che quindi si presenta ogni tanto in formule nuove nelle quali una generazione crede. Secondo ciò che dice il nuovo vangelo del VII grado, il limite è possibile solo in particolari ambienti solari: perciò si suggerisce che esso unisca la massima difficoltà alla più grande gioia, quella di esistere su pareti lisce e assolate mentre si danza e si dà espressione al proprio corpo. Non ho mai studiato mimo e non so danzare, forse ho troppi ricordi di alpinismo classico ma a me sembra una danza pericolosa e faticosa, che richiede anni di preparazione. Non è un’unione così facile da realizzare, al contrario di quanto suggerisce il serpente luciferino; sorge il dubbio che l’unione sia un’utopia. Ma questa è propagandata da quelli che sanno scrivere (Jean Claude Droyer su La Montagne et Alpinisme) e che però potrebbero essere stati le prime vittime dell’errore. Non c’è unione tra massima prestazione fisica e massimo piacere, anche se dovrebbe esserci. Questa confusione da un po’ di anni serpeggia e molti l’hanno eletta a “credo”. Alla base c’è un nume che preme per venire alla luce, forse Eros vuole che il limite si riveli perché solo così potrà liberarsene. Il movente ci spinge alla meta, ma quale meta? Alla fine noi vorremmo vivere eroticamente; per il momento però ci allontaniamo da lui nella ricerca del limite. È probabile che questa sia la meta dello stesso alpinismo e non è cosa facile da avere. Nulla è gratis per l’uomo, anche se la propaganda riesce a far credere che tutto è facile: compra e avrai. Invece, quando avrai comprato, avrai speso i tuoi soldi, la tua energia e avrai perso quel poco di paradiso terrestre che avevi in dotazione.
L’energia necessaria per unire la massima gioia con la massima prestazione fisica non è data e non si può conquistare con la forza. Gli allenamenti non servono, gli atleti senza la paura del vuoto non servono, perché senza paura non c’è amore. L’alpinismo di una volta era più completo perché non si era ancora diviso, ma è tramite le divisioni di Apollo che noi riusciremo a capire perché si fa alpinismo. Prima c’era la gioia e l’equilibrio, ma era come se non si sapesse quel che si stava facendo: una gioia animale, non una gioia umana di chi sa quello che fa.
Creatività del limite
Il limite, così come ci è proposto dalle immagini, sembra un nemico della fantasia. Di fronte a certe fotografie di scalatori aggrappati al nulla è inevitabile pensare che lo stesso tratto di arrampicata sia stato da loro compiuto numerose volte con progressivi miglioramenti oppure che in tutto ciò non ci sia nulla di nuovo perché di lì si era già passati con i chiodi, o con la corda dall’alto. Tratti di arrampicata senza fantasia, quindi. I veli che avvolgono il limite (e impediscono di riconoscervi la fantasia) non sono verginali: muscoli tesi, smorfie del volto, corpi decontratti e vuoto sottostante, elementi della nuova coreografia della foto ripresa dall’alto al capocordata. La battaglia per il riconoscimento del limite è dura ma necessaria. Ma è ancora più dura la guerra (e non bisogna perderla) per il riconoscimento della creatività durante lo spostamento del limite. Creatività di tipo A, interdetta ai ripetitori. A questi si apre solo una strada: avere più fantasia degli altri, forse cambiare alfabeto e guardare lontano. Chi restringe, chi riduce, chi copia, chi segue le tecniche, chi s’allena ripetitivamente, chi spia ogni piccola novità sul mercato dell’attrezzatura, è impedito alla creatività. Per fortuna i risultati di entrambe le fazioni sono facilmente confondibili, ciò crea caos e quindi nuove possibilità di creazione, con gran smacco delle smanie classificatrici.
Il momento creativo comporta implicitamente il problema del riposo, per evitare il non-creativo. Il riposo dopo l’azione dev’essere vero riposo e non un indulgere su ciò che si è fatto. Se ci si sofferma, se si giudica, l’azione è divisa in due parti, una buona e una cattiva. Iddio disse “Sia la luce!” e la luce fu. Vide Iddio che la luce era buona e Iddio separò la luce dalle tenebre (Genesi, I, 3-5). Ma solo così siamo stati abituati a iniziare un reale processo di autoconoscenza…
Ciò riporta alla ricerca di noi stessi, argomento che dovrebbe distoglierci almeno un momento dalla ricerca dei nostri limiti. Non è così vitale il nostro limite quando non abbiamo accertato cosa siamo! Forse la parola limite è un travestimento di altre, come origine e fine, nascita e morte. La curiosità della nostra anima a questo riguardo non si può arrestare ma può essere deviata in canali diversi. La spinta all’indagine sulla nostra origine e sulla nostra fine spesso si incanala nel problema della competizione.
Il giudizio dei vermi (Pink Floyd, The Wall)
Il tragico meccanismo della competizione
Dodici anni dopo che Laser aveva salito una difficilissima parete, egli stava ancora riposando. Gli venne però riferito che Verme aveva ripetuto la sua via e con sufficienza l’aveva giudicata difficile ma non estrema. Laser era troppo equilibrato per arrabbiarsi e troppo scaltrito per rituffarsi nella ruota del Karma e fare una via ancora più difficile a scopo dimostrativo. Gli sarebbe sembrato di assumere un comportamento infantile, anche se gli piaceva molto osservare i bambini che giocavano. A ben pensarci Laser riconosceva il ruolo creativo di Verme. Senza il giudizio dei vermi si fermerebbe addirittura la ruota del Karma. Laser poi ammetteva che il rimanere assolutamente fermo gli riusciva impossibile e così escogitò uno stratagemma: sarebbe andato a fare una via da solo e non lo avrebbe detto a nessuno. Così dopo dodici anni nessun altro verme lo avrebbe disturbato. Soppesava la corda e un po’ di materiale, il minimo indispensabile, quando un sospetto lo fermò: forse così facendo egli si sarebbe posto in confronto con chi, in cordata, aveva già salito quella via prima di lui. Una trappola così stupida sarebbe stata inammissibile, ma forse la soluzione c’era. Dopo un momentaneo smarrimento la mente di Laser correva indietro nel labirinto dei progetti vissuti e non realizzati, quasi dimenticati, per trovare una parete inviolata. Egli sarebbe salito di là da solo. E non lo avrebbe detto a nessuno.
Allorché Laser era ormai sulla strada, il sole stava tramontando. La sua ombra frettolosa venne proiettata innanzi, lunghissima. Da quando era nato gli era stato consegnato quel fedele angelo custode, come a tutti. Di notte e al buio silenziosamente rientrava nel corpo ma non appena c’era luce sufficiente ne usciva. Laser si era abituato alla propria ombra ma gli dispiaceva che tra di loro ci fosse una certa incomunicabilità. A Laser piaceva però l’autosufficienza della sua ombra e che lei svolgesse il suo ruolo senza interferenze e senza confronti rudi. Il problema dei confronti lo rioccupò d’improvviso. Forse, anche se non lo avesse detto a nessuno, avrebbe finito per confrontarsi con se stesso. Quella lunga ombra gli suggeriva che sarebbe stato triste se, per evitare la competizione con gli altri, Laser l’avesse perpetuata con se stesso, sarebbe stato terribile e ancora più doloroso. Anche dirlo agli altri, senza specificare le difficoltà o con più o meno volute imprecisioni, non avrebbe avuto senso.
Laser realizzò che il dio della purezza, l’idea categorica del Bene assoluto, non è cosa da uomini, ma da robot. Solo per un robot è possibile questo tipo di programmazione. E qui nacque l’idea ultima: uccidere il Bene e il Vero, liberarsi dalla loro schiavitù servendo per poco il Male e il Falso. Laser tornò a casa e abbandonò in un angolo il materiale d’arrampicata. Avrebbe detto a tutti di aver compiuto un’impresa che invece era esistita solo nella sua fantasia. La gioia di questa intenzione atroce e sublime gli procurava fitte di salute, mentre beveva una bottiglia di cattivo whisky a canna. Ormai ebbro e barcollante non ebbe più l’energia di dire al mondo che aveva vinto se stesso, il suo idealismo e il suo orgoglio. Il mattino dopo, inquadrato in un violento mal di testa, c’era solo il Vuoto: non scalare, non dire nulla.
Il suo corpo, pur essendo vivo, non gettava più ombra e Laser sapeva che lo aspettavano altri dodici anni di riposo.
Il vuoto mentale
Molti saggi hanno detto che nel caos c’è l’origine, nel nulla è il limite e che in entrambi è l’assoluto. E qui interviene il discorso sulle meditazioni orientali. Caratteristica del nostro tempo è l’importazione delle tecniche yoga e di meditazione. Ci aggrappiamo con fiducia a nuove formule, alla mistica senza religione. Ma c’è anche l’illusione di fondo di far meglio, di riuscire meglio, di aver trovato l’arma vincente nell’ennesima dicotomia, quella d’Oriente e d’Occidente. Il pensiero orientale è antico, anch’esso deve pagare uno schiacciante tributo alla giovane civiltà dei consumi. Monaci, maestri, guru predicano la via alla felicità in frettolose conferenze e in corsi-lampo e assieme ai volonterosi ascoltatori ritualizzano il consumo della Conoscenza. Durante la masticazione e la deglutizione, tecnica e meta subiscono una distorsione. La trasmissione della Conoscenza una volta avveniva da Maestro a Discepolo, nel silenzio di un tempo devalorizzato, con l’uso della stessa lingua madre. I tempi sono cambiati, i valori non sono più quelli e, a dispetto dello scandalo che provocherebbe, Buddha stesso non esiterebbe, nella sua immensa saggezza, a riconoscere la necessità della distorsione, che alcuni di noi chiamano invece putrefazione della genuina Conoscenza. Se l’“agire senza scopo” di Krishna è diventato oggi un “cercare di vuotare la mente”, “cercare di rilassare i muscoli”, in tutti questi “cercare” la magica atmosfera della Bhagavad Gita scompare, ma chi poteva pretendere che la vite desse uva in eterno senza praticarle innesti? Ancora una volta assistiamo a una contaminazione, ancora una volta la merda è creativa. Da un lato sappiamo che la meditazione non prevede record da battere, dall’altro inesorabilmente tutto si mescola. L’ansia di una civiltà in decadenza che nella sua religione pretende la vittoria dello Spirito sulla terra ma che in pratica persegue la vittoria sulla terra a spese dello Spirito, è l’ansia del nostro Io che sa di non avere più molto tempo ed energia: qualunque linfa vitale è buona, qualunque cibo va bene per non morire. Il mischiare crea creazione, solo con irregolari iniezioni di caos si può vivere, senza classificazioni e categorie preponderanti, i primi ostacoli di una qualunque meditazione asiatica. Nel momento vitale, il reale presente, caos e nulla s’incontrano, l’Assoluto si manifesta in quel momento e noi sentiamo la Vita invaderci.
Il ciclo della vetta o la volontà di vittoria
L’alpinismo classico, la ricerca della vetta, l’ascensione epica di una montagna hanno senso alpinistico solo in previsione di una banale discesa per chiudere il ciclo. Tutti ci siamo innumerevoli volte calati in questo ciclo ripetitivo, paragonabile al ciclo di morte e rinascita. Nell’appiattita vita occidentale l’archetipo della rigenerazione spinge gli alpinisti a ri-crearsi di continuo. È quindi un’azione rituale quella che ci fa salire in alto, circondata da mille rituali secondari che conosciamo bene. Officiando il rito, l’energia che produciamo ci è restituita trasformata, e così ci trasformiamo come pane e vino sull’altare. È un modo di vita che non necessita di conoscenza e si può anche fare a meno di caos e di vuoto purché non si verifichi la quasi inevitabile dicotomia vetta-pianura (eroismo-banalità).
Il ciclo della scalata o il piacere dell’arrampicare
Non c’è Eros senza durezza e dolcezza unite in proporzioni imprevedibili. L’alchimia di quest’unione prevede migliaia di tentativi nell’alambicco. Roccia calda, ma costruita su un vuoto freddo. Un appiglio è un buco. La luce gioca con il buco e crea l’ombra su un muro di sole. La mano vi s’inoltra e si sente protetta non dal sole ma dall’ombra del buco, mentre il corpo si sente protetto dal sole e minacciato dall’ombra del vuoto. Ma tutto ciò non rientra in schema perché non sempre un buon buco rivela una buona presa interna e qualche volta anzi la nasconde: e allora il connubio dolcezza-durezza sembra interrompersi, nasce la paura che si mescola al piacere. Questa è la casa di Eros. Sul granito liscio, regno di geometria, le linee verticali sono nemiche e fuggono sopra e sotto di noi; nello stesso tempo ci circondano minacciosamente. Le linee orizzontali ci sono amiche ma solo durante l’incrocio con quelle verticali danno luogo agli appigli.
La ricerca del sempre più difficile (eliminazione progressiva delle linee orizzontali) coincide con l’occidentale smania di preferire uno solo degli elementi che costituiscono Eros.
Il Sacro Graal
Il ciclo della vetta e il ciclo della scalata sono sintomi di un mito che attraverso un rituale simbolico vuole esprimersi e mettere in recita se stesso e che attraverso l’epica dell’eroe si rivela come ricerca del Graal, del “vas ermeticum”.
Qualunque Storia che non dia definizioni, neppure quelle relative alla creatività, è viva e s’inserisce nel flusso del mito. La vita è indeterminata e non necessita di distinzioni tra creatività di tipo A e di tipo B. Definire la creatività è quindi superfluo alla vita: nel momento vitale, in cui recita e ricerca coincidono, noi siamo creati dalla divinità che è in noi.
Nel grigiore del nostro quotidiano, la creatività è un’indefinibile iniezione d’umidità, di caos tratto dal “vas ermeticum”, e la ripetitività delle nostre ascensioni e delle nostre esistenze può essere interrotta solo dalla recita consapevole nel dramma dell’ascensione e dell’esistenza.
Se il paradiso terrestre c’impigriva, grazie al diavolo l’abbiamo perso: ma dobbiamo addolorarci di non aver ancora accettato il peccato originale come limite. E se si continua di regola a “non accettare”, il riposo dopo l’azione non è vero riposo, bensì desiderio d’azione; e se si “vuol” creare, la ruota del Karma non si ferma e i desideri non cessano, mentre dovrebbe essere vero che, anche se ci ripugna, qualunque cibo va bene e che la merda puzza affinché non la mangiamo.
L’alpinismo è come un “opus” alchimistico, senza tempo e senza spazio, ripetitivo e creativo, segreto e banale: ciò che si svolgeva nella protezione di solide mura e nell’impenetrabile silenzio e mistero di menti medioevali, oggi si ripete con altre scene, con altri attori e costumi, ma il teatro e l’autore sono sempre gli stessi. Se il “maledetto” Mefistofele appariva a Faust nei momenti di lucida follia, oggi il represso Eros, assieme a Pan e anche a Dioniso, alimenta la recita e scava la breccia nell’insondabile “vas ermeticum”, creando quella nuova sorgente in cui si riproduce l’indistruttibile energia vivente. Mentre le pareti, le Alpi, le falesie, i crag e le montagne himalayane sono immobili ad attendere di essere riconosciuti come gli specchi da rompere per Amore di noi stessi, è mia impressione che se si leggesse la Storia dell’Alpinismo allo scopo di ricavarne nozioni “utili” o per trarne ispirazione o per rimeditare con il suo aiuto il nostro alpinismo è giusto che non si trovino dita puntate, né cartelli indicatori, né segnali di divieto.
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