Emilio Comici, tra libera e artificiale

Emilio Comici, tra libera e artificiale
di Gian Piero Motti
(pubblicato in La storia dell’alpinismo) (GPM-SdA-23)

Abbiamo visto che le prime imprese di sesto grado compiute da alpinisti italiani sulle Dolomiti furono realizzate soprattutto in arrampicata libera, con l’uso di pochissimi chiodi. A poco a poco però l’interesse di alcuni arrampicatori si andava rivolgendo verso quelle pareti dall’aspetto veramente “impossibile”, insuperabili in arrampicata libera. È quello che poi più tardi Reinhold Messner chiamerà l’interesse per il «giallo», ossia quelle pareti verticali e strapiombanti che in Dolomiti sono caratterizzate da roccia giallastra. Il superamento di queste pareti sarà reso possibile solo dall’uso sistematico dei chiodi, piantati progressivamente uno dietro l’altro, dall’impiego della doppia corda e dall’uso delle staffe di cordino per appoggiare i piedi nei tratti strapiombanti o privi di appoggi per le pedule. Questa tecnica d’arrampicata, detta artificiale, se praticata in modo «pulito» ed onesto, è assai faticosa e difficile, in quanto si ricorre al chiodo solo dove è veramente impossibile salire in arrampicata libera. Ma si può facilmente comprendere come l’impossibilità a salire in libera sia un limite terribilmente soggettivo e come questa tecnica permetta quindi una vera e propria facilitazione dell’arrampicata libera da parte di chi non è capace a superare certi gradi di difficoltà.

Vedremo più in dettaglio come sovente i primi salitori, arrampicatori di grande e provato valore anche in libera – almeno fino ad una certa epoca – abbiano veramente ridotto l’uso dei chiodi al minimo indispensabile, “tirando” l’arrampicata libera ai limiti di caduta prima di ricorrere ai chiodi e alle staffe. Saranno piuttosto poi i ripetitori ad aggiungere via via chiodi supplementari, trasformando in vere e proprie scale di chiodi delle vie che invece presentavano un’arrampicata alterna (“mista” in termine tecnico) con tratti di arrampicata libera di estrema difficoltà e di notevolissimo impegno tecnico ed atletico tra un chiodo e l’altro. Vi è poi da aggiungere che molti chiodi piantati dai primi salitori con enorme dispendio di fatica e con notevole lavoro di intuito per scoprire i buchi naturali e le fessure chiodabili, una volta rimasti infissi in parete indicano non solo la via da seguire ai ripetitori, privando la salita del fascino avventuroso che invece esiste nei grandi percorsi in arrampicata libera, ma eliminano completamente la fatica, la difficoltà ed il rischio, trasformando queste salite in monotoni issaggi da un chiodo all’altro per mezzo di staffe.

Il triestino Emilio Comici non giunse all’alpinismo in giovanissima età, come altri suoi contemporanei, ma vi giunse invece dopo una prolungata attività speleologica praticata nelle vicine grotte del Carso. Pare fin troppo facile l’immagine dell’uomo che esce dagli abissi oscuri e senza luce dell’interno della Terra per venire alla luce e poi salire la montagna mitica e simbolica verso il Cielo…! Eppure, certo non per sua volontà, Comici di tutti gli alpinisti italiani di quel periodo fu il più idealizzato, il più conosciuto ed anche il più «reclamizzato» dalla stampa e dal regime, che lo fece quasi assurgere come simbolo dell’italico valore e della superiorità atletica della razza latina. Non certo per sua volontà, di questo si può essere più che sicuri, ma forse perché gli amici che lo attorniavano furono un po’ trascinati dall’entusiasmo nell’esaltare le sue gesta e forse proprio perché gli stessi amici o non erano affatto alpinisti, come il giornalista Vittorio Varale, oppure erano alpinisti assai meno abili di lui, come Severino Casara.

Nel primo caso, Varale, non essendo alpinista, come giornalista fu assai colpito dal carattere spettacolare delle realizzazioni di Comici in arrampicata artificiale – vedi la parete nord della Cima Grande di Lavaredo – ed invece non comprese e non attribuì il giusto merito ad altre salite di Comici, come la via al Civetta, compiute in arrampicata libera prevalente ed assai più valide della Nord della Grande: vi è anche da dire che molte salite di Comici furono realizzate con la moglie di Varale, la famosa e fortissima Mary: è probabile che attraverso i racconti della moglie, Varale (si ripete: non alpinista) abbia esagerato un po’ nell’esaltare certi aspetti di alcune scalate.

Nel secondo caso, è naturale che Casara rimanesse incantato dalle prodezze di Comici in arrampicata (il quale lo si è detto e lo si ripete, era arrampicatore di bravura eccezionale), in quanto si trovava nel caso tipico dell’allievo che osserva estasiato il grande maestro. Se Casara fosse stato forte come Comici, forse il suo giudizio sarebbe stato più equilibrato.

Comunque, Comici resta nella storia dell’alpinismo un personaggio “chiave”, come un Preuss o un Bonatti. E anche la sua personalità non è così semplice da tratteggiare, in quanto il triestino rappresenta alla perfezione il caso dell’alpinista un po’ triste e melanconico, romantico e solitario, dal carattere introverso e soggetto a rapide mutazioni di umore, in un’altalena di esaltazioni e depressioni che portano inevitabilmente alla realizzazione di imprese sempre autosuperanti, in una corsa fatale verso il traguardo della morte in montagna.

Comici non aveva delle grosse doti naturali ed atletiche, anzi si dice che la sua taglia fosse quella di un fantino. È probabile che questa supposta condizione di inferiorità lo abbia spronato ad una sorta di rivincita; infatti, attraverso la pratica metodica e costante della ginnastica e dell’atletica, riuscì a svilupparsi un fisico potente ed agile allo stesso tempo, con un rapporto “peso-potenza” decisamente favorevole in quanto la bassa statura ed il peso corporeo scarso gli permettevano di sfruttare al massimo il notevolissimo potenziale muscolare sviluppato con l’attrezzistica. In arrampicata questa condizione favorevole gli permise di affinare uno stile del tutto particolare, estremamente suggestivo, elegante, anche se forse un po’ ricercato e sovrabbondante. Ma era comunque uno stile che rifuggiva l’essenzialità ai fini dell’impresa da compiere: per Comici l’arrampicata era soprattutto un momento estetico, un rapporto narcisista; la parete era il grande specchio su cui si riflettevano i gesti ed i movimenti dell’arrampicatore. Gesti eleganti, fluidi e perfetti: l’importante non era raggiungere la vetta ad ogni costo, l’importante era raggiungerla lungo un tracciato ideale – la famosa via della goccia cadente – e arrampicando in modo elegante e sicuro. In questo caso è giusto parlare di «arte d’arrampicare di Emilio Comici» ed effettivamente a Comici va attribuito il merito di aver perseguito questa strada, che in seguito raccoglierà i favori di moltissimi alpinisti e soprattutto dei giovani arrampicatori di oggi, sempre alla ricerca del «gesto» perfetto, armonioso ed elegante.

Con questi presupposti è quindi facile comprendere perché Comici fu soprattutto un arrampicatore puro e dolomitico e perché non spostò mai la sua azione sulle Alpi Occidentali, dove l’eleganza scompare sotto l’abbrutimento della fatica. E si comprende anche perché Comici non fu collezionista di salite; infatti, se si paragona il numero delle sue imprese con l’attività di altri alpinisti dell’epoca, si scopre che Comici in un confronto di questo genere risulta non certo il primo. Ma Comici non va giudicato in questo senso: arrampicava per puro diletto e solo quando lo “stato di grazia” glielo permetteva. Cercava nell’arrampicata qualcosa di diverso, qualcosa che va più in là della semplice vittoria sulla montagna e su se stessi. E proprio per questo fu un insoddisfatto cronico. E proprio per questo non fu compreso e capito e sovente i suoi atteggiamenti nevrotici e contraddittori gli fecero piovere addosso critiche, calunnie e molte gelosie. In fin dei conti Comici può anche apparire come una vittima delle situazioni più forti di lui: certamente era un arrampicatore libero nato, elegante e sicuro, capace di imprese superiori. Ma la storia, i fatti e la necessità di progredire lo portarono, o lo scelsero, come alfiere dell’arrampicata artificiale, di cui egli divenne perfezionatore, maestro e difensore.

Altri accusano Comici di essere stato favorevole all’ideologia del regime e di averne abbracciato in pieno, facendosene quasi paladino, il carattere nazionalista e competitivo. Bisogna comunque stare attenti a non generalizzare troppo nel giudizio: Comici sentiva molto il problema di difendere ed innalzare il prestigio dell’Italia in alpinismo, realizzando imprese pari, se non superiori, a quelle compiute dai tedeschi sulle Dolomiti. Ebbe infatti a dire: “Questo era il mio sogno, la mia aspirazione: porre in testa l’alpinismo italiano sulle Dolomiti». Ma non si dimentichi che Comici era triestino ed era “cresciuto” in un ambiente sportivo estremamente patriottico ed irredentista, tipico della città veneta. Inoltre Comici fu forse il primo cittadino ad abbracciare la professione di guida alpina e quindi, come sempre purtroppo accade in questi casi, non fu accolto benevolmente dalle guide valligiane, le quali vedevano in lui un temibile concorrente. Si sa che a Misurina la vita più volte gli fu resa difficile dalle gelosie e dalle invidie dei locali. Ma il suo fu un esempio che ebbe seguito e favore: saranno poi moltissimi i cittadini che, intendendo dedicare la propria esistenza all’alpinismo, abbracceranno il mestiere di guida e si stabiliranno definitivamente in montagna. A seguito di questo fenomeno la differenza tra cittadini e valligiani andrà facendosi sempre più tenue, in quanto le guide cittadine assumeranno l’iniziativa in numerose imprese di polso e comunicheranno il loro spirito ai valligiani che diverranno loro compagni di cordata. Comunque, nelle guide cittadine si noterà sempre una maggiore propensione a realizzare imprese al di fuori della professione piuttosto che a svolgere il proprio lavoro guidando i clienti. Oppure vi saranno casi in cui – vedi Rébuffat e Terray – le guide porteranno i loro clienti in imprese di grande valore.

Ritornando a Comici, i suoi meriti in campo tecnico sono unanimemente riconosciuti. Sull’esempio austriaco e tedesco, egli fu uno dei primi a comprendere l’importanza della palestra di roccia ed infatti seppe scoprire e sfruttare magistralmente i piccoli salti rocciosi e le paretine calcaree della vicina Val Rosandra, aprendo agli arrampicatori un magnifico campo d’allenamento. La palestra di roccia dapprima susciterà negli ambienti occidentali riprovazione ed ironia ma in seguito, quando ci si accorgerà che da palestre e da sistemi d’arrampicata praticati in Grigna, in Val Rosandra e a Fontainebleau usciranno alpinisti come Cassin, Comici e Allain, allora i giudizi un po’ affrettati dovranno essere ridimensionati ed anche negli ambienti occidentali ci si darà da fare per cercare luoghi idonei a praticare arrampicate d’allenamento nei pressi delle città.

Attraverso l’arrampicata in palestra Comici giunse a perfezionare la progressione in artificiale, elaborando l’uso della doppia corda, introducendo l’impiego delle staffe di cordino e quindi, di conseguenza, specializzandosi nel superamento di tetti e strapiombi con abili manovre, più impressionanti e spettacolari che difficili. Cercò anche di studiare più a fondo le tecniche di assicurazione, che fino a quell’epoca erano sempre piuttosto improvvisate e comprese anche l’importanza di creare una scuola d’alpinismo, per costruire un forte vivaio negli ambienti cittadini. Infatti la prima scuola italiana d’alpinismo fu fondata a Trieste proprio da Emilio Comici ed ebbe nome «Scuola Val Rosandra», trasformatasi oggi in «Scuola Emilio Comici».

Le grandi imprese di Emilio Comici sulle Dolomiti
Le prime realizzazioni di Comici ci portano nelle Alpi Giulie, dove il triestino dal 1925 al 1929 compie un’esplorazione metodica, alla ricerca dei problemi ancora insoluti. Soprattutto sulle selvagge e magnifiche pareti delle Madri dei Camosci, della Cima di Riofreddo e del Jôf del Montasio, Comici traccia degli itinerari eleganti e diretti, che susciteranno l’ammirazione e l’entusiasmo di Julius Kugy. Come Kugy, anche Comici subiva il fascino fortissimo di queste montagne solitarie, silenziose ed un po’ tristi ed anch’egli amava vagare tra le gole ed i dirupi, in ogni stagione, anche in inverno, risalendone i pericolosi canaloni ghiacciati.

Ma è del 1929 la prima grande impresa che lo porta alla ribalta dell’alpinismo italiano: la salita di sesto grado compiuta sulla Sorella di Mezzo con Fabjan, di cui già si è detto precedentemente. Poi, dal 1930 al 1933, è tutto un susseguirsi di prime ascensioni che spaziano dalle Giulie a tutti i gruppi dolomitici, alla ricerca di problemi interessanti ed insoluti. Si può dire con certezza che nessuna via di Comici è banale, a prescindere dal grado di difficoltà; essendo predominante il fattore estetico, ripetere una via di Comici è sempre un piacere ed una soddisfazione per chi ama l’arrampicata aerea, elegante e diretta.

Il 1933 è l’anno di grazia e il periodo in cui Comici esprime il meglio di se stesso in una serie di imprese estremamente difficili e contraddittorie dal punto di vista dei sistemi usati, che bene esprimono il carattere del triestino, combattuto tra l’arrampicata libera pura e l’artificiale.

Il 4 e 5 agosto, con Benedetti, compie la sua salita capolavoro, aprendo sulla parete nord-ovest del Civetta una via parallela alla Solleder. L’intento di Comici era tracciare una vera e propria direttissima dalla base alla vetta, ma fu ingannato dalla prospettiva della parete vista dalle ghiaie d’attacco e quindi ne risultò una via molto diagonale e sicuramente assai meno valida della Solleder in quanto a logicità ed eleganza del tracciato. Ma dal punto di vista della difficoltà pura, la Comici supera nettamente la Solleder di quasi un grado, sia per la grande continuità dei passaggi difficili, sia per la difficoltà tecnica stessa dei singoli passaggi, dove si raggiunge il livello estremo in arrampicata libera e nei tratti artificiali – pochissimi in verità – resi necessari dal superamento di numerosi strapiombi e tetti aggettanti. La critica ha sempre definito la Nord della Grande di Lavaredo come la più grande realizzazione di Comici: oggi, in base anche al giudizio di molti ripetitori, si può tranquillamente affermare che la Nord della Grande fu l’impresa più spettacolare di Comici ed anche la più ardita nella concezione, in quanto osò affrontare l’impossibile, ma, dal punto di vista della difficoltà e come stile di salita, il suo capolavoro è sicuramente la via al Civetta. Anche a giudizio dei ripetitori, si tratta di un’arrampicata di classe superiore, degna di stare al fianco delle vie di Andrich e di Vinatzer.

Il 12 e 13 agosto con i fratelli Dimai, dopo una lunga serie di tentativi infruttuosi, Comici vince la Nord della Grande ricorrendo nei primi duecentocinquanta metri all’impiego sistematico dei chiodi e realizzando un’impresa che desterà i commenti più disparati, dall’ammirazione sviscerata alle critiche più severe. È comunque una salita storica, la prima che apre il cammino ad una lunga serie di imitazioni. Non si creda comunque che la salita di Comici e dei Dimai fosse stata compiuta passando facilmente da un chiodo all’altro, come è uso oggi salire questa parete (1): l’arrampicata libera fu tirata a livelli di caduta e l’impiego dei chiodi fu ridotto veramente allo stretto necessario. La salita fu dunque compiuta con spirito estremamente elegante e pulito. Se critiche vi sono da fare, non sono certo rivolte al modo con cui la scalata venne condotta, ma piuttosto all’abbattimento di un tabù, al cammino futuro che si aprì con questa scalata. Di tutte le vie tracciate sulla parete nord della Grande, quella di Comici resta ancora la più “libera” ed anche la più logica. Ciò non sorprende, se si pensa che questa parete simboleggia alla perfezione l’impossibile in arrampicata libera e testimonia l’evoluzione dell’arrampicata artificiale nella sua lotta contro questo impossibile, dai timidi approcci di Comici fino alle degenerazioni compiute a furia di chiodi a pressione e di permanenze in parete di intere settimane.

Ancora il 17 e 18 agosto, sempre del 1933, Comici, con Mary Varale e con Renato Zanutti, sale il fantastico Spigolo Giallo della Cima Piccola di Lavaredo, realizzando nella pratica il suo ideale di dirittura, eleganza e perfezione estetica.

Oggi lo Spigolo è una “classicissima” delle Dolomiti ed è molto ripetuto, anche perché non si segue più il tracciato originale di Comici che tiene il filo di spigolo, ma in molti tratti si appoggia a destra su rocce più facili. Inoltre, come al solito, i moltissimi chiodi presenti in parete hanno svalutato il primitivo valore di questa scalata, ma il pensare di salire lungo quella lama gialla e verticale, dove nessuno aveva mai tentato, a quei tempi poteva essere scambiato per una pazzia e solo la padronanza assoluta della nuova tecnica ed il coraggio permisero a Comici di concepire e realizzare una salita del genere. Probabilmente in quel periodo vi erano altri che dal punto di vista del coraggio e della capacità in arrampicata libera avrebbero potuto vincere la Nord della Grande e lo Spigolo Giallo, ma nessuno aveva perfezionato la nuova tecnica e nessuno ne era padrone come lui. Solo lui, quindi, poteva forse accingersi con una certa sicurezza alla conquista di quelle lavagne lisce, giallastre e repulsive. Comici “sapeva” per esperienza che con la tecnica del chiodo sarebbe passato dove in libera non si passava più e dove dal basso sembrava impossibile. Altri, che non avevano acquisito la stessa esperienza, non potevano “sapere” e si davano già sconfitti in partenza. Dopo, una volta rotto il ghiaccio, tutto sarà più facile anche a molti altri contemporanei, come Cassin e i lecchesi, che ben presto, valendosi dell’esperienza e dell’insegnamento di Comici, realizzeranno imprese di pari valore ed anche più difficili, non avendo più da abbattere il forte ostacolo interno rappresentato dall’inibizione psicologica.

In un’altalena di depressioni ed esaltazioni, come ben risulta dal suo diario di scalate, la carriera di Comici prosegue sempre all’insegna della ricerca del nuovo e del superamento delle mete acquisite. Nel 1937, in uno di quei giorni “grandi” in cui gli alpinisti sogliono riscattarsi da amare delusioni esistenziali, Comici scala da solo, in tre ore e tre quarti, la sua via sulla Grande, realizzando un exploit che lascerà ammirati e sconcertati gli ambienti alpinistici. Come se già non fossero bastate le imprese della Grande e dello Spigolo Giallo, quest’ultima scalata solitaria lo porta ancor più alla ribalta del mondo anche non alpinistico e si crea una fama di “Comici uomo-mosca”. Comici entra nella leggenda (come sarà per Bonatti) ancora da vivo e nel bel meglio del suo agire, attirandosi, non per colpa sua, ma piuttosto per le esaltazioni troppo entusiastiche di Varale, un mucchio di critiche ed un sacco di invidie velenose. Inoltre, le esagerazioni della stampa cominceranno purtroppo a presentare al pubblico profano un’immagine distorta e non vera dell’alpinista, confezionando un modello artificioso dell’arrampicatore e creando nel pubblico il gusto della tragedia e del dramma. L’alpinismo diverrà sinonimo di pericolo, di rischio suicida, di sfida alla morte, di tragedia e di dramma. Il pubblico crederà a questo e non comprenderà mai che l’alpinismo è tutto il contrario, anche se qualche volta deve accettare e subire i propri aspetti negativi.

L’ultimo periodo nella breve vita di Comici è caratterizzato da una serie di imprese compiute con l’amico vicentino Severino Casara, il quale poi ne canterà le gesta in molti libri. L’ultima impresa è quasi il “canto del cigno” e sfiora la perfezione per l’eleganza dell’arrampicata e il valore estetico del tracciato. Su un torrione che si eleva sui fianchi del Sassolungo, detto il Salame per la sua forma cilindrica, Comici traccia una via non lunga (350 metri) ma splendida e difficile, un vero e proprio trionfo dell’arrampicata libera su quella artificiale. Senza voler fare della retorica, proprio l’ultima impresa forse vuole fissare il suo primo e grandissimo amore per l’arrampicata libera pura, esposta, elegante e difficile, dove il chiodo interviene solo rarissimamente.

Poco dopo, in una esercitazione in palestra in compagnia di amici, scendendo in corda doppia, Comici si uccide per la rottura di un cordino.

(1) Si ricordi che questo scritto di Motti è precedente alla rivoluzione della libera sulle grandi vie aperte in misto libera-artificiale. In quegli anni la maggior parte dei ripetitori non esitava ad attaccarsi ai chiodi che trovava in loco, e qui Motti denuncia fedelmente questa prassi. NdR).

Emilio Comici, tra libera e artificiale ultima modifica: 2024-01-15T05:53:00+01:00 da GognaBlog

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11 pensieri su “Emilio Comici, tra libera e artificiale”

  1. COMINCI !
    Un personnage énigmatique et attachant,
    Un grimpeur talentueux,
    Et une vie trop courte, malheureusement.

  2. Avrei voluto scrivere la mia opinione sulla figura umana del grande Emilio Comici, un’opinione formatasi nel tempo con la lettura delle varie edizioni di Alpinismo eroico e degli scritti di quanti lo conobbero di persona.
    Tuttavia, intimorito dalla guida alpina Stefano Michelazzi e per schivare le sue probabili sgridate, io, umilmente, taccio.
     
    P.S. Scherzi a parte, concordo nel respingere l’agiografia del personaggio. Raccontare l’uomo, con i suoi pregi e difetti, senza pregiudizi né malafede o cattiveria, è il piú onesto omaggio che gli si possa tributare. 
     
    … … …
    “Ecco, lui era cosí.”
    Lo si dovrebbe fare per ogni essere umano, senza lasciarci fuorviare dai nostri preconcetti, dalla nostra mentalità, dalla nostra ideologia. È cosa difficile, ma merita almeno provarci.
     

  3. Iniziai, a dire il vero, qualche anno fa a scrivere su Comici.
    Vita vissuta, racconti di chi lo conobbe all’epoca (veramente e non nei sogni… ogni riferimento non è casuale… ) ma poi mi arresi al fatto che i testimoni in vita stavano scomparendo uno ad uno e qualcuno non ci stava più colle rotelle, quindi desistetti per evitare di scrivere un’altra “fiaba” che non sarebbe stata altro che un inutile tassello falso.
    Preferisco la dove posso ed ho qualche dato concreto da condividere, commentare qua e là per rimettere in asse almeno in parte la figura di quel signore di un secolo fa, che ha rappresentato,  anche per il sottoscritto che ne ha seguito consciamente a volte ma molto più spesso fatalmente la strada, un esempio.
    Grazie comunque per il vostro invito.

  4. Grazie per le tue precise e gradite note..nel mio intento nello scrivere “poco necessaria classifica ” non vi era un tono di critica verso la tua visione , piuttosto vedere un alpinista nell insieme della sua ” vita” e di tutte quelle realizzazioni sia modeste che di ampio e maturo respiro e nel caso di E.C.si fatica a non  trovare piccoli e grandi capolavori .
    Un saluto e scrivi ,scrivi ,scrivi….

  5. Mi scuso per la lunghezza del mio intervento ma essendo cresciuto con un’idea diversa su Comici, sul quale peraltro ci sarebbe da riscrivere moltissime cose, ogni volta che mi “scontro” con la leggenda non posso esimermi dal presentare invece l’uomo, ben più interessante.

    Stefano, vista la tua conoscenza dell’uomo/alpinista  Comici, perchè non lo scrivi te un libro su Comici?
    Penso sarebbe molto interessante  farebbe chiarezza su tante convinzioni sbagliate.

  6. Antonio Mereu, non si tratta di fare una classifica ma di valutare alla luce di ciò scritto da Motti, che come giustamente lui rimarcava, la figura di Comici per diversi motivi venne stravolta e letta “a piacere”. Cosa che ad esempio non fu nell’ambiente triestino, eccezion fatta per Spiro, il quale lo dipinse e ridipinse stile fiaba.
    Comici veniva dalla speleologia,  come la maggior parte dei triestini, dove le tecniche di corda,  sono ben più complesse che nell’arrampicata e quindi, logico che le riportasse e le modificasse per le esigenze in parete. Questo migliorare la tecnica laddove fosse strettamente necessario, come si può comprendere leggendo “Alpinismo Eroico”, venne invece propagandato come un modo per abbattere ogni difficoltà ed esaltare la figura del super-uomo nietzschiano che piega ogni cosa ai suoi voleri, tanto cara ai regimi fascisti.
    La sua ricerca della perfezione era nella libera (si evince più volte in “Alpinismo Eroico” questa sua quasi smania), e quindi definire la nord della Grande come il suo capolavoro, sminuisce ciò che invece fu la sua ricerca dell’evoluzione tecnica, appunto, in arrampicata libera, non a caso la sua solitaria…
    Per questo indico la via del ’36, scalata 3 anni dopo la Grande come dimostrazione della ricerca di un rapporto onesto tra scalatore e difficoltà.
    La vicina Comici -Fabjan sempre al dito, del 1926, potrebbe essere ancora più indicativa, vista la difficoltà a proteggersi su roccia quasi sempre troppo compatta (solo 5 chiodi in circa 600 metri) ma la difficoltà tecnica non supera il 6°  e quindi personalmente, reputo la Comici, Del Torso, Mazzorana,  superiore come indicatore.
    La ricerca di migliorare le attrezzature (vedi scarpe da pallacanestro che anticipano di 50 anni le moderne scarpe d’arrampicata) e di tecniche, per spingere in alto l’asticella del possibile sono state lette invece come “sfida all’impossibile” e spesso romanzate, togliendo al personaggio le sue reali caratteristiche.
    Se si vuole ridefinire una figura distorta dalla propaganda si deve ripartire da 0 e rivisitare la storia con occhi diversi.
    Mi scuso per la lunghezza del mio intervento ma essendo cresciuto con un’idea diversa su Comici, sul quale peraltro ci sarebbe da riscrivere moltissime cose, ogni volta che mi “scontro” con la leggenda non posso esimermi dal presentare invece l’uomo, ben più interessante.
     

  7. #2 Stefano sono più che d’accordo; il dito di Dio e la  via  Comici-Del Torso-Mazzorana sono all’ apice di un ipotetica (ma poco necessaria )classifica .
    #3 Antonio in quel periodo girava così…(ma non siamo mutati poi molto).
    Se eri un italiano mulatto,ti chiamavi Jacovacci Leone eri un  fuoriclasse mondiale della nobile arte ma di color della pelle troppo nera anche per un regime che nel nero aveva la sua tinta amata ti sparivano titolo europeo e filmati.
    Grazie per la conferma ,dubbi in quel perfido cordino ,marcio ,vecchio e nemmeno suo ne abbiamo avuti in molti.

  8. Aggiungo un particolare quasi sconosciuto sulla morte  di Comici. Una testimonianza scritta rivela che la caduta per la rottura di un cordino non suo non corrisponde a verità. Io stesso ho letto una lettera scritta da una donna, subito dopo l’incidente,  ( potrei citare il nome, ma non lo faccio per privacy ) che era alla base della paretina dalla quale Comici cadde. Lei testimonia che stava  arrampicando, su terreno neppure tanto difficile, e non scendendo in corda doppia. Era lì per saggiare un tiro di corda in vista di un suo utilizzo a fine didattico. Poi si è voluto nascondere la verità per non offuscare il mito, come se cadere fosse un disonore!

  9. Precisazione: Trieste non è mai stata veneta, eccezion fatta per 3 anni di dominazione. Fu sempre comune libero fino al 1382 quando chiese volontariamente l’annessione e all’impero austriaco (in seguito austro-ungarico).
    La palestra della Val Rosandra è quindi l’allenamento a secco, fu ideato da Napoleone Cozzi e la sua Squadra volante nei primi del ‘900. Comici indubbiamente sfruttò al meglio la situazione creando itinerari che ancora oggi sanno affascinare.
    Considerazione personale:
    A mio avviso, avendo scalato quasi tutte le vie di Comici, delle quali una probabilmente in prima o seconda ripetizione (Corno d”angolo, forse già ripetuta da Del Vecchio), credo che il suo capolavoro, la salita che indica la sua bravura in arrampicata libera, sia la Comici, Del Torso, Mazzorana al Dito di Dio in Sorapiss del 1936. Una via che potrebbe essere considerata di alpinismo moderno.
     

  10. Comici è sempre comici e Motti é sempre Motti. L’accoppiata di questi due fuoriclasse (in questo caso uno sulla roccia, l’altro sul foglio bianco) genera uno scritto dalla bellezza “evergreen”. Letto già decenni fa, ogni volta risulta sempre più intrigante e accattivante

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