Exposed to dreams
(Chiacchierata con Alessandro Gogna)
(Rassegna Cinematografica CAI Varese – 6 novembre 2016)
Lettura: spessore-weight**, impegno-effort**, disimpegno-entertainment**
In occasione del 110° anniversario di fondazione della sezione CAI, la Rassegna Cinematografica CAI Varese ha cercato di mettere in luce il rapporto che l’uomo ha con la montagna, rapporto quanto mai eterogeneo: è una pluralità di rappresentazioni che pone indubbiamente degli interrogativi dal punto di vista sportivo, sociologico, turistico, ed economico, e diverse idee riguardo alla frequentazione e alla sua tutela.
La serata prevedeva la proiezione del film Exposed to dream, di Alessandro Filippini e Marianna Zanatta, film del 2012 nel quale emergono una serie di temi controversi, sullo sfondo del tentativo di Simone Moro di effettuare il concatenamento Everest-Lhotse, mettendo a nudo, in un quadro impietoso, ciò che sta diventando, o rischia di diventare, l’alpinismo himalayano: una forma di turismo estremo. Tanto è vero che Moro rinuncia alla sua impresa a causa della folla che forma un incolonnamento intorno ai 7500 metri.
Alessandro Gogna è stato invitato come rappresentante di Mountain Wilderness (che ha concesso il suo patrocinio), organizzazione tra le prime ad aver denunciato la deriva dell’alpinismo himalayano.
La serata inizia con alcune domande poste ad Alessandro Gogna dal presidente del CAI di Varese, Pietro Macchi (a cura del CAI Varese).
Dopo una carriera ad alto livello, nel 1987 sei uno dei fondatori di Mountain Wilderness: chi erano i tuoi compagni di allora? Cosa vi spinse a quel passo?
Nel 1986 c’era stata l’idea, in occasione del bicentenario della conquista del Monte Bianco, di far sottoscrivere a parecchi alpinisti di tutta Europa un documento per salvaguardare questa montagna, per cercare di contrastare i minacciosi progetti che effettivamente incominciavano a girare. E quella fu la prima volta in cui degli alpinisti si sono messi a protestare e dire a gran voce quello che era un rischio, il rischio che l’alta montagna stesse morendo. Nel novembre 1987 ci siamo trovati a Biella ed è stato un incontro memorabile. Raramente si sono incontrati personaggi – rispetto ai quali io mi sentivo non del tutto all’altezza – come Kurt Diemberger, Michel Piola, Patrick Gabarrou, Jeff Lowe, José Luis Vonrouge (quest’ultimo addirittura inventore dello stile alpino, davvero un mito), e tanti altri.
Jeff Lowe a Biella, novembre 1987
In mezzo a tutti questi miti, di tutte le nazioni, c’è stata una grande sera, in una grande sala, dove si sono discussi punti fondamentali: ne nacquero le cosiddette “Tesi di Biella” e nacque anche l’associazione internazionale Mountain Wilderness.
Perché? Il perché è difficile da riassumere in poche parole, però era la presa di coscienza: gli alpinisti sono anche gente molto comoda, se ci sono delle comodità non le disdegnano, se c’è una funivia, la prendono, se c’è una via ferrata per scendere, la percorrono. È sempre stato così. Forse qualcuno ogni tanto fa eccezione, ma in genere non ci si fanno tante domande. E non ce le si poneva soprattutto allora. Anche, per esempio, sul discorso del pattume: sia nelle grandi spedizioni himalayane o nelle nostre Alpi. Nessuno diceva niente. Io ho fatto delle ricerche, sulle riviste, per vedere se qualcuno ne parlava. Non ho trovato nulla né sul problema dell’immondizia, né su altri problemi: cementificazioni, impianti sciistici, funivie, strade spinte in alto. Nessuno diceva nulla. E nello statuto del CAI non c’era ancora la famosa frase, che è stata aggiunta dopo: “che ha per scopo la conoscenza… e la protezione delle Alpi”.
Ci siamo improvvisamente resi conto che la nostra conoscenza dell’ambiente, il nostro frequentare l’ambiente – è inutile dare la colpa agli altri, mettiamoci dentro in prima persona – era pericoloso per la montagna, per la salute della montagna. Ci siamo subito impegnati perché ci fosse almeno un contenimento.
Rifugio Auronzo, 1991. Raduno delle Ferrari
In termini più personali, hai trovato un nesso tra alpinismo e ambientalismo. Riesci a illustrarci le tue motivazioni?
L’interesse per le cose, come tutti voi sapete bene, cambia di giorno in giorno, di mese in mese, di anno in anno… Io posso dire che, ancor prima che nascesse Mountain Wilderness, la mia sensibilità mi impediva di nascondere un qualunque rifiuto sotto un sasso, come invece si era abituati a vedere. Però non arrivavo a dire: “dobbiamo lottare perché questo non succeda”. È venuta dopo questa presa di coscienza. Il nesso tra alpinismo e ambientalismo penso sia evidente. O almeno dovrebbe esserlo. Se frequento un ambiente come quello della montagna e pretendo di farci pure dell’alpinismo, è ovvio che questo non deve diventare una colonia, altrimenti abbiamo un ambiente domestico, cioè non più quell’ambiente selvaggio di una volta, dove poter praticare l’alpinismo.
Ho potuto riflettere sul termine ambientalismo proprio negli ultimi tempi, in relazione alle proposte che sono girate in Senato per rivedere la legge sulle aree protette del 1989, la 391. Proposte che fanno drizzare i capelli – anche i miei, e richiede una certa energia! – perché sono proposte assurde, da rigettare totalmente. C’è stato tutto un movimento di gente che scriveva, manifesti, comunicati stampa, cui ha aderito anche il CAI, tra l’altro. C’era questa parola: “le associazioni ambientaliste”. Qualcuno ha fatto notare che usare questo termine oggi è come rinchiudersi in un ghetto. È vero. E mi ha fatto pensare parecchio. Parliamo più correttamente della protezione della montagna in generale, alta e media. Ma se proteggi la montagna, non è che devasti il mare. La nostra quindi è una sensibilità di protezione della natura in generale, non soltanto della montagna, anche se ci interessiamo più che altro a quella. Quindi la parola ambientalismo è riduttiva nel momento in cui noi proponiamo un mondo e una cultura diversi da quelle attuali. Molto difficili da realizzare e anche un po’ utopistici… Solo grandi disgrazie e terremoti possono favorirle. Mi spiace dirlo, ma quando ci sono tragedie la società si compatta, altrimenti si sparpaglia. Ben lungi, sia chiaro, dall’augurare tragedie – ce ne sono fin troppe in questo momento – questa situazione dovrebbe far pensare a tutti quanti che il mondo in cui noi vogliamo vivere deve avere determinate caratteristiche. Ma non sono caratteristiche ambientali. Non possiamo pensare di difendere un ambiente senza prima avere modificato noi stessi. Questa è la sfida attuale.
22.07.1988, Operazione Marmolada pulita, Mountain Wilderness. Al Bivacco Dal Bianco si fa pulizia. Chino con il cappello, Fausto De Stefani. Rosanna Manfrini alla porta, poi Betto Pinelli (giacca rossa), “Feo” Maffei, Maurizio Giordani, Mariano Frizzera.
Prima di vedere il film, una curiosità: abbiano letto che hai partecipato a molte iniziative di sensibilizzazione ambientale. Qual è quella che ha ottenuto i migliori risultati rispetto alle attese o ai presupposti di chi le ha ideate?
Io ritengo che sia una guerra che stiamo conducendo anche contro noi stessi e non solo contro quelli che riteniamo devastatori, cui non interessa nulla dell’ambiente in generale. C’è bisogno di tanti anni ancora. È una guerra culturale.
Pertanto parlare di battaglie vinte o perse rischia di diventare uno sport che lascia il tempo che trova. Però per rispondere alla domanda, nella panoramica generale vedo che pochi problemi sono stati risolti: ancora oggi a Misurina stanno discutendo se fare o meno il parcheggio sotterraneo; il parco internazionale del Monte Bianco, che noi abbiamo proposto nel lontano 1989, è ancora di là da venire; alcuni parchi che abbiamo sempre sostenuto esistono solo nominalmente (Gennargentu), di fatto non esistono. La lotta è continua e le battaglie in genere la abbiamo abbastanza perse.
Tuttavia per trovarne una che è andata a buon fine, sicuramente devo citare la nostra lotta sulla Marmolada: perché la Marmolada era una lotta semplice, contro i rifiuti. Non sto a dirvi, ma è stata una lunga lotta. Ho passato un mese a pulire ghiaioni, nonostante avessimo messo cartelli che invitavano a dare una mano. Tutti erano lì per le loro vacanze! I volontari – detto francamente – si contavano su una mano, in mezzo a centinaia di persone. Siamo andati avanti, abbiamo documentato tutto, abbiamo chiamato i giornalisti che hanno scritto e per questo sono stati querelati. Grazie anche alla nostra testimonianza, il processo si è concluso non solo con il loro proscioglimento, ma con la condanna del querelante, chiamato anche al pagamento di una somma che è stata spesa per ripulire ciò che non avevamo potuto ripulire prima!
È stato un grande lavoro, in cui sono intervenute anche le province di Belluno e Trento, perché c’erano problemi di confini. La Luxottica ci ha dato un po’ di soldi per ripulire il canalone del Gigio. Possiamo dire che la Marmolada oggi è a posto, dal punto di vista rifiuti (anche se nel 2017 sono emersi altri rifiuti per via dell’attuale ritiro e riduzione del ghiacciaio, NdR).
Visione del film Exposed to dream.
Qui il trailer
(Dopo la visione del film) Abbiamo notato che nel film alcuni termini come sogno e avventura sono ricorrenti: alcuni alpinisti ci insegnano che è ancora possibile un alpinismo d’avventura, ne sono prova i nostri concittadini Matteo Della Bordella e David Bacci che si sono distinti per alcune spedizioni di avventura ed esplorazione in varie parti del globo. E allora domandiamo: qual è il destino nelle Alpi? È ancora possibile un alpinismo esplorativo nelle Alpi, pur constatando che sono conosciute e battute in ogni loro angolo?
Domanda alla quale rispondere può essere impegnativo. Si possono fare profezie che poi non si avverano o si avverano quando nessuno più ci spera. Sicuramente la situazione sulle Alpi non è quella della Groenlandia, per la quale hai citato Della Bordella, o altri posti remoti. Alpinismo d’avventura sulle Alpi si può fare, perché se uno va sulle vie difficili è sempre un’avventura. Avventura nuova su itinerari nuovi è più difficile. Ci sono molte vie che spesso si intersecano. Negli anni ‘30 la parete sud della Marmolada aveva una sola via. Oggi ce ne sono 200 sulla stessa parete, teoricamente ci sarebbe spazio ancora. Questo non va bene: aprire una via tra altre due intanto è avventura limitata, perché hai il limite di due vie di fianco, questo per definizione. Poi vai a rovinare l’avventura di quelle due, di fatto anche se non le tocchi è una contaminazione delle altre. Chi apre vie dovrebbe tenerlo presente. E quindi cosa bisogna fare? Di terreno ce n’è ancora tanto, ogni anno vengono aperte altre vie nuove sulle Alpi, spesso belle. Ci sono molti giovani che fanno cose difficili, magari non sono pubblicizzati come anni fa quando c’era l’idea dell’alpinismo eroico che faceva in modo che giornali e televisione se ne interessassero. Ci sono vie e c’è chi le fa difficili e belle da vedere. Sono ottimista. Pero lasciatemi dire che l’avventura deve cominciare, se si vuole stare vicino a casa, a cambiare registro. Mentre prima si fondava l’avventura su un terreno che si giudicava sconosciuto e difficile, almeno a vederlo dal di fuori, oggi questo è sempre meno possibile, ci sono tante vie, ci sono i rifugi vicini, l’elicottero che ti viene a prendere, le previsioni meteo… oggi un periodo di bel tempo lo si può aspettare, senza prendere fregature. La finestra di bel tempo è rischiosa per le persone poco prudenti. Se per esempio dura poche ore, basta un piccolo incidente e hai già perso il tempo a disposizione: questo può risultare fatale. Questa risulta essere l’avventura dell’adrenalina, un tempo questo non si cercava. Quando avventura vuole dire “ho poche probabilità e le voglio sfruttare”, allora è gioco d’azzardo. Vera avventura è invece libera scelta, basata sulla responsabilità della scelta. Lo dico perché non esiste libertà senza aver prima fatto una scelta. Libertà non è fare quello che voglio; quella è la libertà dei bambini, infantile; libertà è agire dopo aver scelto, dopo aver valutato, dopo essere diventati responsabili.
Se non fai la scelta non sei libero. Sei un coatto che non sa quello che fa. Fatta questa premessa, l’avventura va a toccare un aspetto soggettivo. Non l’oggetto dell’avventura. Prima era l’oggetto ad essere importante: una parete bella, difficile e sconosciuta. Oggi manca il terreno. L’avventura deve cambiare registro. L’avventura la fa il protagonista. Non sappiamo in anticipo cosa farà il protagonista, che è il giovane. Si toglieranno le scarpe per fare un’avventura? Va bene. Si tolgono gps, radio, previsioni meteo, vanno in montagna quasi nudi? Non lo so, non voglio fare previsioni. Tutto questo togliere orpelli e strumenti è obbligatorio. Altro passo obbligatorio è dimenticare quello che è stato fatto prima. Mi rendo conto di dire quasi un’eresia: dimentichiamo libri e biblioteche? In effetti quello che sta succedendo è questo: l’unica cultura che c’è è quella di internet, la cultura precedente è lasciata ad ammuffire nelle biblioteche. Di riviste che circolano ben poche, una o due. Prima c’era un fiorire di riviste, oggi è tutto digitale. La dimenticanza non deve essere totale, è ovvio, altrimenti si chiama lobotomizzazione. Però è un passaggio obbligatorio. Il giovane che va a fare alpinismo, meno sa di quello che è stato fatto 50 anni prima meglio è. Può essere un’affermazione da discutere, però è un mio sospetto.
Il film che abbiamo visto ci parla dei sogni realizzati, ha mostrato che tutti dobbiamo coltivare dei sogni e dei desideri. Leggendo il tuo curriculum alpinistico, spiccano moltissime prime ascensioni, ma anche parecchie invernali e solitarie. Ci puoi dire quali sono stati i tuoi sogni da giovane alpinista e che posto hanno, soprattutto le prime invernali e le solitarie?
Quello che ho detto un attimo fa, che credo pesante e provocatorio, in realtà è l’esatto opposto di quello che ero io. Perché se c’era uno che davvero si documentava e leggeva (e scriveva, ma soprattutto leggeva), quello ero io. Intorno a quello che andavo a fare, sapevo bene cosa era successo. Conoscevo perché leggevo. Leggevo le cose di tanti anni prima, non solo quelle di quel momento. Quindi era il contrario. Allora – e per “allora” intendo negli anni ’60 – c’era lo spazio per sognare sulla base di chi mi aveva preceduto. Sulla base della mia (se vogliamo) ambizione ed esuberanza, c’era lo spazio per sognare cose nuove, quello che allora chiamavamo problemi. C’erano i problemi, le prime ascensioni che mancavano, le prime invernali che mancavano, e questi problemi erano i miei sogni. Alcuni li ho realizzati, tanti me li sono perduti, nel senso che qualcuno li ha realizzati prima che potessi tentarli io, tanti non li ho nemmeno tentati. E quindi c’è una piccola soddisfazione per il genere umano. Parlando degli anni ‘60 – quindi di cinquanta e più anni fa – quello che si fa oggi io non lo sognavo. A me sembrava di essere uno che andava abbastanza avanti, ne avevo di sogni per la testa, ne avevo di idee, ma così avanti come ciò che si fa oggi assolutamente no. Sono forse arrivato a vedere qualcosa dei trent’anni dopo, ma non dei cinquanta. E questo è motivo di soddisfazione, mi tiene giovane.
Non penso che ai miei tempi fosse meglio: tante sono le frasi fatte che senti tutti i giorni, anche in altri campi, non solo nel campo alpinistico. Ma, nel momento in cui ti tieni lontano da questo modo di pensare perché vedi il progresso e lo leggi, o vedi i volti di chi compie queste imprese, dici: “bene, sono ancora giovane”. E questo è un altro sogno.
Ti chiedevo specificamente che posizione hanno avuto nei tuoi sogni le invernali e le solitarie. Rappresentano la principale manifestazione di un progetto alpinistico? Condividi questa affermazione? Oppure quando le hai realizzate avevi altri obiettivi?
Devo ribadire con più precisione quello che ho detto prima: allora c’era il concetto di problema. E non faceva differenza se era invernale, solitaria o prima ascensione. Io infatti ho fatto un po’ di tutte e tre. Non è che mi piacesse andare più d’inverno che d’estate; non è che mi piacesse andare più da solo che in compagnia, anzi per dire la verità, mi è sempre piaciuto andare più in compagnia che da solo. Non mi sono mai sentito un solitario. No, quelle cose che ho fatto da solo, beh due importanti poi anche altre, non tantissime, le ho fatte per risolvere dei problemi. Quelle altre poche volte che sono andato da solo non per risolvere problemi ma semplicemente perché volevo andare da solo, alla fine di queste salite (una o due) mi sono sempre ripromesso di non farlo più. Sentivo che era un modo di salire molto pericoloso. Quando senti questa cosa ti conviene tralasciare. Finché non la senti vuol dire che sei nel mood giusto. Nel momento in cui inizi ad aver paura per tanti motivi, perché sei diventato padre per esempio, o perché sono cambiate altre cose, non sei più così giovane, non sei più così ambizioso, ce ne sono mille di motivi, allora devi renderti conto che non sei più come eri. Non c’è modo migliore che farne una o due di solitarie per capirlo. Mentre all’inizio per me dire solitarie o invernali non importava tanto.
Prima hai detto “i giovani abbandonino il digitale”. Io penso che l’esperienza valga di più del digitale.
A me non sembra di aver detto questo. Ho detto una cosa diversa, cioè che siccome oggi esiste un mondo digitale che ti informa di tutto quello che succede oggi, ma non di quello che è successo ieri, allora probabilmente, non l’ho dato per certo, probabilmente il fatto di informarsi da parte del giovane su fatti di quarant’anni fa diventa uno sforzo sovrumano, forse è troppo. Forse sarebbe un’overdose di informazione. Il mio dire “che vanno dimenticate” non significa che le biblioteche vanno bruciate. Ho detto quello che sta succedendo, che non vengono frequentate: uno su dieci le frequenterà ancora. Nove non le frequentano. Io non giudico se è bene o se è male. Cerco solo di interpretare la cosa in maniera positiva. In effetti se il terreno culturale attorno a te è più sgombro si ha più voglia di andare avanti. Non so se riesco a spiegarmi: è quando uno crede di saper tutto che non riesce ad andare avanti. Non ho detto neanche che il digitale è la manna. Ti dirò di più: tutto ciò che si trova su internet è un po’ pericoloso perché può perfino far pensare che tutto sia facile e invece non è vero. Tutto rimane difficile – eccome! – e questo va detto. Tra l’altro oggi c’è una discussione molto interessante, nata in America, sulla responsabilità che i social media hanno sui ragazzi che fanno sci libero, free ride o fuori pista. È stato osservato che gruppi di adolescenti, facendo una discesa magari di fianco a una valanga provocata da loro, si sono filmati con la go-pro, e hanno pubblicato immediatamente questa impresa o bravata -chiamiamola come vogliamo. Questo è pazzesco! Quando sei su una montagna e in particolare su una montagna invernale – e non ditemi che riusciamo a prevedere dove ci sarà una valanga perché non è vero e le disgrazie che accadono ogni anno ne sono una conferma – in un ambiente così imprevedibile che però, attenzione, non fa così tanta paura come una parete verticale o strapiombante, anzi al contrario ti invita, dici: “che bello! adesso vado giù, scendo, faccio le mie curve!”. È una visione molto allettante, t’invita a scendere, non è che ti respinge. In questa situazione il pericolo è veramente dietro l’angolo. Se a questa situazione di pericolo potenziale o reale, a questo probabile sbaglio nella valutazione della condizione della neve, aggiungiamo anche un po’ di competizione tra ragazzi, la soglia di rischio si alza ancora. Ma se noi accanto a questi quattro o cinque simpatici scalmanati mettiamo pure i loro mille, tremila, diecimila amici, sia pure virtuali, che loro raggiungono in una frazione di secondo pigiando un bottoncino, voi capite che la competizione non è più tra loro quattro o cinque. I diecimila fanno uno stadio. Ed è a quel punto che la situazione va fuori controllo.
Tornando al film, non è stata una scelta facile, nel senso che è un film che potrebbe essere visto sotto tante sfaccettature e tante chiavi di lettura. Abbiamo visto il film di Ermanno Olmi, poi il Fascino del sublime di Piero badaloni, la prossima volta vedremo la vita di Bonatti (e per un ambiente CAI questo è velluto!). Ma questo film è diverso. Noi, nel pensare a proporlo, ci siamo chiesti: e noi che parte prendiamo? Cosa diciamo? Poi abbiamo avuto la fortuna che Alessandro Gogna abbia accettato l’invito; abbiamo un pulpito assolutamente credibile e autorevole. Non tutti i mali vengono per nuocere: vorrei chiamarlo così il film. Perché dico: se Moro fosse riuscito nel concatenamento Everest-Lhotse probabilmente sarebbe diventato ancora più famoso… vista la resistenza per tre giorni in assenza di ossigeno, si sarebbe fatto uno studio sul suo fisico. Invece, non avendo potuto compiere l’impresa, gli è capitato di dedicarsi al soccorso… un tipo di soccorso che per quei poveretti che è andato a soccorrere è risultato più utile del concatenamento. Domanda: questa esasperazione, o azzardo, ha un senso dal punto di vista dell’utilità comune? Fare concatenamenti, invernali, usiamo un termine generico, avventure, perché poi possa essere utile a tutti? Esiste una ricerca del rischio che poi possa essere usato per la salvezza di tutti?
La valanga che nel 2014 uccise 15 sherpa
La domanda (in sé) era breve ma quello che precedeva mi impone di non dare una risposta così rapida. Intanto comincerei con il dire che la parola utile per me non è adeguata, né all’alpinismo né al CAI, a meno che non si parli di cose pratiche. Però se parliamo di utile non c’è nulla. Se uno avesse chiesto a Winkler o a Mummery o a Wimpher se le loro esperienze in montagna, che allora erano abbastanza estreme, potessero essere utili a qualcosa, credo che avrebbero risposto che loro non cercavano l’utilità. Ma credo di aver capito il senso della domanda: la conquista dell’inutile. Però l’inutile è stato ampiamente conquistato, e allora tu mi domandi se sia utile cercare di conquistare l’inutilissimo. Forse ci stiamo ponendo domande che non hanno particolare significato. Io parto da altri punti di vista. Quello che noi abbiamo visto stasera, ovvero la situazione in cui l’Everest versa, è la situazione ancora precedente al litigio tra Moro e gli sherpa, al terremoto, alla valanga che ha ucciso 15 sherpa. Tutti avvenimenti capitati in anni differenti, ’13, ’14, ‘15, tre anni terrificanti. Nel 2012 la situazione veniva dipinta in questo modo. Io parto dal presupposto però che qui stiamo parlando di Everest, e l’Everest è conciato in questo modo, soprattutto se prendiamo le vie normali nepalese e tibetana. Se però uno inizia a parlare di Couloir Hornbein come ha fatto Moro le cose iniziano a cambiare e si può fare ancora avventura. I Piolet d’or che vengono assegnati ogni anno, vengono dati a cordate che hanno fatto cose che non sono sull’Everest, chissà dove in altre parti del mondo. Vengono premiate quattro, cinque o sei persone, ma ci sono 80 cordate in nomination. Quindi di imprese alpinistiche da registrare, come dicevo prima, nonostante la stampa non se ne interessi, ce ne sono a bizzeffe ogni anno. Ci sono quelli che ne fanno molte ma ci sono quelli che magari ne fanno una, la salita della loro vita. Questo è l’alpinismo che mi interessa, l’altro ha i risultati che denuncia il film. Guardiamoci indietro, e ve lo dice uno che non si dimentica, non come dicevo prima che sarebbe meglio dimenticare. Tutto questo è nato con “l’attrezzatura” di montagne importanti nelle Alpi come può essere, non so, la Marmolada, il Dente del Gigante e soprattutto il Cervino: questa perfino su due versanti (c’è stata la minaccia che ne facessero una terza sulla cresta di Zmutt). Queste “attrezzature” con corde fisse, dove ci si tira su, sono il modo per portare sul Cervino più gente possibile. Non c’è alcuna differenza teorica ed etica con quello che abbiamo visto stasera; 120 persone che salgono al Colle Sud. Il tempo è quello, le persone quelle, il rischio è altissimo, la capacità di portare a casa la pelle è bassa: è gente che non ha neanche la preparazione per farlo. Follia totale! Avviene perché l’Everest è attrezzato dal campo base alla vetta con corde fisse. Chi lo fa? Gli sherpa, gli stessi che poi muoiono a botte di 15 quando crolla un seracco, perché sono lì che lavorano per questi che vogliono fare l’Everest partendo dai loro studi di avvocato di New York. Questa è la realtà, ma per fortuna ce n’è un’altra che mi interessa di più perché questa la do per persa. Francamente do l’Everest per perso, come do il Cervino per perso. Mi dispiace. Il Cervino è un bellissimo sogno per tantissimi che vogliono farlo a prescindere dalle corde fisse. Siamo noi che ci facciamo delle menate! Però chiunque deve ammettere che aver messo delle corde fisse sul Cervino è la base per poi andare in Himalaya e fare le stesse cose, costruire rifugi e altro. Una volta si dormiva in tenda, adesso si dorme nei lodge; dorme nella tenda chi vuole risparmiare, ma puoi benissimo dormire nei lodge. È cambiato tutto nella via per l’Everest e per quelle due o tre montagne che fanno gola, tipo il Cho Oyu, montagne un po’ più faciline. Io do un po’ per persa questa situazione, purtroppo. Cosa possiamo fare? Predicare ciò che è inutile predicare? Quando vedete al campo base dell’Everest mille persone, di cui poi 150 salgono verso la cima: e poi ci sono gli altri che portano da mangiare su e giù, i cuochi, i medici, un insieme di personale in questa grande impresa, che non è più alpinismo, si può parlare di turismo d’alta quota, turismo estremo, turismo pericoloso, più pericoloso dell’alpinismo. Almeno l’alpinista quello che va a tentare, lo va a tentare con un po’ di preparazione. Questo no: è qui la follia. Si pensa di farcela con un po’ di soldi. Dalla parte di chi prende i soldi, le agenzie, c’è un disegno quasi criminale. Nella mia vita mai avrei potuto intavolare un business di questo genere. Mi metto qua e prendo 80 mila dollari da questo tipo per portarlo in cima. Una parte va allo stato nepalese ma il resto è mio, anche se ho delle spese. Questo è, non voglio dire immorale, ma molto sospetto. L’alpinismo è una cosa diversa, sarà romantico, sarà quello che volete, ma questo non è più alpinismo. È un’altra cosa. La nostra fortuna è che c’è gente che fa del valido alpinismo, tanti, molto più di quelli che si può immaginare. Lì dobbiamo concentrarci, perché il resto è perduto, l’Everest è perduto.
È una domanda semplicissima. Io ho qui due libri: Grandes Jorasses e Capodanno sulla Nord-est del Badile. Io ti voglio chiedere semplicemente se mi puoi dire quale delle due ricordi con maggior simpatia o tranquillità. Sono tutte e due salite difficilissime, soprattutto per 50 anni fa, adesso magari meno. Tu puoi dire “questa mi è piaciuta di più”? “Ho dedicato più tempo a questa, questa mi ha fatto più paura”?
Vedo che lo ho già firmati… Uno l’ho firmato 46 anni fa e uno stasera! Quindi siamo a posto. Sulla domanda: distinguiamo tra libri e imprese. Perché i due libri che hai lì, uno l’ho scritto io, l’altro l’ha scritto un giornalista che si chiamava Franco Rho. Poverino, non c’è più. Ho sempre detto quello che pensavo, cioè che Franco mi ha un po’ rubato l’idea di scrivere il libro. L’ha scritto in due mesi, dopo la nostra impresa. Io magari ci avrei messo un po’ di più. Così andò. Non voglio dire che l’ha scritto male, lo ha scritto bene però se mi chiedi quale dei due libri mi piace di più, ti rispondo il mio! Non c’è dubbio! Invece sulle due imprese devo dire che sono talmente differenti che non saprei. Una è una prova di resistenza, volontà, masochismo, il Badile, per via di tutti quei giorni: siamo stati in ballo dodici giorni, tanto tempo. L’altra è stata un’impresa più leggera. Più estetica, personale (ero da solo), forse per me è più importante questa. Era un mio sogno, che ho realizzato, l’altro era un sogno che avevamo in sei. E che abbiamo realizzato in sei. Sono due cose differenti. Chiaramente il sogno personale è quello forse che ti prende di più, ti emoziona di più.
Vorrei avere una precisazione sulle informazioni online e cartacee. Ho cercato in biblioteca alcune vie di salita sul Matterhorn, e non ho trovato niente, tipo libri su quest’argomento. Mentre in rete oggigiorno trovi molte più informazioni in quella che è la biblioteca virtuale. Credo che uno debba stare attento al tempo. Quando si cercano informazioni per creare un’avventura si deve tener conto dei mezzi che si hanno a disposizione. Forse non è questione di informarsi in biblioteca o con il web, ma di distinguere tra informazioni valide o meno.
Infatti non ho detto che è più valida o meno valida. Ho detto che oggi si cerca meno. Le informazioni via internet sono più facili da raggiungere. Volevo farti una domanda io: ho capito bene quando hai detto che hai cercato informazioni sul Matterhorn, e quindi sul Cervino, in biblioteca e non hai trovato niente? Beh questo, scusa, ma è assurdo. Ci sono valanghe di libri sul Cervino. L’informazione sul web non è più ampia. Sembra ma non lo è: forse è più facilmente raggiungibile. Prima di arrivare ad avere in digitale le migliaia di titoli, libri che sono stati scritti sull’alpinismo, penso ci voglia ancora un po’ di tempo. È incredibile cosa non è stato scritto, le riviste, i libri. Io personalmente ho una biblioteca che raggiunge i 220 metri di lunghezza lineare, per dorso chiaramente. 210 sono sulla montagna. Il resto sono romanzi, testi psicologici, libri su cani e gatti, visto che ho una moglie che si interessa di questo. Però 200 metri sono tanti. Ogni volta che guardo un catalogo di libri, sempre sulla montagna, ne trovo a dozzine che non ho. Non parliamo se uno fa un salto nella biblioteca nazionale del CAI di Torino. Lì è la mecca: se una persona cerca qualcosa, la trova. Il titolo che magari cercavi, se tedesco, è facile che non ci sia in una biblioteca italiana. Per questo dico che è difficile fare ricerca in una biblioteca. Perché è difficile cercare. O uno si mette lì a guardarli o guarda i cataloghi. Ma con che criterio sono messi? Con quale ordine? Non è come su Google. È ben diverso. Se però vai a guardare la quantità di informazioni che ci sono realmente su Google, vedi che sono molto meno, perché sono pochi anni, 15, 20 anni, il resto non esiste. Nelle mie ricerche storiche, per i libri che scrivo, ho cercato di trovare informazioni su alpinisti di 40, 50, 60 anni fa, e a parte le solite cose che vengono copiate e ricopiate, non vai oltre le dieci righe. Per sapere la data di morte di un alpinista, ho dovuto telefonare al comune e chiedere di andare a vedere sulla tomba la data di morte. Così sono riuscito a saperlo. Per chi ricerca lo spazio c’è sempre, bisogna avere inventiva. Mi rendo conto che bisogna avere tempo. Se uno lavora o studia è difficile. È più semplice cercare in rete che nelle biblioteche.
Ho un ultimo quesito. Penso sia quello più provocatorio. Gli appassionati di montagna e alpinismo rappresentano un gruppo autoreferenziale? O hanno modo di interloquire con la società, con i soggetti politici, con i soggetti economici? Sono ascoltati al di fuori del loro ambiente oppure no?
Negli anni ‘60 “me ne sbattevo” ampiamente di questo genere di domande, anzi: mi faceva quasi piacere esserne fuori. Confesso che quando mi chiedevano: “Ma tu durante il ’68 dov’eri?”, rispondevo: “In montagna”. Piano piano, nei primi anni ‘70, ho cominciato a politicizzare un po’ la mia passione, il mio alpinismo. Senza pretendere che gli altri facessero altrettanto, ho cominciato a fare delle indagini sul mio alpinismo. E mi ricorderò sempre una frase di un attivista di Lotta Continua che un giorno mi disse: “Tu vai in montagna, fai l’alpinista: una fuga dalla realtà”. Questo fu il suo lapidario giudizio. E mi ha colpito: non avevo mai pensato che la mia potesse essere una fuga dalla realtà. Invece era vero: il ‘68 non l’ho fatto, la montagna era il mio primo interesse, della politica non me ne fregava nulla, era vero che stessi fuggendo da una realtà. Certamente non fuggivo per fare l’eremita. La realtà c’era e c’è ancora per me. Ma questa frase mi ha colpito e ho iniziato un lavoro per vedere se l’alpinismo fosse una fuga dalla realtà. Se realtà e alpinismo potessero essere conciliabili. Perché se è una fuga, significa che tutto il resto non ci interessa o ci fa paura. Ma non può farci paura: ci dobbiamo vivere! Cosa può tenere insieme queste due cose? Per un po’ di anni sono andato avanti in questa domanda, cercando di rispondermi con fatti e riflessioni… Direi che la ricerca non è ancora conclusa! È molto complicato: mi viene da dire che non è giusto fare tante distinzioni. Se uno fugge dalla realtà e uno ci rimane, non vedo perché fare questa grandissima divisione: ci sono quelli che stanno in un luogo e quelli che stanno in un altro. Potrei anche dire che, nella società, chi si occupa di politica scappa dal sogno, cioè dalla montagna. Ma questo sarebbe assurdo. C’è molto sogno nella politica, quella con la P maiuscola. Ciascuno deve stare al proprio posto. Oggi poi c’è un punto delicato: il problema della sicurezza. Viviamo in una società definita securitaria, una società che spende molto delle proprie risorse ed energie per trovare la sicurezza. Questo sta iniziando a mostrare i suoi limiti: i ragazzi non crescono più, come siamo cresciuti noi, sono vigilati ogni minuto, sono guardati a vista, anche con il cellulare. Noi, una volta, potevamo rubare l’uva, arrampicarci sugli alberi, rischiando di cadere da un ramo. Zoppicando, tornavi a casa sperando che nessuno se ne accorgesse. Oggi c’è la mamma che dice “Non correre sennò sudi”. Chi fa footing può sudare, il bambino no. Siamo di fronte a situazioni di protezionismo in ogni ambito che sono preoccupanti. La sicurezza implica un responsabile: ecco che le Scuole non riescono a portare in giro i ragazzi; le Scuole di alpinismo e i corsi di roccia hanno i loro problemi: se succedesse qualcosa verrebbero indagati. Se un bambino si sbuccia un braccio, i genitori se la prendono con il professore perché non l’avrebbe guardato a sufficienza. È una roba di tutti i giorni. Qual è la direzione? Per tornare al discorso iniziale, qual è l’importanza nella società dell’alpinismo, rispondo: ne può avere tanta, non solo perché paritetica, soprattutto per i nuovi sviluppi della società. Con la nostra esperienza dobbiamo contrastare questo andazzo. L’alpinismo tende a formare le persone, perché tende a fargli fare delle scelte, a renderli uomini e donne libere. Questo dobbiamo insegnare alla società odierna. Lo sperimentiamo solo il sabato e la domenica, bene! Lo sperimentiamo tutti i giorni, come alpinisti professionisti e guide, bene! Chi va a camminare, arrampicare, fare uscite con gli sci insegna che andare in un ambiente meno civilizzato e più avventuroso è qualcosa che forma l’individuo. Non è questione di cultura, non dipende dalle lauree, si vede a tutti i livelli. Più c’è sicurezza, voluta e imposta, e meno libertà c’è.
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Viva i libri di montagna! Lí si trova tutta la storia dell’alpinismo, non la cronaca dell’altro giorno. Lí ci si esprime in italiano corretto. Lí si trova la cultura. Lí si leggono riflessioni intime; lí si apprendono passioni e filosofie di vita. Lí si apprezzano le memorie e le biografie di Giusto Gervasutti, Toni Hiebeler, Kurt Diemberger, Doug Scott, Reinhard Karl, René Desmaison, Renato Chabod, Armand Charlet, Marcel Kurz, Carlo Negri, Severino Casara, Felice Benuzzi, Thomas Graham Brown, Domenico Rudatis, Piero Ghiglione, Leone Sinigaglia, Eugenio Fasana, Giuseppe Mazzotti, Tita Piaz, Gaston Rébuffat, Massimo Mila, Giorgio Brunner, Julius Kugy, Emile Javelle, Geoffrey Winthrop Young, Albert Frederick Mummery, Edward Whymper, Paul Grohmann, ecc. ecc. E pure del signor Pinco Pallino. Lí si sfogliano le grandi opere di Franco Fini, Dante Colli, Tommaso Magalotti, Alfonso Bernardi, Mario Fantin.
C’è perfino un certo Alessandro Gogna…
Lunga vita alla carta! E per quanto riguarda internet, serve egregiamente per le previsioni meteorologiche, per conoscere le condizioni della montagna, per sapere se un rifugio è aperto o chiuso e quanto costa il pernottamento, e per le relazioni di qualche arrampicata alla moda (non di tutte, come invece faceva la cara e vecchia Guida dei Monti d’Italia).
Ora però vi lascio e vado a godermi in santa pace qualche bel libro…