Extradiario – 05 – Lo Spigolo Giallo

Extradiario – 05 (5-24) – Lo Spigolo Giallo (AG 1966-001)
(in corsivo appunti del marzo 1966)

Lettura: spessore-weight(1), impegno-effort(3), disimpegno-entertainment(3)

6 gennaio 1966. Indimenticabile uscita in Bajarda (Pietralunga) con Guido Rossa, nientemeno. Uomo straordinario, pure se non fosse morto da martire. Ci siamo allenati all’artificiale, assieme anche ad Alessandro Balestri, Rita Corsi e Renato Avanzini.

In quei primi mesi del 1966 il problema era sempre lo stesso. Mancanza di compagni, mancanza di auto. Senso di colpa per non seguire le lezioni a ingegneria. Mi concedo qualche visita alla Pietragrande, con Balestri il 9 gennaio, con Nino (non ricordo il cognome) il 15.

16 gennaio 1966, bella gita nel brutto tempo e nella neve con gli amici Pàstine, Scabbia, i fratelli Calcagno, Pescia, Vassallo e Bruzzone: facciamo un’inedita traversata Costa della Ripa-Monte Gifarco-Monte Roccabruna. Con Lino Calcagno, il 27 gennaio sono al Dente, in zona Passo del Turchino: nessun ricordo.

Alpi Apuane, Garfagnana. Da Salceta (Caréggine) verso la ripida parete est del Monte Pisanino in veste invernale. A destra, in ombra è la parete nord, divisa dalla Est tramite la Cresta della Mirandola.

Solamente il 30 gennaio è la volta di una bellissima ascensione. Con la solita partenza da Genova a ore improponibili, la nostra numerosa compagnia sale la Cresta della Mirandola al Monte Pisanino, nelle Alpi Apuane, con neve ottima. Ero legato con Ferruccio Jöchler, ma dietro di noi salivano pure i fratelli Calcagno, Gianluigi Vaccari, Giorgio Vassallo, Giorgio Coluccini e Maria Vittoria Elena. Diciamo che è la mia prima vera salita su difficoltà mista neve-roccia, affrontata non come banco di prova ma come occasione effettiva di miglioramento tecnico.

Il 6 febbraio 1966, ancora Apuane: con i fratelli Calcagno e Gianfranco Negro traversiamo con parecchia neve la Cresta Garnerone e, sempre per cresta (via Questa-Barabino) al Monte Grondìlice.

Con la memoria ben chiara di quanto letto sul mitico Dove la parete strapiomba di Riccardo Cassin, Scabbia ed io salimmo la via Cassin-Dell’Oro al Medale (9 febbraio): anche se lucido già allora per gli innumerevoli passaggi, il famoso traverso conservava il suo smalto.

Il 14 febbraio 1966, con Sandro Balestri e Giovanni Scabbia, vado a ritentare la prima invernale del Pilastro sud-est della Pania Secca. Dopo un bivacco ancora prima dell’attacco, qui ben raccontato da Giovanni, arriviamo alle prime rocce e attacchiamo. Per fare 150 metri impieghiamo 9 (nove) ore, dunque desistiamo scendendo in doppie. Ove si impara che per fare le invernali ci devono essere le “condizioni”.

Il primo bivacco non si scorda più
di Giovanni Scabbia
(pubblicato su Bollettino CAI Sezione Ligure, 1966-1)

Avevo letto. Avevo visto fotografie. Bivacchi in parete, bivacchi bagnati, bivacchi insonni, bivacchi interminabili a temperature polari. Piedi che cominciano lentamente a congelarsi, vento che si insinua in ogni fessura della tendina, tendine che vengono spazzate via come fuscelli, sonno che non viene o che occorre vincere, pensieri paurosi dell’indomani, tempo che porta la bufera con l’alba.

Alpi Apuane. La Pania Secca da sud-est (con il teleobiettivo da San Pellegrinetto): ben riconoscibili, a sinistra la Cresta di Gialunga, e a destra il Pilastro Montagna-Dellacasa

Con un enorme sacco e con questi ancor più pesanti pensieri mi innalzo lentamente lungo la val «strimpella». La pioggia rende viscide le pietre ma ci rinfresca il volto, anche se non è dello stesso parere Sandro (Balestri, NdR) che si richiama a tutte le leggi fisiche e filosofiche per inventare una continua redditizia pulitura degli occhiali. E intanto… un bivacco bagnato con gli abiti che al mattino saranno rigidi per il gelo… è un tarlo che rode. Dobbiamo arrivare là nelle nebbie, ove inizia la neve. Poi cercheremo il posto per la tendina.

Il sacco carico dei risultati di due giornate intere di preparativi non vuole sapere di seguirci docilmente e fugge un po’ a destra un po’ a sinistra. Già, quelle due giornate di preparativi! Là, in sala di Sandro, le idee sbocciavano l’una dall’altra, dal necessario al frivolo, dalle staffe al servizio da unghie! C’era stato, è vero, un brutto colpo nell’accorgersi di aver scordato i fiammiferi per il fornelletto a gas, ma era stato subito dimenticato nel constatare che… anche il fornello era rimasto là, in casa sul tavolo in bella vista per essere messo subito nel sacco!

Ed eccoci nella nebbia (non metaforicamente si intende!). Là ove inizia la neve. Subito a cercare il posto adatto per la notte.
– Lì?
– No, troppo in pendenza!
– Là?
– No, troppo erboso, troppo bagnato.
– Qui?
– Oh no, troppi sassi, io il mio primo bivacco non me lo voglio rovinare!
– Allora ognuno cerca un posto, poi vediamo il migliore!

Parole sagge, degne di Confucio! Io a destra, gli altri due più in là, non siamo mai contenti.
– Ma il primo bivacco non me lo voglio rovinare per una stupidaggine!
E nella ricerca del bivacco si raggiunge limiti mai descritti dalla scala Welzenbach!

– Questo è un passaggio di terzo, d’estate; con la neve è di quarto, di notte è di quinto, senza pila è di sesto… e con gli occhiali appannati raggiungiamo il settimo!

Alpi Apuane. Il Monte Grondìlice da est. E’ ben visibile la cresta nord-ovest, di collegamento con la Cresta Garnerone. Foto: Alberto Benassi.

E invece di lanciare alte grida di gioia, l’occhialuto impreca! Misteri della natura umana!

Beh, come era possibile prevedere, la ricerca del perfetto, aspirazione tra le più intime e virtuose dell’animo umano, e le nostre forti e diverse personalità ci bloccano in tre punti differenti. Io a destra su un prato, forse appellato scherzosamente e goliardicamente dagli altri due «duro come il sasso»!!, ma non troppo lontano dal mio sacco. Al centro Alessandro di fronte ad una bella colata di neve – luogo piano e morbido – dice lui, – artritico e reumatico – diciamo noi. Vince il migliore? Forse è meglio dire “vince chi ha la tenda nel sacco”!

Piccozziamo al lume delle pile, nel bel mezzo della colata di neve.
– Di notte, cosa vuoi che venga giù?
– Già tutt’al più un po’ di neve – borbotto.

Infine la tenda è piazzata. Entriamo. Con un po’ di astuzia riesco ad occupare il posto di mezzo, dai miei rapidi calcoli sulla trasmissione del calore quello dovrebbe essere il punto più caldo della tenda!!

Calcoli che purtroppo non considerano un profondo squarcio della tela esempio tipico di trasmissione diretta neve-piede! Fortuna vuole che si riesca a tappare lo squarcio con il sacco di Sandro, approfittando di un suo momento di disattenzione.
Eccoci in posizione orizzontale. Sì dorme?
– Eh no! Contro il freddo occorre mangiare.

E così quel poco sonno devo vincerlo per cercare di togliermi di dosso tutta l’Ovomaltina che uscita dalla scatola si sta insinuando attraverso tutta l’attrezzatura notturna, che diventa simile a una moderna “botte di Attilio Regolo”. Ed hanno il coraggio di dire che solo i romani erano stoici! Che dire dei piemontesi?

Borbottando che l’Ovomaltina non è per “uso esterno” e stringendo i denti, su un bel pezzo di lardo che mi passa sotto il naso e che si fermerà per tutta la notte nel mio stomaco, mi preparo ad una notte insonne. Conto le pecore… una, due…

Il richiamo di Alessandro ai nostri doveri di alpinisti ci fa sussultare. Inutile ricordare che in una repubblica democratica esistono anche dei diritti, una mezz’ora di quel tanto desiderato sonno che non ci ha lasciato… svegli neppure un istante non ci è concessa.

Un mio tentativo di annunciare con gran clamore che fatto il primo bivacco potevamo portare innanzi la nostra esperienza, iniziandone subito un secondo, non fu valutato e considerato in tutto il suo significato.

Il bivacco era finito; lentamente salivo coi miei due compagni all’attacco della parete. Ogni tanto uno sguardo indietro, e un grande rimpianto: non avrei più rivisto il luogo del mio primo bivacco. Il sole lo avrebbe sciolto!

Una sosta alla base del Monte Ajona (Appennino Genovese) con il corso di alpinismo di Bolzaneto, 13 marzo 1966: da sinistra, Euro Montagna, Giorgio Noli, Salvatore Gabbe Gargioni, XX, YY. In primo piano, Gino Dellacasa e Alessandro Gogna.

Il 13 marzo 1966, con il corso di alpinismo della Sottosezione di Bolzaneto, salgo con buone condizioni di neve il canale di sinistra della parete est-nord-est del Monte Ajona. Dopo un’uscita al Roccione di Cravasco (con Vittorio Stemari, 17 marzo, tetto Calcagno), finalmente un bel weekend di roccia difficile in Grignetta: la via del Littorio alla Torre Costanza, con Gianni Calcagno, Sandro Balestri e Roberto Titomanlio (19 marzo).
Altri due genovesi, Sandro e Roberto, hanno oggi ingros­sato le file. Il secondo però è un oriundo tarvisiano. Dopo una riposante nottata alla stazione ferroviaria di Lecco, in mezzo a lunghe barbe, alpini e operai in piena discussione, arriviamo ai Piani dei Resinelli. Il tarvisiano è un po’ stancuccio per via della notte e Sandro tace, segno cattivo. Io sono reduce dal morbillo e quindi Gianni è l’incaricato di ricucire insieme le membra della stanca cordata. Saliamo verso il Costanza per i ripidi prati a velocità molto sostenuta, il che non manca di provocare alcuni mugugni… Finalmente ci leghiamo e consta­tiamo che il freddo è grande, guanti non ce n’è, il gelo intasa anche le prime fessure. Delle urla provengono dal vicino sen­tiero della Direttissima, dovute alla disorganizzazione delle co­mitive, impegnate nell’attraversamento di ripidi colatoi di neve gelata. Noi intanto assideriamo e proseguiamo con movimenti automatici. Incerto se volare o no ad ogni passo, ogni chiodo che vedo lo riempio di staffe. Purché la progressione sia così assicurata, oggi non conosco né stile né purezza. Finalmente la vetta: Gianni e Sandro sono qui da parecchio. I programmi per il giorno dopo riguardavano la Cassin del Costanza, ma, viste le riuscite prove di oggi, la volontà non è più ferrea. Stanca­mente ci avviamo alle doppie e al rifugio“.
Il giorno dopo, con Gianni, è la volta di un altro piccolo mito: la Comici al Nibbio, quella che il grande triestino aprì sotto gli occhi attenti dei lecchesi, vero banco di prova anche oggi.
Ancora brutto tempo e perciò il massimo che si può fare è il Nibbio, con intimo sollievo. Con distacco affrontiamo la Comici, la finiamo e poi basta: è l’abulia più completa. Il tarvisiano nel frattempo fa la coda sulla Merendi, appollaiato su una staffa… Il ritorno al rifugio è anticipato di molto rispetto agli altri giorni. La Fortunata, disegnato sul volto il più genuino stupore: «Toh, i genovesi! Come mai così presto oggi?».
«Eh, si vede che siamo in decadenza!», è l’acuta risposta di Gianni“.
Nello stesso giorno salgo il Camino Mosca, sempre al Nibbio, con l’ormai familiare Roberta Brivio.

Seguono altre uscite che elenco rapidamente, tutte nelle palestre vicino a Genova: Roccione del Pecoraio (un pietrone vicino ai Prati di Praglia, sopra San Martino di Paravànico, con i coniugi Pàstine, 26 marzo); Bric Camulà (la palestra della vetta, con il corso di roccia di Bolzaneto, 27 marzo); Pietragrande, per la ventesima volta, con Lino Calcagno e per le due vie della parete nord, 2 aprile; Bajarda (Pietralunga), con il corso di Bolzaneto, dove con Ferruccio Jöchler e gli allievi ripetiamo quasi tutti gli itinerari, 3 aprile.

Il 7 aprile 1966 mi vede con Maurizio Cappellari sulla via Polvara (spigolo nord) della Guglia Angelina (Grignetta), cui facciamo seguire (con il principiante Massimo Piccirilli) la via normale della Torre. Subito dopo salgo da solo la normale del Torrione Lancia. Il tutto tra piovaschi e nebbie. Il giorno dopo è ancora schifoso: dopo una notte orribile in tenda con Maurizio e Roberta, mentre stiamo per vomitare, attacchiamo con Maurizio la via Merendi al Nibbio, salvo poi scendere dopo un tiro. Con Roberta salgo lo spigolo nord del Nibbio, su roccia fradicia. Il 9, incredibile a dirsi, faccio riposo perché il tempo impedisce qualunque uscita. Il 10 aprile è la volta (con Angelo Piccozzi) della via Cassin al Nibbio, bella dura così fradicia. Il rinforzo portato dai fratelli Calcagno mi permette di salire, nella stessa giornata, anche la via Boga al Nibbio. Solo l’11 il tempo migliora, così con i fratelli Calcagno e per la via Rizieri con variante Colombo, attacchiamo il Sigaro e “in breve ce lo fumiamo tutto“.

Ormai abbiamo capito quali sono le vie da fare in Grignetta per essere un po’ “considerati”. I piani di battaglia sono molti, ma il brutto tempo di questa primavera sembra ineguagliabile. Ancora con il corso di Bolzaneto mi tocca un’uscita al Monte Pennone e al Picco Palestra (17 aprile), e poi eccoci, sempre con il dinamico duo Calcagno, sulla via Panzeri bassa al Torrione Magnaghi Meridionale (24 aprile), seguito dall’intera traversata dei Magnaghi conclusa con la via Fasana.

Il 30 aprile, ancora una volta alla Pietragrande, con Tullio Di Martino, Nello Tasso e Azzarini (nome di battesimo perduto…): facciamo lo Spigolo Campora, la via Direttissima sud e lo Spigolo Basso.

Gabriele Beuchod sulla via Cassin alla parete sud della Torre Costanza, 13 giugno 1980

Continua la campagna di “abbattimento” delle mete più ambite della Grignetta: il 1° maggio 1966 è la volta, con i due Calcagno, della via Cassin alla parete sud della Torre Costanza, un itinerario che c’impegna assai e che ci riempie di ammirazione (se mai ce ne fosse stato bisogno) per il grande Riccardo nazionale. In discesa alla mitica ‘500, saliamo anche l’esile spigolo Boga della Torre Giulia.

8 maggio 1966: salita con il corso di Bolzaneto alla vetta della Grignetta per la Cresta Cermenati (si vede che il tempo era davvero orrido); poi la via dei Ciuck al Nibbio con un allievo. Alla fine della giornata, liberazione grazie a Paolo Armando, quello che sarebbe diventato il mio grande compagno di scalate: quel giorno assieme facciamo la via Comici al Nibbio.

Alessandro Gogna sulla prima lunghezza della via Comici al Nibbio, 1 novembre 1966

Riesco a portare la Roberta non so più con quale scusa dalle parti di Genova, quindi il 9 giugno andiamo assieme alla Pietragrande, mentre il 12 giugno, con la ben numerosa compagnia di Gianluigi Vaccari, Giulio Costa, Balestri, i coniugi Pàstine, Euro Montagna e altri (tra i quali una certa Fiorella), ci spingiamo, pensate un po’, per l’ennesima volta al Roccione di Cravasco.

Il 19 giugno arranchiamo nella neve verso il bivacco Villata, sotto alla Nord del Monviso. Sono assieme ai due Calcagno, a Jöchler e a Paolo Armando, che è lì con un suo amico. Vogliamo salire la via Coolidge al Monviso, ma la bufera del 20 giugno ci arresta a un quarto della salita. Non serve neppure l’aver purtroppo atteso il giorno dopo, che è ancora peggio, per scendere a valle.

Il 25 giugno 1966 saliamo al rifugio Auronzo, sotto alle cime di Lavaredo. La meta è lo Spigolo Giallo della Piccola, salita che faccio raccontare a Vittorio Pescia.

Partita a sei sullo Spigolo Giallo
di Vittorio Pescia
(Bollettino CAI Sezione Ligure, 1966-2)

Alzo gli occhi, piegando il capo all’indietro, oltre le ghiaie ripide, là, su quella fiamma rossa fatta di pietra; seguo il suo slancio verso l’azzurro, sino all’ultimo guizzo, mentre le nubi, spinte dal vento, ne lambiscono la vetta dando l’illusione che la roccia avanzi verso di me. Ho davanti lo Spigolo Giallo della Cima Piccola di Lavaredo.

Emilio Comici lo vide e disse: «Quella è una via ideale da percorrere» e la percorse «compiendo l’arrampicata più aerea, più esposta che si possa immaginare: perché lo spigolo è veramente affilato come un tagliamare, un aratro, una spada e continuamente strapiomba, ed il vuoto incombe non solo sotto l’arrampicatore, ma a destra e a sinistra, e lo sguardo non si riposa più sulle rocce, ma continuamente si perde nell’aria» e disse ancora: «Due giorni di furibonda lotta abbiamo vissuto su quello Spigolo, quando lo cavalcammo aggrappati ad appigli microscopici…».

Tanti anni sono trascorsi da quel giorno, molte volte sono passato su questo sentiero, molte volte ho guardato quella roccia, ma allora tornavo dalla via normale della Cima Ovest, dalla via normale o dal Camino Mosca o dallo Spigolo Dibona della Cima Grande, oppure da una lunga traversata da rifugio a rifugio. Guardavo quella prua gigantesca con timore e ammirazione ma come una cosa che non mi appartenesse, come un mondo che mi fosse precluso.

Non vorrei narrarvi le solite cose, né farvi sapere che ho scalato lo Spigolo Giallo (ormai tanti mi hanno preceduto) vorrei riuscire a trasmettervi quello che ho provato, perché mi sono attaccato a quelle rocce, ma la mia penna non è in grado di farlo.

La sera del giorno seguente (a salita compiuta), mentre la macchina filava sull’autostrada Venezia-Milano, colma di zaini e di cinque di noi, ebbi con Gianluigi Vaccari uno scambio di idee sull’alpinismo in genere e su quello «estremo» in particolare; si toccarono anche argomenti più umani e si misero a nudo i nostri sentimenti e i nostri egoismi.

I miei dubbi sul diritto dell’alpinista di giocare con la vita, dimenticando tutto, beandosi della gioia della conquista, dubbi già espressi in altri articoli pubblicati, ritornarono a galla e mentre l’auto correva, li riproposi a tutti.

La Cima Piccola di Lavaredo con il suo inconfondibile Spigolo Giallo.

Gianluigi è un giovane particolare, ha un aspetto atletico, un portamento fiero, da nobile; quando deve volgere la testa non la fa ruotare sul collo, ma muove l’uno e l’altra insieme, senza spostarsi con le spalle, sembra un’aquila posata su una roccia mentre domina dall’alto. Da quel suo modo di parlare, senza gestire, per quel suo naso particolare, l’ho soprannominato «Reza Palevi». Reza è uomo di poche parole, dice sempre di sì ad ogni proposta, dà sempre ragione in ogni discussione, ma poi pensa e agisce come gli pare.

Quella sera non fece così, stufo di sentire le mie solite recriminazioni, mi investì con una valanga di parole che mi stupirono. La sua conferenza durò da Padova a Milano e quasi mi convinse dicendomi come e perché l’alpinista moderno può superare difficoltà estreme con un margine di sicurezza superiore a quella con cui i parrucconi come me affrontano le salite tradizionali, da capocordata. Mi disse che nessun «rimorso» lo afferra quando decide di intraprendere una scalata perché al momento di iniziare ad arrampicare è preparato fisicamente e moralmente e neppure lo sfiora il dubbio di non farcela.

L’alpinismo, pur non essendo uno sport, deve essere affrontato con il metodo e le regole di uno sport, ed è così che egli fa, presentandosi all’appuntamento di una scalata sempre in perfetto stato di allenamento. Sigarette, donne, veglie sono cose che debbono essere lasciate sotto chiave almeno per il periodo preparativo e sino a salita effettuata. Mentre parlava così, con voce decisa, lo rivedevo sullo Spigolo Giallo, sempre sicuro, calmo, arrampicare con stile perfetto, rispondere alle mie domande con voce tranquilla, anche quando il passaggio richiedeva silenzio e concentrazione. Allorché lo raggiungevo, non riuscivo mai a vedere un viso preoccupato, un’espressione che denunciasse stanchezza: quello che ora diceva era dunque verità.

Ogni regola ha comunque la sua eccezione, che in questo caso è rappresentata proprio dall’altro Vaccari. Eugenio è tutto diverso dal fratello, pare che si diverta a dimostrare che si possono raggiungere le stesse mete passando da sinistra anziché da destra. In una cosa si somigliano: nella statura e nella corporatura atletica, per il resto tutto diverso. Eugenio si muove come un boxeur, il portamento nobile del fratello è scomparso, il suo naso è alquanto schiacciato, il mento ornato da una folta barba tenta invano di rendere importante e serio un viso che, invece, denota i lineamenti di un prendi in giro. Non fa ginnastica, fumacchia qualche sigaretta (possibilmente quelle degli altri) ha la ragazza, eppure quando arrampica, pare la controfigura del fratello. Lui non partecipava alla discussione: forse, accanto alla fidanzata, era occupato da altri pensieri.

Alessandro Gogna (20 anni) interveniva sovente, come è suo costume, e lo faceva con ragionamenti tutti particolari, assolutisti che rispecchiano la sua giovane esistenza di alpinista nato adulto e con questo intendo dire di un alpinista che è entrato nel regno dell’estremamente difficile saltando a pié pari, tutto quanto precede il V e VI grado.

In arrampicata sullo Spigolo Giallo, tempi odierni

Tornando per un attimo sullo Spigolo Giallo, osservo questi ragazzi muoversi come dei vecchi esperti, li vedo cercare il giusto passaggio, calmi, in posizioni assurde, senza mai denotare stanchezza. Alessandro si alterna con Eugenio, ma il ritmo della salita resta immutato, poi Gianluigi con il sottoscritto che cerca di giocare con tutta la sua esperienza per non stancare i muscoli con un qualsiasi movimento sbagliato.

Sulla roccia affilata, strapiombante, i genovesi hanno voluto portare una buona rappresentanza, la partita si gioca addirittura in 6, ci seguono infatti i fratelli Gianni e Lino Calcagno.

Due ragazzi in gamba, instancabili; per loro, fare seicento chilometri «saltando» la notte a bordo di una macchinetta microscopica, giungendo in Lavaredo in una mattinata nebbiosa, attaccare e superare la Punta Frida per la via Comici, poi, il giorno seguente, salire lo Spigolo Giallo, poi la mattina seguente andarsene sulla Piccolissima per la fessura Preuss è una cosa di normale amministrazione. Proprio sullo spigolo ebbi occasione di conoscerli meglio, prima avevo qualche riserva sul loro carattere un po’ ostinato, da tedeschi, sulla loro unica «fissazione»: la montagna. Là essi mi furono veri compagni e, nelle poche parole che ci scambiammo, imparammo a conoscerci meglio.

Su un esiguo punto di sosta, quando Gianni mi raggiunse porgendomi l’asola della corda perché la passassi nel moschettone mi disse: «E’ una salita meravigliosa, che cancella tutte le mie precedenti in fatto di estetica e di continuità, e poi la sto facendo con i migliori compagni che potessi desiderare».

Perché io andai a fare questa scalata è storia complessa, né voglio seccarvi con i miei problemi, comunque non certo per continuare, come faranno i miei giovani compagni, a superare scalate di questa difficoltà. A me piace di tanto in tanto aprire una finestra che dia su un panorama nuovo, diverso da quello che sono abituato a vedere, ma poi amo ritornare alle cose note, ai «luoghi ameni» e tranquilli.

Quando si sta per concludere una vita alpinistica è bello avere percorso anche qualche «via» famosa e lo Spigolo Giallo è quasi un’opera d’arte e l’uomo che per primo la creò, veramente era un artista.

Da poco ho posato il telefono: Giorgio Noli mi aveva chiamato per sapere com’era andata, se ce l’avevo fatta: anche a lui, che mi è stato compagno in tante salite, devo parte dello Spigolo Giallo.

Come già accennato da Pescia, il giorno dopo 26 giugno, salgo con i due Calcagno la via Preuss alla Cima Piccolissima. Ormai è l’inizio di luglio, la tanto sospirata settimana al Monte Bianco si avvicina. Ma prima vado per la 23a volta alla Pietragrande, con gli amici fratelli Vaccari, Franca Simondi, Titomanlio, Giulio Costa e, assieme ad altri ancora, la mitica, la divina Annabella Cabianca, che non faceva che popolare i miei sogni notturni.

 

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Extradiario – 05 – Lo Spigolo Giallo ultima modifica: 2018-04-22T05:08:38+02:00 da GognaBlog

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3 pensieri su “Extradiario – 05 – Lo Spigolo Giallo”

  1. Mi hai ricordato Vittorio Pescia, un mugugnone dal cuore grande a cui la vita non è stata molto amica… Racconti che fanno rivivere epoche lontane e belle. Ciao

  2. Nello stesso anno, ma in settembre, lo ho salito anch’io con mio fratello Renzo, ma non lo sapevo che il Gognone, o Pamich come ti avevamo soprannominato, a quel punto lo Spigolo Giallo l’aveva già fatto; tu non ci dicesti certo nulla. Ha ragione Luca Visentini, forse a settembre avevi già fatto chissà mai cos’altro, al Bianco.

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